11 Dicembre 2018

La responsabilità civile del produttore,in particolare del produttore di alimenti : il danno da prodotto non conforme

di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDF

Abstract

Il tema della responsabilità civile del produttore è di per sé molto ampio e coinvolge una molteplicità di profili di cui non è possibile dare conto in un solo contributo.

Anche focalizzando l’attenzione sul solo obbligo risarcitorio che scaturisce da un danno provocato a causa del consumo di un prodotto (in particolare, di un alimento) e adottando l’angolo visuale dell’utilizzatore finale del prodotto (il consumatore), il tema rimane esteso.

È possibile distinguere, a grandi linee, sostanzialmente due ipotesi: a) la prima è quella in cui il danno deriva dall’utilizzo di un prodotto “non conforme”; b) la seconda si ha invece quando il danno deriva dall’utilizzo di un prodotto di per sé “conforme”.

Si tratta di due ipotesi distinte, il cui approfondimento si rende necessario anche considerando gli sviluppi normativi e gli approdi giurisprudenziali maturati nel tempo.

L’evoluzione della disciplina. Introduzione

Quanto al primo tipo di danno, si tratta di capire, in primo luogo, cosa si intende per non conformità del prodotto. In via di prima approssimazione, la non conformità consiste nella mancanza di qualità, nella difformità di un determinato prodotto rispetto alle aspettative del consumatore.

Per lungo tempo, queste situazioni sono state ricondotte all’applicazione delle norme generali in materia di responsabilità civile; è solo con le profonde trasformazioni che hanno interessato la fabbricazione e la vendita di prodotti a partire dall’inizio degli anni ’60 che si è avvertita la necessità di concepire un sistema di regole che si adattasse alle peculiarità che caratterizzano il rapporto tra coloro che sono danneggiati da un prodotto e chi questo prodotto lo ha realizzato.

Dal secondo dopoguerra, infatti, si è assistito a un passaggio dalla dimensione individuale e artigianale della produzione alla fabbricazione e commercializzazione su larga scala (in serie) dei prodotti, con la conseguenza che la presenza di un’anomalia sulla cosa ha assunto a sua volta carattere seriale, di larga scala, con una diffusione proporzionale a quella del prodotto stesso. Detto altrimenti, quel difetto che in un sistema di produzione artigianale e individuale era destinato a rimanere circoscritto alla dimensione limitata dei rapporti tra fabbricante e utilizzatore, rischia oggi di essere enormemente amplificato, perché la produzione di massa determina l’immissione in commercio di enormi quantità di prodotti tutti dotati delle stesse caratteristiche e che sono destinati a un gruppo di utilizzatori molto vasto.

Questo mutato contesto di fatto è alla base di quell’istanza di modificazione del sistema giuridico che ha imposto di sottrarre il rapporto tra produttore e utilizzatore alle regole comuni che governano la responsabilità civile, per sottoporlo a regole speciali che tengano conto delle peculiarità che caratterizzano questo rapporto, date dalla necessità di coinvolgere un soggetto (il produttore) non necessariamente coincidente con quello entrato in contatto con l’utilizzatore e di porre particolare attenzione al profilo risarcitorio che rischia di avere effetti su larga scala.

La giurisprudenza

Per capire in che modo si è arrivati ad affrontare questi due aspetti, occorre dare conto di come si è sviluppato il sistema giuridico italiano negli ultimi decenni, a partire da quello che può essere considerato non a torto un leading case: il c.d. caso Saiwa.

Il caso può essere così riassunto. Un avvocato romano e la moglie acquistarono, nel 1957, in un negozio di dolciumi, una scatola chiusa di biscotti avariati che cagionarono loro un’enterocolite febbrile con dolori addominali e conseguente necessità di cure mediche. In mancanza di contestazioni sul fatto, gli acquirenti citarono in giudizio sia il rivenditore sia la ditta produttrice dei biscotti, per ottenere il risarcimento delle spese mediche e dei danni ulteriori rispetto al valore di biscotti e cioè dei danni derivati dai vizi della cosa. Dopo un lungo iter processuale, la vicenda venne posta all’attenzione della Suprema Corte (Cass. 25/05/1964, n. 1270), la quale ebbe modo di affermare in sintesi, due principi: il primo è che il rivenditore al minuto (cui non poteva addebitarsi la colpa della cattiva conservazione della merce, né la messa in vendita della stessa oltre i limiti temporali di garanzia) non potesse essere considerato responsabile dell’accaduto, perché la merce era stata confezionata in involucri sigillati dalla ditta produttrice ed era stata rivenduta al pubblico dal negoziante così come l’aveva ricevuta, non potendosi imporre all’intermediario (diretto dante causa del danneggiato) l’obbligo di controllare il prodotto chiuso e sigillato; il secondo è che l’unico responsabile non poteva che essere, in via aquiliana, il produttore, la cui colpa però, diversamente dal principio generale in materia (art. 2043 c.c.), doveva considerarsi presunta.

