La disciplina consumeristica applicabile al condominio
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFMassima: “Al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l’amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”.
CASO
La società Gamma, impresa erogatrice di servizi di riscaldamento ambienti ed acqua ad uso sanitario, dichiarava di aver concluso con il Condominio Beta sito in Milano, un contratto di appalto e somministrazione di energia elettrica, comprensivo dell’ulteriore servizio di assistenza e manutenzione degli impianti per cinque anni, pattuendo il pagamento di una somma complessiva globale.
Invero, il Condominio Beta, si rendeva moroso non avendo corrisposto quanto dovuto e lasciando non saldata una fattura relativa al corrispettivo dell’anno 2011. Per la detta somma nonché per i relativi interesse moratori maturati, l’impresa conveniva il ridetto ente di gestione innanzi il Tribunale di Milano onde ottenere il pagamento di quanto di sua spettanza a titolo di corrispettivo ed interessi di mora.
Si costituiva il Condomino, contestando l’addebito di entrambe le pretese creditorie, chiedendo inoltre di accertare la vessatorietà della clausola contrattuale che prevedeva gli interessi di mora in caso di ritardo nella corresponsione del pagamento e dichiarando altresì di aver già ottemperato ai suoi obblighi di pagamento rispetto alla fattura dell’anno 2011; chiedeva infine l’ammissione di una C.T.U. per la verifica degli effettivi consumi e la quantità di megawatt prodotti.
Il Tribunale di Milano, pronunciandosi, e rilevando la qualità di consumatore del Condominio, dichiarava la vessatorietà della clausola in questione ai sensi e per gli effetti dell’art. 33, lett. F, del Codice del Consumo.
Riteneva di conseguenza non dovuti gli interessi oggetto di domanda giudiziale e che comunque, la società attrice non avesse soddisfatto l’onere della prova posto a suo carico per dimostrare le ragioni poste alla base delle proprie ragioni creditorie.
Rigettava la domanda attrice e la condannava altresì al pagamento delle spese di lite.
Avverso detta sentenza, la Società Gamma interponeva appello innanzi alla Corte di Appello di Milano che con sentenza n. 2147 del 24 agosto 2020, rilevava che il Condominio avesse saldato il debito ante causam.
Così facendo, l’ente di gestione aveva assolto al suo debito, “dichiarando espressamente di farlo e dunque riconoscendone la debenza con valore confessorio”, tuttavia la Corte di seconde cure riteneva parzialmente fondata la domanda relativa al pagamento degli interessi di mora.
In ragione dell’iter logico-giuridico del giudice di seconde cure, se è vero che la clausola era da considerarsi nulla in quanto vessatoria – considerato l’importo manifestamente eccessivo, anche superiore a quello previsto dal D.Lgs n 231 del 2022 – tuttavia risultando accertata la debenza delle somme il Condominio fosse comunque tenuto a pagare su di essa e su altre fatture gli interessi mora ai sensi dell’art. 1224 c.c., nella misura legale per il ritardo nel pagamento.
In parziale accoglimento dell’appello la Corte distrettuale dichiarava saldato il debito a titolo di corrispettivo, ma riteneva fondata la domanda di pagamento delle somme ai sensi del codice civile; compensava le spese di giudizio ponendo a carico del Condominio appellato le spese della C.T.U. espletata in primo grado, ordinando altresì al Condominio di provvedere alla restituzione delle somme.
Avverso tale decisione la Società Gamma proponeva ricorso in Cassazione sulla base di tre motivi.
Resisteva con controricorso il Condomino Beta.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14410 del 23 maggio 2024, rigettava il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Dava atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, del D.P.R. n. 115 del 2002 se dovuto.
QUESTIONI
Con il primo motivo la ricorrente denunciava ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., l’omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c. La Corte di Appello di Milano non si sarebbe pronunciata sulla domanda di condanna dell’ente di gestione al pagamento delle spese di CTU e CTP sostenute dalla ricorrente nel giudizio di primo grado, benché si fosse sempre opposta all’ammissione della consulenza.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
A dispetto di quanto affermato dalla ricorrente, la corte del primo grado aveva già posto a carico del Condominio le spese della Consulenza Tecnica d’Ufficio, “ricomprendendo in essa evidentemente le sole spese che ha ritenuto ripetibili ed escludendo quelle di CTP non essendovi un obbligo specifico di provvedere su tutti i costi sostenuti”. Per la Corte di legittimità non sussisteva alcuna omessa pronuncia avendo il giudicante applicato l’art. 92, comma 1, c.p.c., in ragione del quale il giudice può prescindere dalla ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice laddove ritenute eccessive o superflue.
La decisione del giudice si conforma perfettamente all’orientamento di legittimità ormai consolidato in ragione del quale “le spese per la consulenza tecnica di parte possono essere rimborsate, a meno che il giudice non ritenga di escluderle perché eccessive o superflue”.
