La Corte di Cassazione può revocare direttamente la dichiarazione di fallimento e provvedere sull’imputabilità dell’apertura della procedura ai fini dell’addebito delle relative spese
di Chiara Zamboni, Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Ferrara Scarica in PDFCass. ord., Sez. I, 4 novembre 2022, n. 32533 – Pres. Ferro, Rel. Fidanzia
Parole chiave
Fallimento – revoca – spese – effetti – opposizione.
Massima: “La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello che rigetti il reclamo proposto contro la sentenza dichiarativa di fallimento, può revocare direttamente la dichiarazione di fallimento e provvedere ex art. 147 T.U. Spese di Giustizia sull’imputabilità dell’apertura della procedura ai fini dell’addebito delle spese qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”.
Riferimenti normativi
Art. 366 CCII – Art. 389 CCII – Art. 147 T.U. Spese di Giustizia – Art. 6 L.F. – Art. 15 L.F.
CASO
La Corte di Appello di Roma ha rigettato il reclamo ex art. 18 L.F. proposto dalla Alfa scrl in liquidazione avverso la sentenza del Tribunale di Velletri che ne dichiarava lo stato di insolvenza.
Avverso la sentenza della Corte di Appello, la Alfa scrl in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso è stata dedotta la nullità della sentenza per nullità radicale della notificazione ex art. 15 L.F.
Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 6 L. F. in relazione all’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3., la nullità della sentenza di fallimento per difetto di legittimazione del creditore istante ex 6 L. F. in relazione all’art. 360 c.p.c. co. 1 n. 4; l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio ex art. 360 c.p.c., co 1, n. 5.
Infine, con il terzo motivo di ricorso, la violazione dell’art. 1 L. n. 348/1982 per inefficacia della polizza nonché dell’art. 6 L.F.
SOLUZIONE
La Suprema Corte, accogliendo il secondo motivo di ricorso, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, ritenendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
La Corte, nel ritenere fondato il motivo prospettato dal ricorrente ha ribadito un principio di diritto enunciato dalla stessa Corte secondo cui il fideiussore che, escusso dal creditore garantito, non abbia provveduto al pagamento del debito non è legittimato a proporre istanza di fallimento contro il debitore principale per il solo fatto di averlo convenuto in giudizio con l’azione di rilievo ex art. 1953 c.c.
Infatti, tale azione non lo munisce di un titolo astrattamente idoneo ad attribuirgli la qualità di creditore concorsuale in caso di apertura del fallimento. Inoltre, il diritto del fideiussore al regresso (o alla surrogazione nella posizione del creditore principale) non può sorgere, ancorché in via condizionale, anteriormente all’adempimento dell’obbligazione di garanzia.
QUESTIONI
L’ordinanza in esame ha consentito alla Corte di offrire alcune brevi considerazioni in merito: a) alla notifica della dichiarazione di fallimento e della relativa convocazione, b) alla legittimazione del fideiussore a proporre istanza di fallimento contro il debitore principale; e c) alla revoca diretta della dichiarazione di fallimento da parte della stessa Suprema Corte.
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 15 e 18 L.F. nonché degli artt. 138 e 145 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., co 1, n. 3., la nullità della sentenza di fallimento ex artt. 101, 115 e 342 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c. ; infine, la nullità della sentenza per nullità radicale della notificazione ex art. 15 L. F. in relazione all’art. 360 c.p.c., co. 1 n. 4.
La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il motivo osservando in via preliminare che l’art. 15 co. 3 L.F. stabilisce che il ricorso per la dichiarazione di fallimento ed il decreto di convocazione devono essere notificati all’indirizzo PEC del debitore (risultante dal R.I. o dall’indice nazionale degli indirizzi PEC delle imprese e dei professionisti) a cura della cancelleria. Inoltre, è previsto che se la notificazione via PEC non risulti possibile o non abbia esito positivo, indipendentemente dai motivi, la notifica andrà eseguita dall’Ufficiale Giudiziario che dovrà accedere di persona presso la sede legale del debitore risultante dal R.I., oppure, nel caso in cui non sia possibile, la notifica deve essere eseguita con il deposito dell’atto presso la casa comunale della sede iscritta nel R.I. e si perfeziona nel momento del deposito stesso.
