25 Febbraio 2020

La domanda di risarcimento del danno da lite temeraria deve essere obbligatoriamente proposta nel giudizio che si ritiene temerariamente iniziato o contrastato

di Alessandro Carpentiero Scarica in PDF

Cass. Civ., sez. I, 9 dicembre 2019, n. 32029, Pres. Giancola – Est. Campese.

Responsabilità processuale aggravata – Lite temeraria – Domanda di risarcimento danni ex art. 96 commi 1 e 2 c.p.c. – Ammissibilità in giudizio autonomo e distinto. (Cod. civ. art. 263; Cod. proc. civ. art. 96 commi 1 e 2)

La domanda di risarcimento danni ex art. 96 c.p.c., poiché riguardante un’attività processuale, non può costituire l’oggetto di un giudizio autonomo e distinto rispetto a quello che si ritiene temerariamente iniziato o contrastato, dovendo essere necessariamente formulata, invece, in quest’ultimo. Ciò, anche in considerazione dei principi generali di economia processuale e non contraddittorietà.

CASO

Il Tribunale di Napoli, con sentenza divenuta cosa giudicata, accoglieva la domanda ex art. 263 c.c.  di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, avanzata da parte attrice, dichiarando conseguentemente nullo, per l’appunto, il riconoscimento che la stessa aveva precedentemente effettuato del figlio naturale di parte convenuta. Dunque, la esonerava da ogni obbligo di mantenimento in favore di quest’ultimo.

In forza di detta statuizione, l’attore, innanzi allo stesso Tribunale, instaurava un ulteriore e differente  giudizio contro parte convenuta al fine di ottenere, ai sensi degli artt. 2033, 2041 e 2043 c.c., nonché dell’art. 96 c.p.c., i seguenti provvedimenti: la ripetizione delle somme già erogate a titolo di mantenimento del figlio; un indennizzo per ingiustificato arricchimento della convenuta a suo danno; infine, il risarcimento del pregiudizio, patrimoniale e non, derivatogli dalla ingiustificata resistenza di controparte – a suo dire consapevole della non veridicità del riconoscimento – nella controversia relativa all’impugnazione di quest’ultimo.

L’adito Tribunale, tuttavia, respingeva tali richieste sostenendo l’irripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento, l’assenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda ex art. 96 c.p.c. e l’infondatezza di ogni pretesa risarcitoria.

La Corte di Appello di Napoli confermava la decisione pronunciata dal giudice di prime cure, rigettando, conseguentemente, l’impugnazione avverso la stessa proposta da parte attrice. Ciò, principalmente, in virtù della mancata dimostrazione della malafede di parte convenuta nonché del nesso di causalità tra la condotta dalla stessa tenuta ed il danno lamentato dall’attore. Tali carenze istruttorie, secondo i Giudici di seconda istanza, imponevano ex se, come corollario necessario ed ineliminabile, il rigetto di tutte le pretese legate ai danni avanzati dalla stessa parte attrice.

Quest’ultima, nei confronti della sentenza pronunciata dalla Corte di appello, proponeva ricorso per cassazione, lamentando – mediante il penultimo dei quattro motivi di doglianza (il solo rilevante ai fini della presente trattazione) -, la violazione o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c. In particolare, la sentenza impugnata veniva censurata nella parte in cui disattendeva – per carenza di riscontro probatorio – la richiesta di risarcimento danni da responsabilità processuale aggravata, precedentemente avanzata dal ricorrente nei confronti di parte convenuta.

SOLUZIONE

La Suprema Corte dichiarava inammissibile il prospettato motivo di doglianza, rilevando come il ricorrente avrebbe dovuto proporre la domanda di risarcimento danni, ex art. 96 c.p.c., non in via autonoma, bensì nel giudizio di impugnazione del riconoscimento dallo stesso instaurato ai sensi dell’art. 263 c.c., non potendo tale pretesa, infatti, costituire l’oggetto di un autonomo e distinto giudizio rispetto a quello che si assume temerariamente iniziato o contrastato.

Il ricorso, dunque, veniva respinto integralmente, e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

QUESTIONI

La Corte di Cassazione, mediante la sentenza in epigrafe, ha parimenti affermato il diniego opposto dalla Corte di appello partenopea alla richiesta risarcitoria avanzata dal ricorrente ex art. 96 c.p.c., ancorché sulla base di argomentazioni affatto diverse rispetto a quelle spese dai giudici di seconda istanza. Infatti, ha motivato la propria decisione soffermandosi non sulla carenza di riscontro probatorio – rilevata dal giudice di secondo grado – in ordine ad alcuni degli elementi costitutivi della responsabilità processuale aggravata contestata a parte convenuta, bensì sulla natura di quest’ultima e sui principi generali di economia processuale e non contraddittorietà.

Ai fini della comprensione del percorso logico seguito dalla Corte per giungere alla propria decisione, è opportuno, preliminarmente, illustrare la ratio dell’art. 96, primo e secondo comma, c.p.c.

Quest’ultimo, come noto, è volto a punire quella parte che, all’esito del giudizio che l’ha vista soccombere, risulti aver agito o resistito nello stesso con mala fede o colpa grave, ossia con la consapevolezza del proprio torto, ovvero con la mancanza di quel minimo di diligenza e perizia necessarie a rendersi conto della infondatezza della propria pretesa.

