La responsabilità da reato dell’ente, in caso di omicidio o lesioni colpose
di Emanuele Nagni Scarica in PDFCon l’art. 9, co. 1 Legge 3 agosto 2007, n. 123, il Legislatore ha introdotto nel D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, l’art. 25septies, rubricato “Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro”, poi sostituito dall’art. 300 D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
La riforma ha investito il catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa da reato dell’ente, estendendone l’applicabilità anche ai delitti di cui agli artt. 589 e 590, co. 3 c.p. che, rispettivamente, disciplinano le ipotesi di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi e gravissime.
La novella, che ha introdotto il nuovo art. 25septies nel D. Lgs. n. 231/2001, ha decisamente mutato l’impianto della responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società e associazioni anche prive di personalità, ponendo l’operatore di diritto dinanzi al problema della dubbia compatibilità strutturale delle fattispecie colpose con i concetti di ‘interesse’ e ‘vantaggio’, quali criteri di imputazione dell’illecito all’ente ex art. 5 del citato Decreto.
Tale previsione, infatti, richiede che il reato presupposto sia perpetrato dalle persone fisiche di cui alle lett. a) e b) con la finalità di perseguire un interesse ovvero conseguire un vantaggio per l’ente, escludendone nel co. 2 la responsabilità qualora le stesse agiscano nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Tuttavia, appare chiaro come siffatti requisiti non trovino diretta corrispondenza nell’ambito di un reato colposo, che impone l’assenza di volontà nell’autore, come disciplinato dall’art. 43 c.p., che prevede che la fattispecie sia commessa «contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline».
A ciò, si aggiunga che non è semplice ipotizzare come un evento lesivo di beni personalissimi possa incrementare l’elemento patrimoniale dell’ente o consentire a quest’ultimo di ottenere un vantaggio connotato dalla diretta derivazione eziologica. In argomento, basterebbe rivolgere l’attenzione, ad esempio, alle spese di formazione del personale aziendale, ai danni d’immagine o reputazionali e alla relativa obbligazione risarcitoria che ricadrebbero sull’ente, per comprendere come il dettato dell’art. 25septies esuli dall’archetipo tradizionale di responsabilità ex D. Lgs. n. 231/2001.
In luogo dell’inapplicabilità della nuova disciplina, in assenza di un adeguamento normativo in ordine ai parametri di cui all’art. 5, in dottrina è stata prediletta un’interpretazione ‘adeguatrice’, eretta sulla considerazione che ritiene, in presenza di ipotesi colpose di reato, tali criteri come esclusivamente afferenti alla condotta criminosa, trascurandone il legame con l’evento dannoso o pericoloso e con l’intera complessità del fatto.
Secondo tale prospettiva, particolare rilievo sarebbe assunto dalle ipotesi di colpa con previsione (o ‘cosciente’), in cui l’autore del reato si rappresenta l’evento come possibile conseguenza della sua condotta, ma confida che esso non si verifichi poiché si affida alle proprie capacità di neutralizzazione del rischio, sulla scorta degli arresti giurisprudenziali condotti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, con la celebre pronuncia “ThyssenKrupp” (Cass., S.U., 24.04.014, n. 38343). In tali circostanze, invero, l’agente violerebbe consapevolmente le cautele che impediscono la realizzazione dell’evento, al fine di trarre vantaggio dal risparmio di denaro o tempo per il soggetto pluripersonale e, dunque, perseguendone indubbiamente l’interesse.
In proposito, la giurisprudenza ha subito eretto la propria analisi ermeneutica sul principio di conservazione dell’ordinamento giuridico, che richiede all’autorità giudicante di attribuire alla norma l’interpretazione maggiormente prodromica alla sua applicazione, come accaduto nel caso della succitata decisione delle Sezioni Unite, che ha statuito come «i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. […] è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio».
Sul punto, nelle numerose pronunce che hanno offerto consolidamento a tale orientamento di legittimità, è stata poi evidenziata – a titolo esemplificativo, con Cass. Pen., Sez. IV, 5.05.2016, n. 28557 – la necessaria compresenza dei due criteri, in quanto la condotta che assume rilievo è quella colposamente realizzata dal datore di lavoro nell’interesse e a vantaggio della società, in ragione dell’allungamento dei tempi di produzione e dei costi necessari per le attività aziendali di aggiornamento e adeguamento alle norme antinfortunistiche.
Da ultimo, si rende opportuno analizzare l’impianto sanzionatorio dell’art. 25septies D. Lgs. citato, che prevede l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interdittive. Nel dettaglio, invero, se l’omicidio colposo è commesso in violazione dell’art. 55, co. 2 D. Lgs. n. 81/2008, l’ente sarà condannato al pagamento di una somma pecuniaria in misura pari a 1.000 quote; mentre, in caso di inosservanza della disciplina generale sulla tutela della salute e sulla sicurezza sul lavoro, la sanzione applicabile sarà compresa tra le 250 e le 500 quote. In entrambi i casi, la previsione dispone poi la durata della sanzione interdittiva, mai inferiore a tre mesi e superiore ad un anno. Infine, per l’ipotesi di cui all’art. 590, co. 3 c.p., così come richiamato dalla previsione in argomento, la sanzione pecuniaria deve essere necessariamente inferiore a 250 quote e l’interdizione non può superare i sei mesi.