La prima affermazione della S.C. è tutto sommato in linea con il sistema della responsabilità civile imperniata sul principio generale della colpa; in tanto può essere mosso un qualche addebito al debitore, in quanto egli abbia tenuto un comportamento almeno colposo da cui sia poi derivato l’inadempimento. Questa conclusione è stata però parzialmente rivista dalla S. C. con due ulteriori sentenze: la prima nel ’91, nota come il c.d. caso Olanlat (Cass. 30/08/1991, n. 9277), la seconda nel 2014, nota come il c.d. caso F.lli Saclà (Cass. 10/07/2014, n. 15824).

Il caso Olanlat può essere così riassunto: un agricoltore, a metà degli anni ‘70 citò in giudizio la società che gli aveva venduto il latte in polvere per l’alimentazione dei bovini. L’attore riteneva che il latte fosse tossico per la presenza di conservanti chimici in quantità non consentita e che da ciò fosse derivata la morte di numerosi vitelli da lui allevati. Qui la S.C. ebbe modo di affermare che: “L’art. 1494 c. c., in tema di responsabilità risarcitoria del venditore per i vizi della cosa che non provi di aver ignorato senza colpa, trova applicazione anche nel campo della grande distribuzione, ovvero della rivendita dei prodotti industriali di massa, ancorché confezionati, tenendo conto, in tale ipotesi, che i doveri professionali del commerciante, se non possono includere l’effettuazione di indagini e riscontri assidui, sì da scoprire anomalie della singola confezione, impongono, secondo le regole di normale diligenza, controlli periodici o su campione, al fine di evitare che notevoli quantitativi di merce presentino gravi vizi di composizione o di conservazione, anche alla stregua della destinazione della merce stessa e della conseguenziale attitudine ad arrecare nocumento (nella specie, trattandosi di mangimi per animali)”.

La Cassazione giunse quindi a una conclusione parzialmente diversa da quella raggiunta nel ‘64, per smantellare le posizioni parassitarie dei fornitori che si trincerano dietro lo smercio dei prodotti confezionati da altri, limitandosi su questi riprodotti a controllare la scadenza. Specie in presenza di prodotti industriali anonimi, di fabbricanti senza scrupoli, acquista particolare rilevanza per la tutela del consumatore, secondo la Cassazione, attribuire un ruolo significativo al fornitore riconoscendone la responsabilità anche in presenza di prodotti già confezionati da altri, come le buste di latte in polvere sigillate. Opportunamente la sentenza afferma che la circostanza dell’impossibilità di controllare la qualità e la non tossicità del latte in polvere, risultato nocivo per alterazioni dei grassi del prodotto con conseguente morte di diversi vitelli, solo perché in buste chiuse sigillate, non è di ostacolo all’affermazione di responsabilità del rivenditore, che ha il dovere di effettuare controlli a campione in ottemperanza degli obblighi che gli derivano dagli artt. 1476 e 1490 c.c. È, cioè, la stessa professionalità del fornitore che gli impone di effettuare, soprattutto nell’interesse proprio e del consumatore, gli opportuni controlli prima di acquistare la merce e di rimetterla in circolazione, anche se si tratta di prodotti confezionati immessi sul mercato attraverso la grande distribuzione. Da un lato, infatti, il consumatore, che non è in grado di effettuare indagini preventive sulla qualità della merce, fa affidamento sulla diligenza, sulla correttezza e in particolare sulla competenza professionale del rivenditore sotto il profilo della qualità e della bontà della merce e, dall’altro, per il fornitore non costituisce onere eccessivo insormontabile l’effettuazione di quel minimo necessario di controlli al fine di accertare l’inesistenza di gravi difetti, anche perché le spese possono anche ricadere sul produttore o essere conglobate nel prezzo finale. Sicché, anche nelle vendite a catena di prodotti industriali di massa, il fornitore è obbligato a verificare lo stato e la qualità della merce, nonché l’assenza di vizi dalla stessa, tanto da poter provare che il vizio della cosa è rimasto ignoto nonostante gli opportuni controlli dettati dalla normale diligenza.

