23 Ottobre 2018

La responsabilità penale omissiva dell’amministratore privo di deleghe

di Massimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati Scarica in PDF

Sentenza Corte di Cassazione Sez. I Penale n. 14783/2018 pubblicata il 3 aprile 2018

Parole chiave: bancarotta fraudolenta patrimoniale – concorso omissivo nel reato commissivo – amministratori privi di deleghe – difetto di motivazione

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ai fini della configurabilità del concorso dell’amministratore privo di delega per omesso impedimento dell’evento, è necessario che, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle distrazioni in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere l’accettazione del rischio – secondo i criteri propri del dolo eventuale – del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà – in guisa di dolo indiretto – di non attivarsi per scongiurare detto evento.

Disposizioni applicate: art. 40 comma 2 c.p. – art 223 comma 2 n. 2) l.f. – artt. 2391 e 2392 commi 1 e 2 c.c. – 627 comma 3 c.p.p.

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 14783 del 3 aprile 2018 torna ad occuparsi del tema della responsabilità degli amministratori, privi di deleghe gestorie, per il caso di concorso nella commissione del reato fallimentare di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Nella sentenza in commento la Corte ricostruisce i motivi che avevano condotto la stessa ad annullare parzialmente, con la prima pronuncia del 2015, la sentenza della Corte di Appello di Milano.

In particolare, gli Ermellini avevano censurato la pronuncia del Giudice milanese di secondo grado con riferimento “alla ritenuta prevedibilità da parte degli amministratori di (OMISSIS) del dissesto della società quale effetto della condotta illecita determinante nell’immediato un incremento patrimoniale; come tale refluente sull’elemento soggettivo del reato”.

La Corte si è subito soffermata sugli elementi costitutivi del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Con riferimento all’elemento psicologico, ed ai fini della integrazione dello stesso, osserva la Prima Sezione, deve procedersi ad una valutazione in termini “di astratta prevedibilità del dissesto quale conseguenza delle accertate attività traffaldine poste in essere” dagli amministratori.

Proprio la carenza di tale elemento aveva costituito il motivo principale di annullamento della sentenza della Corte di Appello di Milano. La Suprema Corte, infatti, anche grazie ad un richiamo ad altro precedente (cfr. da ultima Cassazione Penale, Sez. V, 7 marzo 2014 n. 32352), ha riconosciuto per il reato de quo i tratti psicologici della preterintenzionalità, in cui l’onere della prova è costituito non già nella dimostrazione della rappresentazione e volontà dell’evento (il fallimento della società), bensì dal fatto che gli amministratori i) abbiano agito con la consapevolezza e volontà di recare pregiudizio patrimoniale alla società tramite il proprio agire antigiuridico e che ii) sia prevedibile che  una siffatta condotta possa causare il dissesto dell’ente.

La Suprema Corte ha poi individuato il momento rilevante ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato, non già nel breve, bensì nel medio periodo, a causa di un depauperamento non immediato del patrimonio sociale. La crescita esponenziale del debito della società infatti era stata ravvisata dai Giudici di merito in un momento secondario a fronte di un iniziale, ed anomalo, incremento del medesimo patrimonio, anch’esso frutto dell’illecito posto in essere.

In fatto di prevedibilità del dissesto, quindi, la Corte di Cassazione ha censurato la sentenza della Corte di Appello di Milano proprio a causa della mancata dimostrazione della consapevolezza degli amministratori delle possibili conseguenze delle proprie condotte illecite. Gli Ermellini infatti non hanno ritenuto sufficiente che gli amministratori fossero a conoscenza “altresì, per la diffusione di quelle pratiche truffaldine, per il fatto che tutto il personale ne era edotto, dovendo prestare collaborazione all’attuazione delle stesse, per l’impossibilità che la persona offesa non ne venisse a conoscenza, che il fallimento non solo era prevedibile ma sarebbe certamente seguito”.

La Corte si è poi focalizzata su ulteriore elemento di censura della pronuncia del Giudice d’Appello costituito dal difetto di motivazione della sentenza per la mancata sussistenza del nesso tra le condotte antigiuridiche degli stessi amministratori e il concreto funzionamento dell’organo consiliare. In buona sostanza la responsabilità degli amministratori privi di deleghe per le “distrazioni deriva da una relazione fra la loro partecipazione ai fatti di truffa e quella ai fatti distrattivi, come tale inidonea a sostenere un’affermazione di responsabilità, sul punto, in assenza di elementi di prova dimostranti che i fatti di distrazione fossero legati ai fatti di truffa da un nesso di interdipendenza quanto a danaro distratto ed autori delle distrazioni”.