D’altro canto, è la medesima ricorrente a porre a fondamento del motivo una decisione della giurisprudenza di legittimità – specificamente la n. 10173 del 2015 – secondo la quale le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte fanno parte di quelle di cui la parte vittoriosa ha diritto al rimborso, tuttavia ciò è vero “a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell’art. 92, comma 1, c.p.c., della facoltà di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue”[1].
Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamentava ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., error in procedendo, per motivazione apparente per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione al capo della sentenza che rigettava la domanda di condanna del Condominio Beta al pagamento degli interessi pattuiti nella misura del 9,25% – per mancanza di prove ed in applicazione della disciplina consumeristica. La Corte delle seconde cure avrebbe deciso con motivazione apparente per aver “svolto il raffronto tra la misura pattuita del 9,25% e il tasso legale in vigore al momento della stipula del contratto del 2,5%, passato al 3% nel periodo 2008/2009, all’1% nel 2010 e all’1,5% nel 2011”.
La motivazione sarebbe stata illogica alla luce del richiamo a tassi di interesse riferiti ad anni successivi a quello della conclusione del contratto, nonché apparente per non aver preso in considerazione la possibilità – di cui all’art. 1284, comma 3, c.c. – di applicare interessi nella misura ultralegale e liceità del tasso eventualmente previsto se rientrante all’interno del cd. tasso soglia.
Con il terzo motivo di ricorso, lamentava ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c, la violazione degli artt. 1224, 1284, comma 3, e 1362 c.c., nonché la falsa applicazione degli artt. 33 e 35 del Codice del Consumo, nonché violazione dei principi regolatori della materia elaborati dalla Corte di legittimità, violazione dell’art. 2697 c.c., per inversione dell’onere della prova.
La ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1224 e 1284 c.c., rilevando che la decisione del giudice d’appello non abbia chiarito i motivi in forza dei quali il tasso al 9,25% – come quello fissato per legge per il ritardo nel pagamento nelle transazioni commerciali – sia considerato de plano usurario nel caso in cui venga pattuito in un contratto stipulato tra professionista e consumatore. Secondo la ricorrente “questa statuizione volta a consentire al giudice di merito una ampia discrezionalità sulla valutazione di ciò che le parti hanno pattuito, dando luogo, nell’interpretare cosa debba intendersi per eccessività del tasso, a soluzioni non univoche sul territorio nazionale, si porrebbe in contrasto con le indicate disposizioni ed in particolare con la possibilità di pattuire interessi in misura extralegale ove non usurari”. Per tali ragioni, la decisione della Corte territoriale si porrebbe in contrasto con il principio enunciato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, in ragione della quale gli interessi di mora assolvono ad una funzione del tutto legittima e non sono assoggettati ad un vaglio di “disvalore”, essendo unicamente necessario osservare solo il limite del tasso soglia[2]. Sempre ad avviso della ricorrente “la possibilità di applicare nei contratti conclusi con i consumatori la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett f) e 36, comma 1, del Codice del Consumo, essendo rimessa all’interessato la scelta di far valere l’uno o l’altro rimedio, non implicherebbe la liceità tout court della mancata verifica del superamento del tasso soglia ai fini della normativa antiusura”. Da ultimo, la decisione veniva censurata nella parte in cui in violazione dell’art. 2697 c.c., si ometteva di chiedere all’obbligato che rileva l’eccessiva misura degli interessi di mora di assolvere all’onere di dedurre “il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato con tutti gli altri elementi contenuti nel D.M. di riferimento”; al contrario nel caso oggetto di lite non sarebbe stata neppure dedotta una autorizzazione dell’assemblea condominiale a favore dell’amministratore di concludere accodi con interesse in misura superiore al tasso legale.
Per la Corte di Cassazione, il secondo ed il terzo motivo di ricorso – da esaminare congiuntamente – sono infondati.
Ad avviso del giudice di legittimità, la Corte distrettuale nell’affermare l’applicabilità della disciplina consumeristica – confrontando il tasso convenzionale e quello legale – ha correttamente motivato in ossequi all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità.
Invero, al caso per cui è lite è perfettamente applicabile la disciplina consumeristica di cui all’art. 33, comma 2, lett. f), del Codice del Consumo, in ragione del quale deve ritenersi vessatoria la clausola che obbliga il consumatore moroso a corrispondere una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale ovvero “altro titolo equivalente di importo manifestamente eccessivo”.
Conferma tale argomentazione l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in ragione del quale “al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l’amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”[3].
Inoltre, il raffronto operato tra il tasso accordato e quello legale è stato effettuato da parte dei giudici nel pieno esercizio dei poteri loro spettanti e rispetto al quale ne è estata data anche una congrua motivazione.
