La rilevanza della medesima operazione contrattuale nella configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale
di Dario Zanotti, Avvocato Scarica in PDFCass. pen., Sezione II, Sentenza del 30 ottobre 2018, n. 55412.
Parole chiave: infedeltà patrimoniale – presupposti – limite – elemento oggettivo
Massima: “Ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c., è necessario un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l’amministratore agente e la società, a causa del quale il primo, nell’operazione economica che deve essere deliberata, si trova in una posizione antitetica rispetto a quella dell’ente, tale da pregiudicare gli interessi patrimoniali di quest’ultimo, non essendo sufficienti situazioni di mera sovrapposizione o commistione di interessi scaturenti dalla considerazione di rapporti diversi ed estranei all’operazione deliberata per conto della società. (Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che aveva escluso il reato di infedeltà patrimoniale a carico del presidente del consiglio di amministrazione di una società a partecipazione pubblica che aveva acquistato, a titolo personale, un podere a condizioni particolarmente vantaggiose dalla controparte dell’operazione commerciale deliberata per conto della società)”.
Disposizioni applicate: artt. 2634 c.c.
La Corte di cassazione, con l’interpretazione fornita nella sentenza in analisi, elabora un limite di operatività del reato di infedeltà patrimoniale, ex art. 2634 c.c., nel caso in cui un amministratore, svolgendo più operazioni economiche, si sia trovato in conflitto con gli interessi della società amministrata.
Secondo l’interpretazione data dai giudici di merito nel presente caso (ed anche secondo conforme opinione dottrinale, n.d.r.), sussiste il reato di infedeltà patrimoniale quando l’interesse della società e quello della persona fisica che la rappresenta si trovino in obiettivo conflitto “nell’ambito della medesima operazione contrattuale”. La situazione sotto la lente della Corte di legittimità è però peculiare, poiché è consistita in due distinte operazioni commerciali: con la prima, l’amministratore / imputato, tramite la società Alfa a lui riferibile, ha acquistato un immobile da un terzo; mentre con la seconda, Beta, società amministrata dallo stesso amministratore / imputato, ha acquistato il suddetto immobile da Alfa. La decisione di Beta sull’acquisto dell’immobile è stata tuttavia presa dagli organi sociali senza alcun particolare contributo “attivo” da parte dell’imputato (come si nota dall’analisi della Suprema Corte sulla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 640 c.p.).
La Corte riassume dunque i presupposti oggettivi del reato di cui all’art. 2634 c.c., ossia:
(a) l’esistenza in capo al soggetto attivo di un interesse “extrasociale” in conflitto con quello della società, che sia oggettivamente valutabile, attuale, concreto ed effettivo, corrispondente al vantaggio personale derivante dall’operazione decisa dall’ente. Tale interesse, prosegue la Corte, può essere diretto, ossia per conto proprio, ovvero indiretto per conto di terzi favoriti;
(b) la natura prettamente economica di tale conflitto;
(c) il conflitto deve emergere direttamente dal singolo atto di disposizione dei beni sociali;
(d) l’esistenza di un conseguente danno patrimoniale.
La Suprema Corte precisa poi che sono indici sintomatici della situazione di conflitto: l’assunzione diretta o indiretta da parte del soggetto attivo del ruolo di controparte della società, oppure l’esercizio di un’attività economica concorrenziale con la società, o ancora l’utilizzazione a proprio profitto di informazioni apprese nell’esercizio delle funzioni sociali.
Premessi quindi gli elementi oggettivi del reato, la Cassazione concorda con i giudici di merito nel ritenere, contrariamente alla tesi della parte civile, che il conflitto debba manifestarsi nell’ambito di un’unica operazione contrattuale, giustificando tale lettura dell’art. 2634 c.c. con la necessità di ridurre l’area dei “rischi penali dell’impresa”. La Suprema Corte intende così stemperare il dettato normativo, sottraendo le situazioni di mera sovrapposizione o commistione di interessi, connaturati alla natura dell’attività d’impresa, alla sanzione penale, che rimane però ferma solo per le effettive situazioni di conflitto.
In conclusione, quanto all’applicabilità del reato di infedeltà patrimoniale, la Corte di cassazione ha ritenuto così opportuno circoscrivere la funzione repressiva dell’art. 2634 c.c., al fine di assicurare agli amministratori di una società “una libertà operativa entro cui esercitare la gestione del patrimonio altrui”.