La funzione della norma in esame, dunque, è quella di tutelare l’interesse di una delle parti della controversia a non subire pregiudizi per effetto del contegno processuale doloso o colposo tenuto dall’altra. Detto in altri termini, l’art. 96 c.p.c. disciplina tutte le possibili ipotesi di risarcimento per fatti pregiudizievoli eziologicamente derivanti dall’abuso del processo, per tale intendendosi l’impiego distorto dello stesso per fini che esulano il suo scopo tipico.

Per quanto riguarda il profilo – cui poc’anzi si è fatto cenno – della natura della disposizione in esame, poi, è possibile rilevare come lo stesso sia stato ben delineato dalla Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe. Infatti, i Supremi Giudici, ritenendo che la previsione contenuta nell’art. 96 c.p.c., primo e secondo comma, costituisca una sottospecie dell’art. 2043 c.c., hanno qualificato la medesima come norma sanzionatoria del c.d. illecito processuale. Con ciò, peraltro, confermando, la marginalità della opinione secondo cui la responsabilità processuale aggravata deve intendersi come una sanzione per l’inosservanza dell’obbligo di lealtà e probità imposto dall’art. 88 del c.p.c.

La condotta illecita sanzionata dalla norma in parola, alla luce quanto sin qui sottolineato, in definitiva, consiste in una attività processuale. Quest’ultima, secondo il ragionamento svolto dalla sentenza in commento, non può razionalmente costituire l’oggetto della valutazione di due giudici diversi: quello della controversia che si assume temerariamente iniziata o contrastata, ai fini dell’esame del merito della domanda, e quello del giudizio autonomamente instaurato per l’accertamento della diligenza o negligenza con cui quell’attività fu compiuta, ai sensi dell’art. 96 c.p.c. Ciò, anche in ragione del fatto che la legittimità di un processo non può essere giudicata che dal giudice di quello stesso processo.

Ritenere il contrario – obietta la Corte – significherebbe introdurre nell’ordinamento una impugnazione “extravagante” e non prevista.

Ciò detto, è doveroso rilevare come i Giudici di legittimità, mediante la sentenza in commento, abbiano disatteso la recente ed ampiamente condivisa opinione che ammette la possibilità di avanzare in via autonoma la domanda risarcitoria ex art. 96 c.p.c., tutte le volte in cui il danneggiato vi abbia un interesse “meritevole di tutela”, ossia nel caso in cui la proposizione della suddetta pretesa, nel giudizio presupposto, sia stata preclusa dalla evoluzione specifica del medesimo, ovvero da ragioni (che devono essere allegate e provate) non dipendenti dall’ inerzia del danneggiato (Cassazione civile, sez. III, 19 luglio 2018, n. 19179; Cassazione civile, sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25862). Con la pronuncia in epigrafe, la S.C., infatti, ha aderito al tradizionale e contrario orientamento secondo cui la pretesa risarcitoria ex art. 96 c.p.c. deve essere formulata necessariamente nel giudizio che si assume temerariamente iniziato o contrastato, ossia nel processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata e, quindi, non in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad un altro giudice (Cassazione civile, sez. III, 8 novembre 2018, n. 28527; Cassazione civile sez. VI, 16 maggio, 2017, n. 12029; Cassazione civile sez. I, 20 maggio 2016, n.10518; Cassazione civile sez. III, 06 agosto 2010, n.18344).

A completamento delle suesposte ragioni – come accennato -, la Corte ha richiamato anche i principi generali di economia processuale e non contraddittorietà. Infatti, ha rilevato come la concentrazione nel medesimo giudizio dell’accertamento dell’eventuale responsabilità aggravata d’uno dei litiganti, consenta di ridurre il contenzioso, nonché di evitare lo spreco di attività giurisdizionale e pronunce contraddittorie. Opinando diversamente, d’altronde, potrebbero sorgere conseguenze paradossali: la compensazione delle spese di lite nel giudizio presupposto e la soccombenza nel giudizio di responsabilità ex art. 96 c.p.c. della parte che ha agito o resistito nel primo con mala fede o colpa grave.

La S.C., infine, per rafforzare l’apparato giustificativo della propria decisione, ha posto a confronto l’operatività del risarcimento danni da responsabilità processuale aggravata con quella del risarcimento (in forma specifica) di cui all’art 89 c.p.c., il quale – lo si ricorda – contempla la cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti pronunciate durante il giudizio. Tali ipotesi risarcitorie, secondo i giudici di legittimità, sarebbero accomunate dal medesimo principio regolatore, compendiabile nell’enunciato secondo cui: il mancato esercizio della pretesa nel giudizio presupposto, non determina la perdita del diritto ad essa sottostante, ma semplicemente la possibilità di farlo valere in un’autonoma e separata controversia. La Corte, facendo applicazione dello stesso, ha affermato come la parte che non presenti istanza di cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive nella medesima controversia in cui le stesse sono pronunciate, non può proporla in un autonomo e successivo giudizio. Ciò, in analogia con quanto sostenuto nella sentenza in commento, relativamente all’azione ex. art. 96 c.p.c.

Centro Studi Forense - Euroconference consiglia

Organismo di vigilanza