La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto
di Martina Mazzei, Avvocato Scarica in PDFL’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 14 del 30 luglio 2024, in risposta alla questione deferita con l’ordinanza della II sezione del Consiglio di Stato 7 marzo 2024, n. 2228, ha fornito delle importanti precisazioni sulla disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio.
In particolare, l’ordinanza n. 2228 del 2024 aveva sollecitato l’intervento nomofilattico dell’Adunanza plenaria per risolvere il dubbio interpretativo in ordine agli effetti – ex tunc o ex nunc – della decadenza del permesso di costruire rilasciato nel caso di mancato completamento delle opere assentite con il titolo nel termine, eventualmente prorogato, di cui all’art. 15, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Il Supremo consesso parte proprio dalla disciplina normativa ricordando che l’art. 15 del d.P.R. n. 308 del 2001 – il quale fissa l’efficacia temporale del titolo e la sua decadenza qualora le opere non siano state ultimate entro il termine di 3 anni – trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo l’attività di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire.
Del resto, il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato di richiedere e di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire, così evitando la decadenza ed ha anche stabilito che, in caso di decadenza, l’interessato possa richiedere un nuovo permesso di costruire per il completamento delle opere, sempreché quelle mancanti non possano realizzarsi ai sensi dell’art. 22 dello stesso testo unico (in quanto soggette a s.c.i.a.) e fermo restando che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo permesso di costruire presuppone la compatibilità delle opere da realizzare con la disciplina urbanistica vigente al momento del suo rilascio.
Nondimeno il legislatore, al comma 4 dell’art. 15 T.U. edilizia, ha introdotto una deroga al principio di decadenza nel caso dei lavori assentiti dal permesso di costruire già cominciati e completati entro il termine di tre anni dalla data del loro inizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 3283/2017).
La Plenaria precisa che il fondamento di tale deroga è il bilanciamento tra la tutela dell’affidamento del privato al completamento dell’opera in fase di realizzazione sulla base di un permesso di costruire, il principio di conservazione e quello di proporzionalità e ciò al fine di evitare la distruzione di ricchezza conseguente all’abbandono di progetti in avanzato stato di attuazione, conservando, comunque, la vigilanza sull’attività di edificazione attraverso la previsione del limite temporale triennale, pari a quello di durata dell’efficacia del permesso di costruire.
Al bilanciamento tra i principi di conservazione e di affidamento si ispirano anche gli artt. 36 e 38 del testo unico edilizia, il primo dei quali (sull’accertamento di conformità) prevede la possibilità – nei limiti ivi contemplati – di sanare gli abusi purché “l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”; il secondo invece consente, in taluni casi, la conservazione dell’immobile realizzato sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato, prevedendo in luogo della demolizione una sanzione pecuniaria.
È proprio su queste norme che si è innestato il dubbio interpretativo della Sezione rimettente.
In particolare, il regime più favorevole stabilito dal legislatore nell’art. 38 cit. (relativo all’annullamento del permesso di costruire che produce effetti ex tunc e, dunque, rende illecite le opere realizzate) rispetto alla decadenza del permesso di costruire (che ha efficacia ex nunc) ha fatto sorgere dubbi alla Sezione remittente circa l’applicabilità dell’art. 31 alle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire dichiarato decaduto. Secondo la Sezione remittente, tali opere, eseguite sulla base di un titolo edificatorio legittimo, non potrebbero ritenersi abusive, e dunque non sarebbero passibili di demolizione e di restituzione in pristino.
La Plenaria, come vedremo, non ha ritenuto condivisibile tale tesi e ha, inoltre, sottolineato che non sono fondati i dubbi di proporzionalità evocati dalla Sezione remittente tra la disciplina recata dall’art. 38 e quella dell’art. 31 del testo unico: l’abuso, sanzionato con la demolizione, infatti, deriva dalla accertata “divergenza tra consentito e realizzato” che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38, in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzata dall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato.
Anzitutto è bene rammentare che l’art. 31 del T.U. edilizia si riferisce agli “interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali” e, al comma 1, dispone che “sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso”.
Il permesso di costruire è qualificato, in base all’art. 10 del testo unico, come il provvedimento che legittima le trasformazioni urbanistiche ed edilizie ivi individuate (nuove costruzioni, ristrutturazioni urbanistiche ed edilizie nei limiti indicati nella disposizione).
La sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio. Il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.).
Qualunque realizzazione dell’edificio difforme dal progetto, anche se sia ridotta la volumetria o ne siano modificati il perimetro, le sagome e le altezze, comporta una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ che in quanto tale – affinché vi sia la ‘regolarità urbanistica’ – o deve essere previamente autorizzata dal Comune o necessita di un atto di ‘accertamento di conformità’, qualora questo sia consentito dall’ordinamento.
L’edificazione deve quindi avvenire nel rigoroso rispetto del principio di conformità tra l’opera risultante dal progetto assentito con il permesso di costruire e quella concretamente realizzata.
L’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato.
La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio.
Il permesso di costruire, infatti, consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”. Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il c.d. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un’opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita.
Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’.
Ne consegue che sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino – in caso di decadenza del permesso di costruire – qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale.
Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico.
In altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire.
Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito.
Prima di delineare più nel dettaglio quando l’incompletezza dell’intervento edificatorio possa integrare la totale difformità ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, l’Adunanza plenaria ha tuttavia chiarito cosa debba intendersi per ‘costruzione’.
La Plenaria rammenta che una ‘costruzione’ è ravvisabile, per la giurisprudenza consolidata, ogni qualvolta “l’intervento edilizio produca un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione” (Cons. Stato, Sez. VI, 03/04/2024, n. 3031).