Non coglie nel segno neppure il preteso contrasto tra la decisione oggetto di gravame ed il precedente a Sezioni Unite richiamato dalla ricorrente per due ordini di ragioni: la prima è che non esiste nessuna discrasia con il richiamato precedente proprio perché la stessa decisione tratta del superamento del tasso soglia ai fini della normativa antiusura ed in secondo luogo perché la pronuncia prevede che i contratti conclusi con i consumatori sono suscettibili di applicazione della tutela di cui agli artt. 33, comma 2, lett. f), e 36, comma 1, D.lgs n. 206 del 2005, considerato che è lasciata all’interessato la scelta di azionare un rimedio piuttosto che un altro. Il tutto peraltro “in conformità a quanto affermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha avuto modo di porre in rilievo come il sistema nazionale che riduca entro una soglia ritenuta lecita il tasso eccessivo degli interessi moratori non deve comunque precludere al giudice, il caso di contratto dei consumatori, la facoltà di ritenere la clausola abusiva, con conseguente relativa eliminazione ex art. 6 Direttiva 93/13”[4].
Parimenti infondata è la censura relativa alla ingerenza del giudicante nel potere dispositivo delle parti, il quale potrebbe integrare il rischio di valutazione arbitraria nella determinazione della eccessività della clausola penale. Orbene, il legislatore medesimo attribuisce alla giurisprudenza il ruolo di determinare il contenuto delle clausole generali: nel caso che occupa la presente trattazione, i giudici del merito avrebbero compiutamente esercitato il potere di loro spettanza senza discostarsi dall’orientamento della Suprema Corte in ragione della quale “le finalità di tutela del consumatore quale parte debole del contratto sono idoneamente salvaguardate (oltre che da quella altra e diversa, ma concorrente – ex artt. 1341 e 1342 c.c.) dalla disciplina sulle clausole abusive dettata nel Codice del Consumo […] volta a tutelare il consumatore a fronte dell’unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso”, che si traduce nella impossibilità per la parte contrattuale più debole di esercitare la propria autonomia negoziale in termini di determinazione del contenuto del contratto.
È chiaro il professionista sia che utilizzi formulari o moduli per una serie indefinita di rapporti e sia che sia per uno specifico affare, laddove predisponga unilateralmente il contenuto del contratto, sicuramente può imporre la propria autorità contrattuale sul consumatore.
Alla luce di quanto esposto, infatti, la Corte di legittimità tutela il consumatore prevedendo che “la lesione dell’autonomia provata del consumatore, riguardata sotto il segnalato particolare aspetto della libertà di determinazione del contenuto dell’accordo, fonda allora sia nell’una che nell’altra ipotesi, l’applicazione della disciplina di protezione in argomento”[5].
Tuttavia, non è da escludere che la tutela suindicata possa essere disapplicata laddove sussista e si verifichi il “presupposto oggettivo”, della trattava ai sensi dell’art. 34, comma 4 del Codice del Consumo “la cui sussistenza è pertanto da considerarsi un pluris logico rispetto alla verifica della sussistenza del significativo squilibrio in cui riposa l’abusività della clausola o del contratto”[6].
Sarà poi onere del professionista dimostrare l’espletamento di trattative contrattuali in quanto tali per escludere l’applicazione della ridetta disciplina.
Orbene, ove l’accordo sia frutto di trattative, l’accertamento sull’abusività delle clausole resta precluso anche nel momento in cui gli interessi siano visibilmente squilibrati a scapito del consumatore: in tal caso non è possibile configurare alcun abuso nella formazione del contratto.
La Corte di Cassazione, inoltre, precisa quali sono i requisiti che la trattativa deve possedere al fine di considerarsi tali e permettere la disapplicazione della disciplina di protezione a favore del consumatore: “deve non solo essersi svolta ma altresì risultare caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà, effettività”[7]; e le clausole rispetto alle quali è disapplicabile la suindicata normativa sono quelle “che abbiano costituito singolarmente oggetto di specifica trattativa, seria ed effettiva, mentre la restante parte, non negoziata, del contratto rimane assoggettata alla disciplina di tutela del consumatore”[8].
Ne consegue il rigetto della censura relativa alla violazione dell’art. 2697 c.c., considerato che incombe sul contraente forte – professionista – l’onere di provare che le clausole o gli elementi di clausola dal medesimo predisposti singolarmente siano stati in realtà oggetto di trattative con la controparte contrattuale, e nel caso di specie non si è integrata alcuna inversione dell’onere della prova da parte della Corte territoriale.
[1] Sul punto anche Cass. Civ. n. 3380/15
[2] Cass. Civ. SS.UU. n. 19597/20
[3] Cass. Civ. n. 10679/15.
[4] Corte di Giustizia C-482/13.
[5] Cass. Civ. n. 6802/10.
[6] Cass. Civ. n. 14288/15.
[7] Cass. Civ. n. 24262/08.
[8] Cass. Civ. n. 18785/10
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