La tutela esecutiva dei crediti bagatellari
di Salvatore Ziino Scarica in PDFL’Autore esamina alcune recenti sentenze della Corte di cassazione che hanno negato tutela giurisdizionale, per carenza di interesse ad agire in via esecutiva, nel caso di crediti di importo irrisorio. Queste decisioni devono essere esaminate in relazione alle concrete vicende processuali ed è errato affermare che, secondo la giurisprudenza, l’accesso alla tutela dei diritti è consentito soltanto se il valore economico supera un determinato importo.
1. Valore economico della controversia e interesse ad agire in via esecutiva. – 2. Il caso che ha dato origine all’affermazione del principio. – 3. La giurisprudenza successiva: un ritorno alle norme. – 4. Conclusioni.
- Valore economico della controversia e interesse ad agire in via esecutiva.
Alcune recenti sentenze della Corte di cassazione hanno affrontato un nuovo tema: la tutela del credito c.d. bagatellare.
Segnatamente, alcune decisioni sembrano escludere che il creditore possa agire per la soddisfazione di crediti di importo irrisorio e paventano che l’azione esecutiva a tutela di questi crediti costituirebbe un abuso del diritto.
La massima ufficiale della sentenza della Suprema Corte, che ha suscitato le critiche della dottrina, è la seguente: «In tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l’interesse a promuovere l’espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell’art. 24 Cost. in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 Cedu (Nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l’intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l’esistenza di un residuo credito di circa venti euro a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento)» (Cass. 3 marzo 2015, n. 4228, in Corr. giur., 2016, p. 251, con critica di Panzarola, Davvero il diritto di azione (art. 24, comma 1, Cost.) dipende dal valore economico della pretesa?; e in Riv. es. forzata, 2015, p. 449, con nota di Asprella, Frazionamento del credito, abuso del processo e interesse a proporre l’azione esecutiva. Critico anche Costantino, L’interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo, in Giusto proc. civ., 2015, p. 929. La sentenza è commentata pure da Sajia, Per un pugno di euro. L’interesse ad agire nell’esecuzione forzata, in Riv. trim dir. proc. civ., 2016, p. 1489 ss. Sul tema v. pure Cass. 15 dicembre 2015, n. 25224, che sarà esaminata infra).
Nei giudizi portati all’esame della Suprema Corte, i crediti, che avevano determinato l’avvio delle azioni esecutive, ammontavano a pochi euro; nelle motivazioni si parla di controversie dal «valore economico oggettivamente minimo» (in un caso, il credito oscillava tra euro 12,71 ed euro 21,68; in un altro si trattava di euro 8,58: è appena il caso di segnalare che l’oggetto del contendere davanti alla Suprema Corte aveva un valore ben più elevato, perché nel frattempo erano maturate le spese del processo esecutivo e le spese dei diversi gradi del giudizio di opposizione all’esecuzione).
I commentatori hanno subito usato l’espressione «crediti bagatellari» per indicare questi crediti di importo irrisorio (Petronzi, Nessuna azione esecutiva se il debitore paga l’intero importo precettato e il credito residuo è oggettivamente bagatellare, in EcLegal, 1 febbraio 2016).
Vale la pena ricordare che nella lingua italiana per bagatella (o bagattella) si intende una cosa di nessun valore, un’inezia; il termine ha una notevole diffusione nel linguaggio giuridico anche perché nell’ordinamento tedesco sono denominati bagatellverfahren i procedimenti civili relativi alle controversie di modesto valore economico.
- Il caso che ha dato origine all’affermazione del principio.
Nell’esame della giurisprudenza, occorre prendere le mosse dalla sentenza n. 4228/2015 della Corte di cassazione, la quale ha affermato, per la prima volta, che l’interesse ad agire sussiste soltanto qualora la controversia non abbia un valore economico simbolico; l’interesse ad agire va invece escluso «qualora l’entità del valore economico della è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse stesso» (così in motivazione).
Per comprendere la decisione, appare opportuno riassumere i fatti di causa.
Il creditore notifica atto di precetto per circa euro 17.000,00 e riceve in pagamento l’intero importo precettato, a mezzo assegno circolare, inviato dal debitore con lettera raccomandata.
Il creditore inizia egualmente un procedimento di espropriazione presso terzi per l’intero importo e il debitore propone opposizione all’esecuzione.
Nel giudizio di opposizione all’esecuzione, il creditore (rectius: l’originario creditore) afferma che aveva diritto di procedere ad esecuzione forzata, in quanto tra la notifica dell’atto di precetto e il pagamento erano maturati interessi (quantificati in un importo compreso tra euro 12 ed euro 21, a seconda se si considera come termine finale la data della spedizione o la data della consegna della lettera raccomandata contenente l’assegno circolare).
Nella comparsa conclusionale depositata in primo grado, il creditore deduce pure che aveva dimenticato di inserire nel precetto alcune voci (le spese di notifica e il diritto di disamina della relazione di notifica, per totali 24 euro).