Lo stesso principio è rinvenibile nel caso Saclà, che è di particolare interesse perché rappresenta un’ipotesi di responsabilità nelle vendite a catena. Il fatto è il seguente. Nell’aprile del 2005 la Fratelli Saclà citò avanti il tribunale il proprio partner commerciale da cui diceva di avere per lungo tempo acquistato spezie (prodotte da altro soggetto ancora) da utilizzare nella propria attività di produzione di alimenti su scala industriale. Nel quadro di tale attività, nel corso degli anni le era stato fornito in particolare un ingente quantitativo di peperoncino rosso di cui la Fratelli Saclà aveva chiesto garanzie che non contenesse il colorante artificiale Sudan 1, in quanto classificato come sostanza cancerogena e già oggetto di allerta alimentare in Francia nel maggio 2003. Era stato però riscontrato, a seguito di indagini da parte dei NAS, che una confezione di olive verdi al peperoncino prodotto dalla Fratelli Saclà presentava il colorante in questione; ne era seguito il sequestro immediato e il ritiro dal territorio nazionale di tutte le partite del prodotto considerato. Da qui la causa giudiziale nei confronti del distributore per il risarcimento dei danni subiti.

La difesa della convenuta si basava sull’affermazione per cui, prima dell’allerta comunitaria del 2003, il Sudan 1 era del tutto sconosciuto agli operatori del settore ed era del tutto trascurato degli organi di controllo. Solo a seguito di tale allerta l’attrice avrebbe chiesto garanzie sul prodotto, mentre tutti i prelievi documentati in atti si sarebbero riferiti a prodotti confezionati con peperoncino rosso consegnati in data antecedente al 2003, quando sul Sudan 1 non venivano svolte ricerche e indagini. Con sentenza del 2009 giudice di prime cure rigettava la domanda attorea, considerando l’impossibilità per un’azienda di tenere sotto controllo tutti i rischi e la necessità di selezionarne solo alcuni, i più probabili. La convenuta, in altre parole, non era tenuta a effettuare indagini e controlli periodici a campione mirati, si da scoprire eventuali anomalie dei prodotti forniti, la contaminazione da Sudan 1 non potendosi considerare un evento prevedibile. La sentenza di gravame ribaltava tuttavia l’impianto argomentativo del tribunale e condannava la distributrice, perché per stabilire se un bene, soprattutto in campo alimentare, presenti oppure no adulterazioni, non è pensabile che ci si possa limitare a cercare solo gli adulteranti noti con procedure di analisi codificate; la ricerca cioè deve riguardare anche componenti non noti, tanto più che nel caso di specie i livelli di contaminazione erano così alti da rendere non particolarmente difficile l’individuazione del componente in parola. Della questione veniva investita la Cassazione, la quale affermava che il rivenditore è responsabile nei confronti del compratore del danno cagionato dal prodotto difettoso, se non fornisce la prova di aver attuato un idoneo comportamento positivo tendente a verificare la qualità della merce e a controllare in modo adeguato l’assenza di vizi, anche alla stregua della destinazione della merce stessa, giacché i doveri professionali dei rivenditori impongono senz’altro, secondo la normale diligenza, controlli periodici a campione al fine di evitare che notevoli quantitativi di merce presentino gravi vizi di composizione.

Va anche detto, a onor del vero, che l’analisi della giurisprudenza rinvenibile in materia, pur conformandosi ai principi appena esposti, ha escluso la responsabilità del venditore per il danno cagionato all’acquirente da alcuni pacchetti di biscotti avariati forniti dalla casa produttrice, come pure nel caso di bibite occasionalmente mescolate a sostanze velenose o nel caso ancora più singolare della bottiglia di birra nel quale si rinviene una lucertola: ben diversa da tali eventi sporadici e imprevedibili è da ritenersi, infatti, l’ipotesi in cui risulti affetto da gravi vizi di composizione o di conservazione un notevole quantitativo di merce acquistata e distribuita da un commerciante all’ingrosso. Considerata la professionalità del distributore appare cioè normale e doveroso che almeno in quest’ultimo caso ci siano i controlli prima di acquistare la merce e di metterla in circolazione, specialmente se si tratti di derrate alimentare o di qualsiasi altro prodotto suscettibile di sofisticazione e capace di cagionare danno, qualora non sia rispondente a determinate essenziali caratteristiche.

Il secondo principio affermato dalla Cassazione nel c.d. caso Saiwa è invece quello per cui la responsabilità del produttore deve considerarsi presunta. In un’epoca ben distante dall’approvazione della direttiva comunitaria sulla responsabilità del produttore, la S.C. già negli anni ’60 , con un’operazione interpretativa a tutela del consumatore/utilizzatore del bene arriva a capovolgere l’onere della prova che, in forza dei principi generali, vorrebbe il danneggiato onerato della prova della colpevolezza del danneggiante.

La disciplina normativa

Nonostante questo correttivo, la tutela offerta dalla normale responsabilità aquiliana è stata ritenuta però da più parti insoddisfacente, soprattutto ove il danneggiato assuma la veste di parte debole di un rapporto consumatore-produttore ove la parità degli strumenti di tutela, in caso di contenzioso, è largamente squilibrato ab initio.

