La titolarità del diritto azionato può essere contestata in ogni stato e grado del processo: la contestazione dell’attore può risultare anche dalle difese del convenuto
di Mattia Polizzi Scarica in PDFCass., Sez. II, sent. 6 dicembre 2016, n. 24952
Titolarità diritto azionato – Contestazione – Mere difese – Sufficienza (Cod. proc. civ., art. 115, 167, 345; cod. civ., art. 2697)
[1] La titolarità attiva della posizione soggettiva azionata in giudizio può essere contestata anche per il tramite di mere difese, come tali proponibili in ogni stato e grado del processo.
Titolarità del diritto azionato – Allegazione da parte del convenuto – Sufficienza (Cod. proc. civ., art. 115, 167, 345; cod. civ., art. 2697)
[2] La proponibilità in ogni stato e grado del processo di mere difese al fine di contestare la titolarità attiva della posizione sostanziale deve essere coordinata con altri principi generali, come quello della possibilità di desumere la titolarità della posizione controversa anche dalle difese del convenuto.
CASO
[1-2] I ricorrenti chiedono la riforma in Cassazione della sentenza con la quale la Corte d’Appello di Torino (asseverando la pronuncia di prime cure) li aveva condannati al pagamento di una somma di denaro a titolo di rimborso delle spese sostenute dalla propria controparte per la riparazione di un muro comune.
Per ciò che più da vicino interessa, la Corte territoriale aveva affermato che la contestazione sulla appartenenza del diritto controverso non attenesse alla legitimatio ad causam, ma alla fondatezza nel merito della domanda, sì da fondare una eccezione in senso proprio, non rilevabile in via officiosa ed inammissibile in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c.
I soccombenti denunciano dinanzi la Suprema Corte la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 100, 101, 102 e 345 c.p.c, nonché il mancato accoglimento del loro difetto di legittimazione passiva (professandosi non titolari della comproprietà sul muro oggetto della controversia), difetto eccepito in grado di appello e – secondo i ricorrenti – rilevabile ex officio in ogni stato e grado del giudizio
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione, pur reputando di dover correggere la motivazione della sentenza della Corte territoriale ai sensi dell’art. 384, co. 4, c.p.c., rigetta il ricorso.
La Suprema Corte in primo luogo riconduce le doglianze dei ricorrenti – qualificate dagli stessi come difetto di legittimazione passiva – nell’alveo della contestazione sulla titolarità del rapporto sostanziale, contestazione che può avvenire anche mediante la proposizione di cc.dd. mere difese, ossia limitandosi a negare i fatti costitutivi allegati dall’attore.
[2] La Corte conferma poi la decisione intervenuta in appello, poiché la stessa prospettazione dei soccombenti – ossia la mera negazione dei fatti costitutivi delle pretese avversarie – dava per presupposta la contitolarità del muro oggetto di causa, facendo riferimento ad un successivo atto di rinunzia parziale della comproprietà: in altri termini, dalla stessa prospettazione dei convenuti emergeva la fondatezza del diritto vantato dalla parte attrice.
Peraltro, l’unico documento idoneo a consentire al giudicante di desumere la non titolarità del lato passivo – l’atto pubblico di rinunzia – era stato prodotto per la prima volta solo in grado di appello, incontrando così il divieto di ius novorum di cui all’art. 345 c.p.c., senza che fossero state dedotte in giudizio cause di impossibilità per fatto non imputabile di produzione in primo grado.
QUESTIONI
[1] La sentenza in nota merita di essere segnalata quale interessante applicazione e specificazione degli insegnamenti di cui alla recente Cass., Sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951, in questa Rivista, con nota di Lombardi R., La titolarità del diritto è sindacabile in ogni stato e grado del processo? La risposta delle Sezioni unite, 18.4.2016; nonché, con precipuo riferimento all’ordinanza di rimessione, cfr. Nicita S., La contestazione sulla titolarità del diritto fatto valere in giudizio è eccezione in senso stretto oppure mera difesa?, ibidem, 16.11.2015).
Come noto, le Sezioni Unite, nel comporre un prolungato contrasto pretorio, hanno affermato che il concetto di legittimazione ad agire non deve essere confuso – tanto sul piano strutturale tanto sul piano effettuale – con la titolarità del diritto sostanziale fatto valere nel processo: il primo istituto rappresenta una condizione dell’azione, che “mancherà tutte le volte in cui dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il diritto vantato in giudizio non appartiene all’attore”, così legittimando una pronuncia in rito; la titolarità del diritto sostanziale, invece, “attiene alla fondatezza della domanda” (cfr. n. 33 della sentenza 2951/2016) ed è, pertanto, una questione di merito.
Da tale impostazione discende, quoad effecta, che il difetto di legittimazione ad agire (attiva o passiva) può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre la titolarità del diritto azionato in giudizio dovrà essere oggetto di tempestiva contestazione da parte del convenuto, al fine di evitare la soccombenza nel merito. Detta contestazione configura una mera difesa, ossia – come noto – una difesa limitata alla negazione dei fatti costitutivi posti dall’attore a fondamento della propria pretesa; quindi non integra una eccezione in senso proprio, come ritenuto dalla sentenza della Corte d’Appello di Torino (peraltro risalente al 2011 e, dunque, resa prima della presa di posizione delle Sezioni Unite).
Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha modo di affermare nuovamente questo principio e, in particolare, di delinearne i confini di applicabilità nel caso concreto.
[2] È ben vero che la contestazione della titolarità della posizione sostanziale può essere effettuata anche per il tramite di mere difese (ossia negando sic et simpliciter i fatti costitutivi affermati dall’attore) come tali non soggette alla decadenza di cui all’art. 167, co. 2, c.p.c..
Tuttavia, tale contegno del convenuto non potrà che soccombere qualora l’attore abbia dato prova in positivo della titolarità della situazione sostanziale, ai sensi della regola generale di cui all’art. 2697 c.c.; medesima sarà la conclusione qualora il convenuto abbia espressamente riconosciuto il diritto ovvero nel caso in cui – come nel caso di specie avvenuto – abbia svolto difese incompatibili con la negazione della titolarità (nella controversia sottesa alla decisione, come visto, i ricorrenti invocavano un atto di rinunzia parziale alla comproprietà cos, dunque, riconoscendone la sussistenza).
Ed invero, come osservato dalla pronuncia de qua, una soluzione difforme potrebbe avere un effetto elusivo della regola dell’onere di contestazione specifica: la sola proposizione di una mera difesa sarebbe ex se sufficiente a far “rivivere” l’onere probatorio in capo all’attore, pure nel caso in cui sia stato lo stesso convenuto a dare fondamento alle pretese attoree, ponendo in essere difese incompatibili con la negazione di quanto affermato dalla controparte; e ciò anche nell’ipotesi in cui la possibilità di allegare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi delle avverse pretese sia oramai spirata.
In conclusione, non può che condividersi quanto affermato dalla Cassazione, ossia che la regola della proponibilità di mere difese al fine di contestare la titolarità sostanziale del diritto non possa non essere coordinata con altri principi generali, quali la possibilità di desumere dalle stesse difese del convenuto la sussistenza della posizione sostanziale, anche in ottemperanza al divieto di venire contra facta propria.
Per un approfondimento dottrinale del tema si v., oltre ai contributi evidenziati supra, Luiso F.P., Diritto processuale civile, I, Milano, 2013, pp. 217 e ss.; Mandrioli C., Carratta A., Diritto processuale civile, I, Torino, 2016, pp. 56 e ss..