L’ammissione al passivo fallimentare del credito della banca da conto corrente e il problema della data certa
di Valerio Sangiovanni, Avvocato Scarica in PDFIn caso di procedure concorsuali, fra i creditori che cercano soddisfazione rientrano tipicamente le banche. Gli istituti di credito possono vantare crediti da finanziamento non onorati (mutui e leasing) oppure crediti da esposizioni debitorie in conto corrente. Quale che sia l’origine del credito, in caso di dichiarazione di fallimento del debitore è necessario per la banca presentare domanda di ammissione al passivo, pena la perdita definitiva del proprio credito.
Il creditore deve presentare domanda di ammissione al passivo e, a questo riguardo, l’art. 93 comma 6 legge fallimentare stabilisce che “al ricorso sono allegati i documenti dimostrativi del diritto del creditore”. Nel caso di chiusura di un conto corrente in rosso, quali sono allora i documenti che la banca creditrice deve trasmettere al curatore per ottenere l’ammissione del proprio credito?
Per rispondere a questo quesito bisogna tenere in considerazione anche l’art. 94 legge fallimentare, secondo cui “la domanda [di ammissione al passivo] produce gli effetti della domanda giudiziale” Essendo la domanda di ammissione al passivo equiparata a una domanda giudiziale, gli oneri probabori sono particolarmente elevati per chi asserisce di vantare un credito. Più in generale l’art. 2697 c.c. stabilisce che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Nell’ambito di un contratto bancario di conto corrente, la banca deve dunque produrre il testo del contratto di conto corrente nonché gli estratti conto da cui risulta l’attuale esposizione debitoria.
Il punto è che il contratto di conto corrente, di per sé, non è idoneo a generare una posizione creditoria della banca, in quanto il contratto di conto corrente non autorizza il correntista ad andare in rosso, prelevando somme che non sono disponibili sul conto. Affinché si possa creare una esposizione debitoria in conto, è necessario che – oltre che il contratto di conto corrente – sia stipulato un secondo e distinto contratto di apertura di credito. La legge italiana definisce l’apertura di credito bancario come “il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato” (art. 1842 c.c.). In caso dunque di un affidamento, la banca – in sede di domanda di ammissione del proprio credito al passivo fallimentare – deve produrre anche copia del contratto di apertura di credito.
Riassumendo, sono tre i documenti che la banca deve produrre al curatore:
- il contratto di conto corrente (art. 1823 c.c.);
- il contratto di apertura di credito (art. 1842 c.c.);
- l’estratto conto con indicazione del saldo debitore finale.
Prodotti questi documenti, in linea di principio nulla osta all’ammissione del credito della banca.
Va tuttavia rilevato che i contratti conclusi fra banca e correntista (contratto di conto corrente) e fra banca e affidato (contratto di apertura di credito) sono contratti intercorsi fra persone rispetto alle quali il curatore si pone come terzo. Il curatore può insomma opporre alla banca il difetto di data certa dei contratti. Come è noto, “la data della scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione non è certa e computabile riguardo ai terzi, se non dal giorno in cui la scrittura è stata registrata” (art. 2704 comma 1 c.c.).
I contratti di conto corrente e di apertura di credito non presentano di norma firme autenticate, così che la loro data è incerta e il curatore può opporre alla banca che chiede l’ammissione del credito l’assenza di data certa.
In questo contesto (ammissione al passivo di crediti da rapporti di conto corrente) merita di essere segnalata una recente ordinanza della Corte di cassazione (ordinanza n. 27203 del 23 ottobre 2019). I fatti di causa possono essere così riassunti. Una banca chiede l’ammissione al passivo relativamente a un credito risultante da conto corrente. L’istituto di credito, diligentemente, produce sia il contratto di conto corrente sia il contratto di apertura di credito. Il credito tuttavia non viene ammesso nella sua interezza perché il contratto di apertura di credito non ha data certa.
In genere i contratti di conto corrente sono dei meri contratti-quadro che non contengono le condizioni economiche applicabili alle esposizioni debitorie che dovessero in futuro generarsi sulla base dello svolgimento del rapporto fra le parti. È invece il contratto di apertura di credito a contenere le condizioni economiche, fra cui quella più importante è senz’altro il tasso debitore. Questa situazione che si riscontra frequentemente nella prassi è del resto comprensibile se si riflette sul fatto che, nell’ambito di un unico contratto di conto corrente a tempo indeterminato, possono essere concessi più fidi nel corso del tempo. Se, ad esempio, il contratto di conto corrente è stipulato nel 2010, è inutile che si preveda il tasso debitore già nel contratto di conto corrente, in quanto il tasso deve riflettere le condizioni di mercato in ogni dato momento. E così: se verrà chiesto un fido nel 2015 si applicherà il tasso di mercato del 2015, mentre se verrà chiesto un fido nel 2020 si applicherà il tasso di mercato del 2020.
Tornando al recente caso affrontato dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 27203 del 2019), l’autorità giudiziaria – accertata l’assenza di data certa del contratto di apertura di credito – conclude nel senso che non si possa applicare il tasso di interesse indicato nel medesimo contratto. Se, difatti, il contratto di apertura di credito non è opponibile alla curatela, esso non può produrre effetti. E l’effetto del contratto è l’obbligo di corrispondere gli interessi pattuiti nel medesimo contratto.
La Corte di Cassazione nega dunque che la banca possa essere ammessa al passivo per il suo credito da interessi. Tuttavia l’autorità giudiziaria riconosce che vi è stata l’erogazione di determinati importi nel corso del tempo a favore dell’affidato. Detti importi risultano dagli estratti conto. La Cassazione afferma che il capitale deve essere restituito e conclude dunque nel senso di ammettere il credito della banca ma solo per la voce capitale e non per la voce interessi.
Per quanto riguarda la natura (privilegiata o chirografaria) del credito della banca, le esposizioni in conto corrente determinano crediti non garantiti, diversamente dal credito bancario assistito da ipoteca. Ne consegue che il credito viene ammesso come chirografario (e, come si diceva, solo per la quota capitale).
In via riassuntiva, considerati gli stringenti oneri di allegazione che fanno capo alle banche in sede di ammissione al passivo, si può consigliare agli istituti di credito di assicurarsi che i contratti bancari da essi stipulati rechino la data certa. Il problema ovviamente non si pone in caso di credito fondiario, dal momento che l’atto è redatto da notaio. Nei “comuni” rapporti di conto corrente e di apertura di credito la problematica è però particolarmente sentita. Ai sensi dell’art. 95 comma 1 legge fallimentare “il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione”. È chiaro che i curatori, che si trovano spesso davanti a attivi minuscoli e passivi enormi, non esitano a eccepire – oltre che la mancanza di documentazione – anche l’assenza di data certa.