In particolare, già con la prima sentenza di annullamento, era stata rilevata la difficoltà nel ricostruire il rapporto tra condotte distrattive e attribuzioni esercitate dal consiglio di amministrazione. Infatti secondo quanto illustrato dagli Ermellini “la sentenza, omettendo, ancora una volta, la ricostruzione in fatto delle relazioni fra fatti distrattivi e concreto funzionamento del consiglio di amministrazione della società alla luce delle clausole di organizzazione delle funzioni gestorie contenute nello statuto sociale, non spiega se la responsabilità di tale persona per tali ulteriori distrazioni sia conseguenza dell’attività da lei svolta, quale amministratore privo di deleghe, nel consiglio di amministrazione”.

Sebbene per principio generale gli amministratori abbiamo un generale obbligo di agire informati (artt. 2391 e 2392 c. 1 e 2 c.c.), ciò non giustifica del tutto il concorso (art, 40 c. 2 c.p.), così come invece ravvisato dalla Corte di Appello di Milano. Infatti, se è vero che all’obbligo di agire informati corrisponde una responsabilità (di natura contrattuale) degli amministratori privi di deleghe gestorie (per non aver impedito il compimento di atti pregiudizievoli per il patrimonio sociale), tuttavia non può dirsi condivisibile l’assunto che gli amministratori privi di deleghe debbano conoscere la situazione antigiuridica sul presupposto di un mero fatto, ovverosia l’omesso versamento da parte di uno degli imputati di una somma pari alla parte di capitale sottoscritta in sede di operazione straordinaria (evidentemente di ricapitalizzazione).

La Suprema Corte non manca di sottolineare come un fatto di simile natura non possa dirsi in senso assoluto indicativo di alcuna distrazione e nemmeno, peraltro, dimostrativo del nesso eziologico tra le condotte truffaldine in danno della società terza e i fatti distrattivi del patrimonio sociale della società fallita. Ciò che manca dunque è un collegamento chiaro tra le condotte distrattive e quelle di truffa, pur nell’identità dei soggetti e nel quantum di denaro sottratto.

E’ peraltro interessante notare, nella prospettiva del concorso degli amministratori privi di deleghe nei fatti di bancarotta per distrazione, che è necessaria la presenza di “segnali di allarme” non equivocabili del fatto oggetto di reato, da cui siano desumibili sia l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito che potrebbe condurre al dissesto, sia l’omissione volontaria di prodigarsi per evitare che questo abbia luogo (cfr. ex multis Corte Cass. Sez. 5, n. 23838 del 4 maggio 2007; Sez. 5, n. 9736 del 10 febbraio 2009; Sez. 5, n. 36595 del 16 aprile 2009; Sez. 5, n. 21581 del 28 aprile 2009; Sez. 5, n. 42519 dell’8 giugno 2012, Sez. 5, n. 32352 del 7 marzo 2014).

Dunque, secondo quanto disposto dall’art. 40, c. 2 c.p. la Giurisprudenza di Legittimità, per quanto attiene ai fatti tipici della fattispecie delittuosa della bancarotta fraudolenta patrimoniale, ha affermato che “la responsabilità per omesso impedimento dell’evento illecito si qualifica anche per il solo dolo eventuale, a condizione che sussistano, e siano stati in concreto percepiti da tali soggetti, segnali “perspicui e peculiari” dell’evento illecito caratterizzati da un elevato grado di anormalità”.

Dacché, la Corte di Cassazione, nell’annullare la pronuncia impugnata relativamente a questo motivo, chiarisce che, ai fini della corretta applicazione delle norme fallimentari penali, il giudice del rinvio sarà tenuto ad accertare che i componenti del consiglio di amministrazione, pur privi di deleghe, siano stati informati dei fatti distrattivi, ovvero che ne abbiano comunque avuto conoscenza, ovvero che abbiano riconosciuto i segnali “inequivocabili ed anormali” da cui desumere il grado di rischio dell’evento.

Tuttavia, siffatto accertamento costituirà solo un accertamento fattuale successivo rispetto alla ricostruzione dei legami intercorrenti tra i fatti addebitati agli imputati e la loro effettiva incidenza sugli stessi in virtù delle richiamate clausole e meccanismi di funzionamento del consiglio di amministrazione.

Osserva infatti conclusivamente la Corte come “solo la prova della conoscenza del fatto illecito, ovvero della concreta conoscibilità dello stesso anche mediante l’attivazione del potere informativo di cui all’art. 2381 c.c., u.c., in presenza di segnali specifici di distrazione, comporta l’obbligo giuridico degli amministratori privi di deleghe gestorie di intervenire per impedire il verificarsi dell’evento illecito: la volontaria, da dolo indiretto, mancata attivazione di tali soggetti in presenza di tali circostanze determina l’affermazione della penale responsabilità avendo la loro omissione contribuito a cagionare l’evento dannoso“.