La responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c.
di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. III, 26 febbraio 2021, n. 5414 – Pres. Armano – Rel. Iannello
Parole chiave: Padroni e committenti – Responsabilità per fatto del dipendente o dell’ausiliario – Condizioni – Rapporto di collaborazione o ausiliarietà – Sufficienza – Nesso di occasionalità necessaria – Esclusione della responsabilità – Condizioni
[1] Massima: Affinché il preponente risponda dei danni arrecati a terzi dal preposto non è necessaria la sussistenza di un formale rapporto di lavoro subordinato o di agenzia, essendo sufficiente anche una mera collaborazione o ausiliarietà, ravvisabile quando venga, di fatto, svolta attività per conto del preponente e sotto il suo potere, nell’ambito della sua organizzazione imprenditoriale; il fatto illecito del preposto deve essere legato da un nesso di occasionalità necessaria con l’esercizio delle mansioni alle quali sia adibito, mentre la condotta del danneggiato può assumere rilievo, ai fini dell’esclusione della responsabilità del preponente, quando si riveli idonea a interrompere il nesso causale tra la condotta del preposto e il danno.
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1127, 2043, 2049
CASO
Una società assicuratrice veniva citata in giudizio perché fosse condannata al risarcimento del danno subito dall’attore, il quale sosteneva di avere consegnato nelle mani di un soggetto conosciuto quale collaboratore, agente, consulente e dipendente della compagnia una somma da utilizzare per effettuare alcuni investimenti, ma che, in realtà, non era mai stata effettivamente riversata alla società, né tantomeno destinata al predetto scopo.
La domanda, che era stata qualificata come volta a fare valere la responsabilità extracontrattuale della convenuta ai sensi dell’art. 2049 c.c., veniva rigettata sia in primo che in secondo grado, essendosi ritenuto che, in base agli elementi addotti, non sussistessero né un rapporto che legasse alla società colui che era risultato essere un mero segnalatore di clienti, né la buona fede del danneggiato.
Quest’ultimo proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando che, per l’affermazione della responsabilità prevista dall’art. 2049 c.c., è sufficiente un mero rapporto di fatto, che renda possibile, sia pure in astratto, l’esercizio di un potere di supremazia o di direzione (non essendo determinante che venga poi concretamente esercitato) e che le prove acquisite evidenziavano una condotta del sedicente agente che, per consistenza e durata, era tale da ingenerare un ragionevole affidamento circa l’effettiva titolarità di poteri rappresentativi dell’impresa.
SOLUZIONE
[1] La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando con rinvio la sentenza impugnata.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’assunto per cui non ricorrevano, nel caso di specie, i presupposti per ritenere applicabile l’art. 2049 c.c. celava un’erronea interpretazione della norma, avendo riguardo alle condizioni necessarie per affermare la sussistenza, da un lato, di una connessione giuridicamente rilevante tra la condotta del preposto e le incombenze affidategli e, dall’altro lato, di uno stato soggettivo di buona fede del danneggiato.
QUESTIONI
[1] Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la responsabilità della banca o della compagnia di assicurazioni ai sensi dell’art. 2049 c.c. per i danni provocati dal proprio incaricato è inquadrabile in termini di responsabilità indiretta, ovvero oggettiva ed è predicabile quando la condotta dannosa sia agevolata o resa possibile dalle incombenze demandate al preposto, sul quale la preponente aveva la possibilità di esercitare poteri di direzione e di vigilanza.
Per la configurabilità di tale responsabilità è necessario e sufficiente provare il rapporto di occasionalità necessaria tra la condotta antigiuridica posta in essere dall’agente e le attività affidategli, ossia accertare che queste ultime hanno agevolato o reso possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, secondo il principio di equivalenza causale; da questo punto di vista, peraltro, non assume rilievo la circostanza per cui il collaboratore, agendo pur sempre nell’ambito delle sue incombenze, abbia eventualmente travalicato i limiti impostigli.
In questo senso, va verificato che si sia in presenza di un danno-conseguenza che, da un lato, non si sarebbe potuto manifestare senza l’esercizio dei poteri conferiti e, dall’altro lato, si ponga come sviluppo non anomalo di attività rese possibili proprio da quelle funzioni e attribuzioni, quand’anche siano intervenute violazioni o deviazioni o eccessi che fossero nondimeno oggettivamente prevedibili e, come tali, prevenibili: la scelta legislativa di riversare sul preponente gli effetti delle attività compiute dai preposti, infatti, si giustifica in quanto il primo possa prefigurarseli e, così, tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività (quali componenti potenzialmente pregiudizievoli).
La responsabilità del preponente, invece, non sussiste qualora si sia verificato un fatto (naturale oppure ascrivibile a un terzo o al danneggiato stesso) che sia, di per sé solo, idoneo a determinare l’evento e che escluda, così, la sussistenza di un nesso causale giuridicamente rilevante; allo stesso tempo, trova piena applicazione la regola generale dettata dall’art. 1227 c.c. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato, anch’essa idonea a limitare – o financo a escludere in radice – l’addebitabilità al preponente del fatto illecito dannoso.