Il tribunale accoglie l’opposizione e il creditore propone ricorso per cassazione (la sentenza di primo grado è stata emessa nel 2008, vale a dire nell’arco del triennio – compreso tra l’entrata in vigore della legge 24 febbraio 2006 n. 52 e la legge 18 giugno 2009, n. 69 – in cui il legislatore aveva escluso la appellabilità delle sentenze emesse nei giudizi di opposizione all’esecuzione).
La Suprema Corte afferma che le spese ed i residui compensi per la disamina della notifica non potevano fondare l’azione esecutiva in quanto non erano stati richiesti nell’atto di precetto.
Il secondo motivo di ricorso, relativo al diritto del creditore al pagamento degli interessi viene invece rigettato per carenza di interesse ad agire in via esecutiva: secondo la Corte di cassazione il creditore non avrebbe avuto interesse ad agire per la riscossione di crediti di valore così irrisorio.
Più in generale, continua la Suprema Corte, nelle controversie meramente patrimoniali, l’accesso al giudice è giustificato soltanto se il valore economico della pretesa superi una soglia minima di rilevanza.
In motivazione si legge pure che l’inizio dell’espropriazione per un credito irrisorio costituirebbe un abuso del processo e una violazione degli obblighi di buona fede, allo stesso modo del frazionamento della domanda giudiziale, già dichiarato illegittimo dalle Sezioni Unite con sentenza 15 novembre 2007, n. 23726.
La decisione ha immediatamente suscitato fondate critiche della dottrina, in quanto nessuna norma consente al giudice di introdurre barriere all’esercizio di un diritto sulla base del valore economico e l’art. 24 della Costituzione riconosce il diritto di agire in giudizio; la dottrina ha pure osservato che il limite introdotto dalla Suprema Corte sarebbe del tutto arbitrario in quanto manca un parametro che consenta di fissare un importo, al di sotto del quale «l’entità del valore economico è oggettivamente minima» (in questo senso si rinvia alle chiare considerazioni, tra loro convergenti, di Panzarola, Davvero il diritto di azione (art. 24, comma 1, Cost.) dipende dal valore economico della pretesa?, cit., p. 253 ss., e di Asprella, Frazionamento del credito, abuso del processo e interesse a proporre l’azione esecutiva, cit., p. 449 ss. Meno critica la posizione di Saija, Per un pugno di euro. L’interesse ad agire nell’esecuzione forzata, cit., p. 1496, il quale ritiene che il principio enunciato dalla sentenza sull’interesse ad agire sarebbe «un’argomentazione resa ad abundantiam, ossia un obiter dictum» e difende il merito della decisione richiamando la necessità di limitare l’accesso alla giustizia. Contro questo argomento, spesso invocato dalla giurisprudenza, ma privo è di qualsiasi fondamento normativo: cfr., per tutti, Costantino, L’interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo, cit., p. 932).
In questa sede appare utile sottolineare che il principio affermato con superficialità dalla Corte di cassazione appare frutto di una destrutturazione della motivazione, piuttosto che una consapevole scelta di valore.
La Suprema Corte, di fronte ad un comportamento del creditore sicuramente censurabile, ha scelta una scorciatoia, ovvero la motivazione per principi, invece di procedere all’esame delle norme applicabili.
Detto diversamente: per la Suprema Corte è stato più agevole (e forse per l’estensore è stato più gratificante) motivare la propria decisione, affermando principi generali o richiamando norme in bianco, come quella sull’interesse ad agire, che possono essere facilmente riempite dei contenuti più diversi, piuttosto che affrontare la disciplina positiva e verificare la sussistenza di precedenti giurisprudenziali.
Questa impressione è confermata dal fatto che la stessa sentenza ha esaminato nel merito il precedente motivo di ricorso, che aveva la stessa rilevanza economica ma poteva essere deciso con una motivazione più agevole.
Il Supremo Collegio tuttavia non ha considerato che la affermazione di un principio di diritto va ben oltre il caso deciso, soprattutto se proviene dall’organo di vertice dell’ordinamento giudiziario.
- La giurisprudenza successiva: un ritorno alle norme.
Il principio affermato della sentenza n. 4228/2015 è stato immediatamente invocato dalle parti in altri procedimenti per paralizzare le iniziative delle controparti; non risulta che nessuna decisione successiva abbia affermato lo stesso principio e pochi mesi dopo la giurisprudenza ha deciso un caso analogo con una motivazione diversa (Cass. 15 dicembre 2015, n. 25224).
La fattispecie era sostanzialmente identica: il creditore aveva incassato l’intero importo precettato, ma aveva iniziato egualmente l’esecuzione forzata, asserendo di essere rimasto creditore degli interessi maturati tra la notifica dell’atto di precetto e il pagamento, quantificati in euro 8,58.
La Corte ha richiamato il precedente ed ha confermato che, se il debitore ha pagato le somme oggetto dell’intimazione, il creditore non ha il diritto di procedere in via esecutiva.