La giurisprudenza – che si è ispirata alle argomentazioni poste a base della sentenza di questa Adunanza Plenaria, 10 marzo 1982, n. 3 – ha, infatti, chiarito che anche la realizzazione di muri di cinta o di contenimento di ragguardevoli dimensioni – così come anche l’attività di movimento di terra che modifichi la conformazione dei luoghi – è soggetta al rilascio del permesso di costruire.
In altre parole, occorre il rilascio del permesso per le opere di qualsiasi genere che modifichino il suolo e lo stato dei luoghi, determinandone una significativa trasformazione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 29 novembre 2023, n. 10291; Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 2023), pur quando si tratti di movimento terra, in assenza di volumi e per realizzare una strada (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 24 marzo 2020, n. 2050).
La ‘divergenza tra consentito e realizzato’ sussiste, dunque, non solo quando ‘si costruisce in più del consentito’, ma anche quando vi è il c.d. “incompleto architettonico”, configurabile sotto il profilo temporale qualora vi sia stata la decadenza del permesso di costruire, secondo le regole generali, e non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda.
Tale divergenza è configurabile quando vi è la realizzazione parziale di un complesso intervento edificatorio autorizzato (ad es. una sola costruzione autonoma e scindibile al posto di plurime costruzioni), quando i lavori si siano fermati prima dell’ultimazione del manufatto (durante la fase degli scavi o dopo la realizzazione anche parziale del solo “scheletro”, senza la copertura, le scale, i solai, il tetto o la tamponatura esterna.
Un caso particolare – in cui verosimilmente è consentito l’accoglimento di una istanza di accertamento di conformità, salve regole speciali – si ha quando vi è l’edificazione solo parziale dell’unica costruzione autorizzata (ad es. solo il primo piano, sia pure con la predisposizione dei pilastri per realizzare il secondo piano) o quando sia stato realizzato un edificio dal perimetro più contenuto e dunque inferiore rispetto a quello assentito.
Ciò posto, il Supremo consesso ha fornito le delucidazioni interpretative sulla disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto.
Innanzitutto, i giudici amministrativi ricordano che, dopo la decadenza del permesso di costruire, spetta al Comune constatare che vi è stata una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ ed adottare la determinazione conseguente, che può essere – a seconda dei casi – quella della demolizione ex art. 31 ovvero la sanzione prevista dall’art. 34 del testo unico.
La parte interessata potrebbe anche chiedere, se ne sussistono i presupposti, l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 dello stesso testo unico.
Gli esiti, quindi, possono essere vari a seconda della tipologia di incompletezza dell’opera.
In particolare, specifica la Plenaria, l’art. 31 si applica quando le opere incomplete non sono autonome, scindibili e funzionali.
Quando l’opera incompleta non ha tali caratteristiche e si riduce, ad esempio, alla realizzazione dei soli pali di fondazione, allo scavo del terreno, alla costruzione di pilastri o della struttura in cemento armato senza la tamponatura (c.d. scheletro), si tratta di un’opera riconducibile alla totale difformità dal permesso di costruire, in quanto di certo non può essere rilasciato il titolo abilitativo per la realizzazione di un manufatto privo di una autonoma finalità.
Tale manufatto, per le proprie caratteristiche di grave incompletezza non superabile mediante il rilascio di un ulteriore permesso di costruire se richiesto, costituisce anche causa di degrado dell’ambiente circostante.
La riduzione in pristino dell’area deturpata dall’intervento edilizio cominciato, che non può essere terminato, è necessaria per ripristinare lo stato dei luoghi: se il proprietario decide di abbandonare i lavori, e comunque quando i lavori rimangono incompiuti, l’ordinamento non consente che vi sia il nocumento alle finalità perseguite in sede di pianificazione territoriale ed esige il rispetto della pianificazione urbanistica e, dunque, del principio per il quale le modifiche dello stato dei luoghi risultano lecite solo se vi è la coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato.
In presenza di opere parziali che siano invece autonome, scindibili e funzionali, invece, le misure adottabili dal Comune sono più variegate e, in questi casi, in sede interpretativa, le Amministrazioni comunali possono valere i principi di proporzionalità e di conservazione (principi che, in più occasioni, ha utilizzato il legislatore per disciplinare situazioni similari).
Deve ritenersi, ad esempio, “frazionabile” il permesso di costruire che riguardava un complesso di edifici, dei quali solo uno o solo alcuni sono stati in concreto realizzati (salve le misure da adottare, quando le opere di urbanizzazione siano state realizzate in modo diverso da quanto progettato).
Possono poi risultare conformi al titolo edificatorio originario i manufatti autonomi funzionalmente anche se non sono propriamente completi, qualora vi siano tutti gli elementi costitutivi ed essenziali del manufatto e manchino soltanto opere marginali che non richiedono il rilascio del permesso di costruire (art. 15, comma 3).
In ogni caso, nel caso di opere parzialmente edificate, autonome funzionalmente, che però presentino variazioni rispetto al titolo abilitativo, spetta al Comune stabilire, nell’esercizio del proprio potere di gestione del territorio, se esse risultino realizzate in conformità con il permesso di costruzione, ovvero se ricadano nella fattispecie ex art. 34, ovvero se possano essere sanate in base all’art. 36.
In conclusione, l’Adunanza plenaria ha enunciato i seguenti principi di diritto:
in caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire, di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incomplete siano autonome e funzionali oppure no;
nel caso di costruzioni prive dei suddetti requisiti di autonomia e funzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire;
qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati – ferma restando l’esigenza di verificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate – devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi ed essenziali – necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio di un nuovo permesso di costruire;
qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potrà adottare la sanzione recata dall’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001;
è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e di chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile – di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica.
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