Queste essendo le coordinate di riferimento della responsabilità prevista dall’art. 2049 c.c., i giudici di legittimità hanno precisato che non assumono peculiare rilievo la natura e la fonte del rapporto che lega preponente e preposto: per le finalità avute di mira dalla norma, infatti, è sufficiente anche una mera collaborazione o ausiliarietà nell’ambito dell’organizzazione e delle finalità dell’impresa gestita dal preponente, risultando determinante il fatto che il preposto, inserito – anche in via temporanea od occasionale – nella sua organizzazione aziendale, esplichi attività per suo conto e sotto il suo potere.
La preposizione rilevante ai sensi dell’art. 2049 c.c., quindi, può derivare anche da un rapporto di fatto, non necessariamente caratterizzato dalla continuità e dall’onerosità; d’altro canto, è necessario e sufficiente che sussista l’astratta possibilità per il preponente di esercitare un potere di supremazia o di direzione, quand’anche poi non vi sia stato il suo effettivo esercizio.
La giurisprudenza, così, ha affermato che qualora al promotore finanziario o all’agente siano stati conferiti incarichi che, sia pure occasionalmente e temporaneamente, lo legittimino a rivolgersi alla clientela per proporre l’acquisto di prodotti finanziari o assicurativi della compagnia, procurando un vantaggio riflesso per quest’ultima, la responsabilità ex art. 2049 c.c. non può essere esclusa.
Nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità, doveva essere dato rilievo al fatto che il sedicente collaboratore della società di assicurazioni, pur non essendo legato a questa da un rapporto di lavoro subordinato o di agenzia, operava pur sempre nell’interesse della stessa, in qualità di segnalatore di clienti, con autorizzazione (sia pure limitata) all’incasso di premi: tale legittimazione a trattare con potenziali clienti della compagnia e a riscuotere somme di denaro, in nome e a vantaggio di quest’ultima, era, dunque, sufficiente per ravvisare un collegamento tale da fare gravare sulla società le conseguenze della condotta abusiva del promotore della cui attività si avvantaggiava.
Sotto un ulteriore e diverso profilo, la responsabilità della banca o della compagnia d’assicurazioni per la condotta del promotore finanziario, pur in mancanza di rapporti di committenza di alcun tipo, può avere fonte nell’art. 2043 c.c. e nel principio dell’apparenza del diritto, quando nel cliente che versi in buona fede (ossia in stato di incolpevole ignoranza) sia stato ingenerato il legittimo affidamento in merito al fatto che il promotore stesse agendo nell’ambito di incombenze affidategli.
Solo nella prospettiva dell’art. 2043 c.c., peraltro, la colpa del terzo vale a elidere la responsabilità del preponente, a differenza di quanto avviene quando venga in considerazione la fattispecie di cui all’art. 2049 c.c. (in relazione alla quale la colpa del danneggiato non incide sull’imputazione di responsabilità, ma può assumere rilievo nella diversa ottica considerata dall’art. 1227 c.c., fino al punto di escludere, al limite, la sussistenza di un nesso di causalità): per questo motivo, lo stato soggettivo non va trattato nello stesso modo qualora sia invocata l’una piuttosto che l’altra norma.
Più precisamente, nel primo caso rileva la mancanza di diligenza media esigibile nel discernere l’esistenza o meno di un collegamento tra l’apparente preposto e il preponente.
Nel secondo caso, invece, il coinvolgimento soggettivo del terzo dev’essere ben più marcato affinché possa ravvisarsene la colpa. Così, esemplificando, dev’essere chiaramente percepibile che alla condotta del preposto non è sotteso alcun rapporto con il preponente o dev’esserci un consapevole coinvolgimento del terzo stesso nelle irregolarità poste in essere, ovvero la sua acquiescenza rispetto a esse; circostanze che possono desumersi, sempre in via esemplificativa, dal numero e dalla ripetitività delle operazioni realizzate in modo irregolare, dal loro valore complessivo, dalle conoscenze e dall’esperienza acquisite dal cliente in merito all’iter di svolgimento del rapporto, dalle sue complessive condizioni culturali e socio-economiche.
Nel caso esaminato dall’ordinanza che si annota, i giudici di merito avevano escluso che la condotta del danneggiato (il quale aveva omesso di chiedere il rilascio di quietanze o ricevute di versamento sottoscritte e aveva accettato, di converso, proposte prive di alcun riferimento alla posizione contrattuale sottostante) fosse espressiva di buona fede incolpevole, ma le circostanze che erano state valorizzate al riguardo potevano, al limite, assumere rilevanza qualora fosse stata invocata la responsabilità per l’affidamento ingenerato nel terzo ex art. 2043 c.c., mentre nella diversa prospettiva qualificatoria dell’art. 2049 c.c. esse non raggiungevano quel grado di imprudenza e di avventatezza che solo avrebbe consentito di ritenere integrato un autonomo fattore causale concorrente nella produzione del danno ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 1227 c.c.
In buona sostanza, due sono gli errori riscontrati nella sentenza gravata, che hanno condotto alla sua cassazione con rinvio: da un lato, l’esclusione di un collegamento tra il sedicente agente e la compagnia assicuratrice sufficiente per radicare in capo a quest’ultima la responsabilità contemplata dall’art. 2049 c.c., frutto di una non corretta interpretazione della norma; dall’altro lato, il ricorso a un criterio di imputabilità dell’errore in capo al danneggiato valevole per la diversa fattispecie riconducibile alla previsione generale dettata dall’art. 2043 c.c.
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