La prova del danno ingiusto
di Evangelista Basile Scarica in PDFCassazione Civile, Sezione Lavoro, 12 luglio 2017, n. 17174
Contratto a tempo determinato – illegittimità – risarcimento – prova del danno ingiusto – onere inadempiuto – applicabilità dell’indennità omnicomprensiva del c.d. “collegato lavoro” – non sussiste
MASSIMA
Devono essere respinte le originarie domande del lavoratore a fronte di un unico contratto a tempo determinato con il Comune da ritenersi illegittimo laddove non risulta fornita la prova del danno ingiusto; non trova infatti applicazione l’art. 32 della legge 183/2010 – il c.d. “collegato lavoro” – né in via diretta, perché destinato a disciplinare i rapporti di diritto privato convertibili in rapporto a tempo indeterminato, né a titolo di agevolazione probatoria, che si impone solo in mancanza di una delle misure di cui alla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE e, quindi, in ipotesi di reiterazione del contratto, fattispecie non sussistente nella vicenda in esame.
COMMENTO
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi in materia di contratto di lavoro a tempo determinato. Nel precedente grado di giudizio, la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva infatti condannato il Comune di Firenze, datore di lavoro, a corrispondere alla lavoratrice la somma corrispondente a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in forza della confermata illegittimità dell’unico contratto a tempo determinato intercorso tra le parti. Avverso la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso per Cassazione il Comune. La Suprema Corte, confermando il proprio recente orientamento in tema di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, ha anzitutto esteso anche alla fattispecie in esame il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato – posto dall’art. 36 comma 5 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 – stante la natura pubblica in senso sostanziale del soggetto che figura quale datore di lavoro. In secondo luogo, la Cassazione ha quindi rilevato come, nel caso oggetto del giudizio, l’illegittimità riguardasse l’apposizione del termine ad un unico contratto di lavoro e non, invece, la successione di contratti o rapporti a termine. Sulla base di tali presupposti, la Suprema Corte ha quindi escluso, nel caso di specie, l’applicazione dell’indennità omnicomprensiva prevista dall’art. 32, quinto comma, della Legge 183/2010 (c.d. “Collegato Lavoro”), essendo tale disciplina, con l’agevolazione probatoria che ne deriva, destinata ad applicarsi solamente “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato”, ovvero, usando le parole della Suprema Corte, “in mancanza di una delle misure di cui alla clausola 5 dell’Accordo quadro e, quindi, in ipotesi di reiterazione del contratto, fattispecie non sussistente nella vicenda in esame”. Secondo la Cassazione, dunque, la disciplina applicabile al caso di specie “non può che essere quella di diritto comune, con la conseguenza che il danno, che stante il divieto di conversione non può essere commisurato alle retribuzioni perse, deve essere allegato e provato dal lavoratore”; del resto, le stesse retribuzioni perse, usate erroneamente dalla Corte d’Appello come parametro per il risarcimento del danno, non possono integrare la nozione di danno ingiusto nel momento in cui la lavoratrice non ha diritto alla costituzione del rapporto di lavoro, stanti le procedure di reclutamento del personale che regolano l’accesso alla pubblica amministrazione. A fronte delle considerazioni che precedono, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso promosso dal Comune, cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigettato le originarie domande formulate dalla lavoratrice.
Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”