La modifica statutaria dei diritti (patrimoniali) di partecipazione è causa di recesso ai sensi della lett. g dell’art. 2437 cc
di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDFIntestazione provvedimento: Cassazione Civile, sezione I, sentenza n. 13845 del 5 febbraio 2019 (depositata il 22 maggio 2019)
Parole chiave: recesso S.p.A. – modifica clausola statutaria – diritti di partecipazione – distribuzione utili – causa di recesso – liquidazione azioni
Massima: “In tema di recesso dalla società di capitali, l’espressione “diritti di partecipazione” di cui all’articolo 2437, lettera g), cod. civ., per quanto nell’ambito di un’interpretazione restrittiva della norma tesa a non incrementare a dismisura le cause legittimanti l’exit, comprende in ogni caso i diritti patrimoniali implicati dal diritto di partecipazione, e tra questi quello afferente la percentuale dell’utile distribuibile in base allo statuto; ne consegue che la modifica di una clausola statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell’utile, che influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva, giustifica il diritto di recesso dei soci di minoranza”.
Disposizioni applicate: artt. 2436, 2437 ss., 2501 ss. c.c.
Con la sentenza emessa dalla Prima Sezione civile, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla possibilità del socio di S.p.A. di recedere a seguito di modifiche statutarie inerenti i “diritti … di partecipazione” (art. 2437, lett. g, cc).
Nello specifico, a seguito di un’operazione di fusione per incorporazione fra due istituti di credito, taluni soci dissenzienti dell’incorporata radicavano azione nei confronti delle banche partecipanti all’operazione, al fine di ottenere da un lato, l’accertamento dell’efficacia e validità del recesso esercitato e dall’altro la condanna dell’istituto incorporante alla liquidazione del valore delle azioni da questi ultimi detenute (artt. 2437 ter e 2437 quater cc). Sia in primo che in secondo grado le domande dei recedenti erano state accolte invero la Corte territoriale riteneva integrata l’ipotesi di “compressione dei diritti di partecipazione dei soci” (ex comma 1, lett. g, dell’art. 2437 cc), in quanto “a seguito della fusione per incorporazione vi era stata una modificazione dello statuto con significativa elevazione dei limiti di riserva legale, del tetto di accantonamento e del limite di riserva statutaria straordinaria, con correlata penalizzante incidenza sulla possibilità di distribuire dividendi”.
La banca incorporante ricorreva pertanto in Cassazione sollevando, nel merito, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2437, lett. g, cc. Sostenendo, in particolare, la necessità di interpretare la disposizione in senso restrittivo, onde ricollegare il diritto di exit ad un pregiudizio concreto e attuale ai diritti partecipativi dei soci e non già “alle mere aspettative quali sono quelle relative alla distribuzione degli utili di esercizio”; e in ogni caso la mancanza di un danno subito dai recedenti giacché il pregiudizio sarebbe stato solo apparente in quanto “ampiamente compensato dall’aumento di valore patrimoniale automaticamente derivante dalla minore distribuzione”.
L’istituto del recesso nelle società di capitali è stato profondamente rimodellato e potenziato dal Legislatore della riforma, essendo ispirato a spiccate finalità di tutela dell’interesse individuale del socio al “disinvestimento”, attraverso l’ampliamento fra l’altro delle cause legittimanti il recesso. È infatti opinione comune che il recesso costituisca lo strumento di bilanciamento fra l’interesse capitalistico della maggioranza e quello individuale del socio (soprattutto se di minoranza), a fronte di decisioni che comportino significativi mutamenti sostanziali delle condizioni dell’investimento originariamente effettuato, andando a incidere sulle “caratteristiche della partecipazione”. La prassi ha peraltro correttamente osservato come oltre alla citata funzione (fondamentale) il recesso, a seguito della riforma, si connoti di ulteriori “utilità” fra le quali quella di costituire una modalità di uscita dalla compagine alternativa alla cessione della partecipazione, oltre ad essere un potente strumento negoziale di contrattazione del socio dissenziente al fine di ridiscutere talune scelte aziendali e/o societarie con gli altri soci (nelle società a base azionaria ristretta).
Com’è noto fra le cause di recesso legali inderogabili l’art. 2437 cc prevede l’ipotesi di cui al comma 1, lett. g), ossia la facoltà di recedere in capo al socio che non abbia concorso alle deliberazioni riguardanti le modifiche dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione. In merito alla portata della norma e in particolare all’ampiezza della locuzione normativa “diritti di partecipazione” la dottrina non ha mai avuto unanimità di vedute, in quanto ad una interpretazione restrittiva si è contrapposta un’opinione più estensiva volta a ricomprendere nell’alveo della disposizione “ogni modifica avente incidenza diretta sui diritti di voto o di partecipazione”, al fine di tutelare le minoranze azionarie.
La banca ricorrente, in particolare, avrebbe richiamato, a sostegno della sua tesi circa l’invalidità del recesso nel caso di specie, una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione 1 giugno 2017 n. 13875) nella quale quest’ultima negava il recesso al socio, ex art. 2437, lett. g, nell’ipotesi di delibera assembleare che muti il quorum per le assemblee straordinarie, riconducendolo alla previsione legale. Mettendo in luce come l’interesse della società sia prevalente rispetto all’eventuale pregiudizio subito dal singolo socio che non viene inciso, né direttamente né indirettamente, nel diritto di partecipazione agli utili e nel diritto di voto.
La Corte di Legittimità, pur aderendo ad una tesi restrittiva, al fine di “supportare la necessità di una lettura sufficientemente definita della locuzione normativa, onde evitare che ogni modificazione statutaria, per sua natura destinata a riverberarsi sulla posizione del socio, finisca poi col divenire un presupposto per recedere dalla società”, riconosce la profonda diversità tra i casi in esame.
Invero, osserva la Corte, nel caso di specie la modifica della clausola statutaria sulla distribuzione dell’utile, influenza direttamente, in negativo, i diritti patrimoniali dei soci: prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione, in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva legale, finendo per limitare la libertà dell’assemblea ordinaria di deliberare sulla distribuzione di utili e dunque alterando le correlate prerogative (patrimoniali) degli azionisti.
Ciò posto, prosegue la Corte, non si applica alla fattispecie la previsione di cui all’art. 56 TUB (richiamata apoditticamente dalla banca ricorrente), la quale prevede che le modifiche statutarie delle banche non possano contrastare con i principi di sana e prudente gestione. Difatti, ai fini del diritto di recesso del socio, rileva unicamente che la deliberazione incida o meno sul diritto di partecipazione (come nel caso di specie).
La Corte ha quindi conclusivamente affermato il principio di diritto secondo cui in tema di recesso l’espressione “diritti di partecipazione” di cui all’articolo 2437, lettera g) c.c. comprende in ogni caso i diritti patrimoniali implicati dal diritto di partecipazione, tra i quali il diritto alla percentuale dell’utile distribuibile in base allo statuto. Conseguentemente ha rigettato il ricorso dell’istituto di credito riconoscendo il diritto di recesso dei soci di minoranza nel caso di “modifica di una clausola statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell’utile di esercizio, che influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva”.