Il mutato contesto di fatto cui si è fatto cenno in precedenza è alla base di quell’istanza di modificazione del sistema giuridico che ha imposto di sottrarre il rapporto tra produttore e utilizzatore danneggiato alle regole comuni che governano la responsabilità civile, per disciplinarlo secondo regole speciali che tengano conto delle peculiarità che caratterizzano questo rapporto.

Così, nell’Unione Europea la responsabilità del produttore è stata regolata secondo modalità che hanno condotto all’abbandono della responsabilità per colpa in favore di sistemi di responsabilità oggettiva. In ambito comunitario, si è dunque arrivati all’approvazione della Direttiva n. 85/374 che sancisce la regola secondo cui la responsabilità del produttore si fonda sulla dimostrazione dell’esistenza di un nesso causale tra danno subito e l’utilizzo del prodotto. In una simile prospettiva, al danneggiato è sufficiente provare il difetto, il danno e l’esistenza del rapporto causale fra di essi, mentre grava sul produttore l’onere di provare i fatti che possono eventualmente escludere la sua responsabilità (negli U.S.A. già da tempo era invero previsto un sistema di c.d. strict liability, cioè di responsabilità civile svincolato dalla colpa del produttore, agganciato a un mercato assicurativo adeguato a gestire il rischio derivante da possibili danni).

In tale contesto, si pone, a livello normativo italiano, il D.p.r. 24/05/1988, n. 244 di recepimento della Direttiva 85/374/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi. Disciplina che non sostituisce i rimedi già vigenti sulla base delle disposizioni generali del codice civile, ma che si affianca a essi, individuando una disciplina settoriale di carattere residuale, la cui concreta utilizzazione è rimessa alla scelta dell’attore.

Sempre in questo contesto, si colloca anche un successivo intervento della Comunità Europea diretto a introdurre una disciplina armonizzata sui vizi presenti nei beni di consumo e sulle relative garanzie. Si tratta della Direttiva 1999/44/CEE su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo. La Direttiva si incentra sul principio di conformità dei beni a quanto stabilito nel contratto e fa discendere dalla mancanza di conformità, nel cui ambito vanno concettualmente ricompresi tutti vizi del bene, il diritto del consumatore al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione o il diritto a una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto. La Direttiva è stata recepita in Italia con il D. legisl. 2/02/2002, n. 24 che ha introdotto nel codice civile gli articoli 1519bis ss.

La Comunità Europea ha svolto un ruolo fondamentale anche sul piano della prevenzione, avendo obbligatoriamente introdotto nei vari ordinamenti disposizioni tese a garantire gli standard di sicurezza. Ciò al fine, innanzitutto, di ottenere un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza dei consumatori, nonché di favorire un corretto esercizio della concorrenza tra imprese. In tale ambito, accanto a disposizioni specifiche nei differenti settori merceologici, la Comunità Europea ha adottato prima la Direttiva 92/59/CEE, relativa alla sicurezza generale dei prodotti e, poi, la Direttiva 2001/95/CEE sempre sulla sicurezza generale dei prodotti. La Direttiva 2001/95/CEE è finalizzata a garantire che i prodotti immessi sul mercato siamo sicuri. A tal fine, introduce a livello comunitario un obbligo generale di sicurezza per tutti prodotti immessi sul mercato o altrimenti forniti o resi disponibili ai consumatori, destinati ai consumatori o suscettibili, in condizioni ragionevolmente prevedibili, di essere utilizzati da consumatori anche se a loro non specificamente destinati. La Direttiva assume rilievo di disciplina residuale di cornice, applicandosi in assenza di specifiche disposizioni sulla sicurezza dei prodotti e quando vi siano lacune in tale legislazione settoriale. Per quanto ci riguarda, la sua applicazione non pregiudica la Direttiva 85/374/CEE relativa alla responsabilità per danno da prodotti difettosi. Nel nostro ordinamento la Direttiva 2001/95/CEE è stata attuata con il D. legisl. 21/05/2004, n. 172.

Per dare unità concettuale alla materia è stato approvato il Codice del Consumo, di cui al D. legisl. 6/09/2005, n. 206, che raccoglie in un unico testo le disposizioni vigenti in materia di tutela del consumatore, alla luce delle quali ben si comprende che la tutela del consumatore non si esaurisce nel momento contrattuale o nell’ambito dei possibili rimedi nel caso in cui il danno si sia già prodotto, poiché un efficace politica di tutela della salute e della sicurezza richiede, innanzitutto, un adeguato sistema di prevenzione volto a impedire l’immissione sul mercato e la circolazione dei prodotti difettosi.

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