La legittimazione ad agire nell’intimazione di licenza o sfratto ove il bene locato sia oggetto di comunione
di Cecilia Vantaggiato Scarica in PDFCassazione civile sez. III, 4 luglio 2019, n. 17933 Pres. Armano – Rel. Sestini
Il comproprietario può agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile per finita locazione, trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione della cosa comune per il quale si deve presumere che sussista il consenso degli altri comproprietari o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione, sicché non ricorre la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti.
CASO
La vicenda giudiziaria ha origine dalla concessione in locazione di un immobile da parte di L.T.F., unitamente alla figlia S.M.P. A fronte del mancato pagamento dei canoni dovuti, L.T.F intimò lo sfratto per morosità al conduttore.
La domanda venne accolta dal Tribunale di primo grado, che dichiarava la risoluzione del contratto.
Il giudice di seconde cure, tuttavia, investito del gravame dal conduttore rimetteva la causa al Tribunale, ritenendo sussistente un difetto di integrità del contraddittorio per mancata partecipazione al giudizio dell’altra parte locatrice.
Avverso la pronuncia della Corte d’appello veniva proposto ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
La Suprema Corte, in adesione all’orientamento tradizionale, ha ritenuto legittimato anche uno solo dei comproprietari, al fine di ottenere la pronuncia giudiziale di condanna al rilascio dell’immobile.
QUESTIONI
La questione oggetto della decisione della Suprema Corte attiene alla legittimazione ad agire nel procedimento di licenza o sfratto per finita locazione o per morosità, ove l’immobile risulti essere in comunione.
Tra i procedimenti sommari di cognizione con prevalente funzione esecutiva rientra il procedimento per convalida di sfratto.
Esso solitamente può esplicarsi in tre diversi modi: l’intimazione di licenza prima della scadenza della locazione (art. 657 c. 1 c.p.c.), lo sfratto dopo la scadenza della locazione (art 657 c 2 c.p.c.) ed infine lo sfratto per morosità (art. 658 c.p.c.).
La legittimazione ad agire mediante procedimento per convalida di sfratto, quale condizione dell’azione, presuppone l’affermata titolarità attuale del diritto azionato in giudizio.
Nel caso in cui il bene locato sia oggetto di comunione, si ritiene che la legittimazione ad agire mediante procedimento per convalida di sfratto spetti a ciascuno dei comproprietari, senza che ciò comporti la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri comproprietari.
Le Sezioni Unite hanno risolto da tempo la questione relativa alla corretta qualificazione del contratto di locazione stipulato da uno solo dei comproprietari, stabilendo che esso rientri nell’ambito di applicazione della gestione di affari altrui, con possibilità di applicare l’art. 2032 cod. civ., sicché “nel caso di gestione non rappresentativa il comproprietario non locatore potrà ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705, secondo comma, cod. civ., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa” (Cass. SSUU sent. 4 luglio 2012, n.11135).
In egual modo, ciascuno dei comproprietari può intentare le azioni, anche giudiziarie, a tutela del bene e degli interessi comuni, purché l’azione intrapresa dal comproprietario sia stata portata formalmente a conoscenza degli altri, i quali non si siano opposti (così, Cass. civ. Sez. III, Sent., 28/02/2017, n. 5014).
È principio consolidato che, ove il partecipante alla comunione intenda proporre un’azione giudiziaria o un negozio giuridico (e, in generale, un atto di ordinaria amministrazione), sussista la presunzione del consenso degli altri comunisti, ai sensi dell’art. 1105 c.c., comma 1, che può essere superata dimostrando l’esistenza del relativo dissenso per una quota maggioritaria o eguale della comunione, senza che occorra che tale dissenso risulti espresso in una deliberazione a norma dell’art. 1105 c.c., comma 2, e sempre che il conflitto, non superabile con il criterio della maggioranza economica, non venga composto in sede giudiziale (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11553 del 14/05/2013; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 480 del 13/01/2009).
La rilevazione del dissenso degli altri comproprietari rappresentanti una quota maggioritaria della comunione comporta la carenza di legittimazione attiva dell’attore (comproprietario) originario, in conformità all’insegnamento fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale, con riguardo alle domande di risoluzione del contratto di locazione e di condanna del conduttore al pagamento dei canoni, dev’essere negata la legittimazione (attiva) del comproprietario del bene locato, ove risulti l’espressa volontà contraria degli altri comproprietari (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 11589 del 13/05/2010; Cass. civ. Sez. III, Sent. 13/04/2017, n. 9556).
Si consideri, infatti, che in detta situazione di dissenso, restando superata la presunzione che il singolo comunista agisca con il consenso degli altri, cade conseguentemente il presupposto per il riconoscimento della sua legittimazione a compiere atti di utile gestione rientranti nell’ordinaria amministrazione della cosa comune.
Nell’ipotesi in cui i coniugi in regime di comunione legale dei beni abbiano concesso un immobile di loro proprietà in comodato gratuito ovvero in locazione l’azione di rilascio può essere esercitata da entrambi o da uno di essi con il consenso dell’altro. Deve, infatti, ritenersi la carenza di legittimazione attiva del coniuge comproprietario che abbia proposto la domanda giudiziale, ove nel corso del giudizio l’altro sia parimenti intervenuto in causa, manifestando la propria opposizione all’iniziativa del primo (Cass., sez. III, 21/06/2011, n. 13593). Diversamente, invece, nel caso in cui la locazione sia stata stipulata da uno solo dei due coniugi, il coniuge pretermesso non potrà agire con l’azione per il rilascio (non essendo parte del contratto), dovendosi riconoscere a questo unicamente il rimedio dell’annullamento del contratto stipulato dal coniuge senza il suo consenso, ai sensi dell’art. 184 c.c.