Tuttavia il nucleo della motivazione è un altro ed è contenuto nei passaggi successivi della decisione, dove si legge che il creditore non può agire perché si è «in presenza di un adempimento praticamente totale; in tempi sostanzialmente coincidenti con il normale sviluppo delle fasi preparatorie ed iniziali della procedura esecutiva».
A rafforzare la motivazione, la Corte ha aggiunto che il creditore, salvo che ricorrano specifiche circostanze che consiglino di non invitare il debitore a pagare spontaneamente l’importo dovuto, ha il dovere di chiedere l’adempimento in via stragiudiziale prima di iniziare l’espropriazione forzata (in motivazione viene richiamata Cass., ord. 23 dicembre 2008, n. 30300, la quale ha affermato che, nel caso di pagamento bonario, le spese di precetto non sono ripetibili, qualora il creditore notifichi atto di precetto prima ancora che la cancelleria abbia comunicato alle parti l’avvenuto deposito della sentenza; si ricorda che il difensore che dia inizio ad azioni esecutive prima di avere chiesto l’adempimento bonario al legale della controparte viola il dovere di colleganza e il divieto di dare inizio ad azioni ingiustificate e vessatorie: cfr. Cass. 23 dicembre 2009, n. 27214 e CNF 17 febbraio 2016, n. 9).
In altri termini, secondo la sentenza n. 25224/2015, il pagamento delle somme intimate in atto di precetto, se avvenuto prima dell’inizio dell’esecuzione, ha efficacia pienamente estintiva del diritto di credito e, laddove il creditore ritenga di avere un credito residuo, non può avvalersi dello stesso precetto ma deve procedere ad una nuova intimazione.
Con questo ragionamento, fondato su norme e non su principi arbitrari, la Suprema Corte ha correttamente escluso il diritto del creditore, che abbia incassato l’intero importo precettato, di agire in via esecutiva.
Peraltro, non sembra che si possa dubitare del fatto che il precetto consuma i suoi effetti, se il debitore paga l’intero importo precettato: l’art. 480 c.p.c. stabilisce espressamente che «il precetto consiste nell’intimazione di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni, salva l’autorizzazione di cui all’articolo 482, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà a esecuzione forzata».
Il tenore letterale della norma è chiaro: il creditore può agire esecutivamente soltanto se il debitore non paga l’importo precettato.
La sentenza n. 4228/2015 avrebbe dovuto leggere ed applicare l’art. 480 c.p.c. invece di richiamare principi molto dubbi.
Solo per completezza si aggiunge che il tempo costituisce un elemento imprescindibile di cui il diritto deve tenere conto: l’adempimento da parte del debitore è sempre tardivo rispetto alla liquidazione del credito. La dinamica della vita umana impone uno scarto temporale tra le diverse azioni e il diritto sostanziale (prima ancora del diritto processuale) si deve piegare a questa realtà.
Il distacco temporale tra la notifica dell’atto di precetto e il pagamento bonario costituisce un evento ineluttabile e, ai sensi dell’art. 480 c.p.c., grava sul creditore, che pure in altri casi deve subire il decorso del tempo: basti pensare al divieto di pagamento in contanti, che impone al creditore di ricevere in pagamento gli assegni, con conseguente perdita di valuta.
In ogni caso, anche se si dovesse ritenere che il debitore resti obbligato al pagamento degli interessi maturati tra la notifica dell’atto di precetto e il pagamento (con il rischio di un progressus in infinitum), il credito residuo potrà giustificare l’inizio di una nuova azione esecutiva soltanto previa notifica, da parte del creditore, di un nuovo atto di precetto.
- Conclusioni.
Allo stato, non ci sono elementi che consentano di affermare che la giurisprudenza neghi tutela esecutiva ai crediti di scarso valore economico. Tuttavia non si può trascurare che il principio enunciato dalla sentenza n. 4228/2015 della Corte di cassazione minacci le fondamenta dello stato di diritto.
Il principio, secondo il quale il credito di entità economica oggettivamente minima non meriterebbe tutela esecutiva, sembra essere stato ridimensionato dalla giurisprudenza successiva, dopo le severe critiche della dottrina.
Un segnale incoraggiante viene pure da alcune recenti sentenze della Suprema Corte, che si sono pronunciate in un contenzioso seriale tra una nota società di telefonia ed alcuni clienti: il valore di ciascuna controversia era di euro 0,11.
Tutte queste sentenze hanno rigettato l’eccezione di difetto di interesse ad agire sollevata dai controricorrenti ed hanno affermato che il principio enunciato da Cass. 4228/2015 riguarda soltanto il processo esecutivo e non può essere invocato nei giudizi di cognizione. La Suprema Corte ha quindi deciso nel merito i ricorsi (Cass. 20 gennaio 2017, n. 1565 e n. 1566, nonché Cass. 25 gennaio 2017, n. 1925 e Cass. 27 gennaio 2017, n. 2168).