Ricordando quanto già sottolineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 146 del 2016, la Corte ha evidenziato che il sistema di notifica tiene conto della specialità e della complessità degli interessi che il legislatore del 2012 ha inteso tutelare con l’introdotta semplificazione del procedimento notificatorio nell’ambito della procedura fallimentare (cfr. L. 221/2012), interessi che marcano la diversità di questo sistema di notifica rispetto al procedimento ordinario ex art. 145 c.p.c.
L’art. 145 c.p.c. è esclusivamente finalizzato ad assicurare alla persona giuridica l’effettivo esercizio del diritto di difesa relativamente agli atti ad essa indirizzati, mentre il riformulato art. 15 L.F. si propone di coniugare la finalità di tutela del diritto di difesa dell’imprenditore con le esigenze di celerità e speditezza cui deve essere improntato il procedimento concorsuale (si veda, in tal senso, la Relazione di accompagnamento del D.L. n. 179 del 2012, art. 17). Quale conseguenza, qualora il mancato rinvenimento dell’imprenditore presso la propria sede debba imputarsi all’imprenditore medesimo, il tribunale non è tenuto all’adempimento di ulteriori formalità né deve osservare le ulteriori cautele previste dall’art. 145 c.p.c. per le notifiche a persona giuridica.
Ciò premesso, la Suprema Corte coglie l’occasione per chiarire che la legittimità della procedura di notifica ex art. 15 L.F. non determina l’illegittimità di altre forme di notificazione che possano rivelarsi addirittura più garantiste nei confronti del debitore, consentendogli di esercitare più agevolmente il diritto di difesa.
Nel caso di specie, in cui la società era estinta e cancellata dal R.I., la notifica dell’istanza di fallimento effettuata personalmente presso il liquidatore della società fallenda ex art. 145 c.p.c., anziché presso la sede della società ormai non operativa e cancellata dal R.I. (o tramite deposito dell’atto presso la casa comunale), ha offerto secondo la Suprema Corte al debitore una più ampia tutela, assicurandogli l’effettivo esercizio del diritto di difesa.
Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 6 L.F. in relazione all’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3., la nullità della sentenza di fallimento per difetto di legittimazione del creditore istante ex 6 L. F. in relazione all’art. 360 c.p.c. co. 1 n. 4; l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio ex art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5.
La ricorrente ha dedotto che la Suprema Corte aveva già enunciato il principio di diritto secondo cui il fideiussore, per essere legittimato a proporre istanza di fallimento, deve aver provveduto al pagamento.
Nel caso di specie, il fideiussore non solo non aveva versato l’importo dovuto in base alla polizza, ma aveva agito in giudizio (risultando parte vittoriosa in primo grado) per far dichiarare l’inefficacia della prestata garanzia.
Da ciò si sarebbe dovuto rilevare il difetto di legittimazione del fideiussore a presentare l’istanza di fallimento.
La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato.
La Corte ha colto l’occasione per ricordare un principio di diritto enunciato in un identico caso (Cass. n. 25317/2020) secondo cui il fideiussore che, escusso dal creditore garantito, non abbia provveduto al pagamento del debito, non è legittimato a proporre istanza di fallimento contro il debitore principale per il solo fatto di averlo convenuto in giudizio con l’azione di rilievo ex art. 1953 c.c.. Ciò poiché tale azione non lo munisce di un titolo astrattamente idoneo ad attribuirgli la qualità di creditore concorsuale in caso di apertura del fallimento. Inoltre, il diritto del fideiussore al regresso (o alla surrogazione nella posizione del creditore principale) non può sorgere, ancorché in via condizionale, anteriormente all’adempimento dell’obbligazione di garanzia.
Secondo la Suprema Corte, non è condivisibile l’affermazione che si può evincere dalla sentenza impugnata secondo cui la legittimazione del fideiussore a presentare l’istanza di fallimento potrebbe sostenersi in relazione all’asserita natura condizionale del credito dallo stesso vantato, che, come tale, sarebbe comunque riconducibile alla nozione di creditore di cui all’art. 6 L.F.
Infatti, sul punto la stessa Corte ha enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di concorso di creditori ex art. 61 co. 2 L.F., il fideiussore non ha un credito di regresso prima del pagamento e, pertanto, non può essere ammesso con riserva per un credito condizionale. Il fideiussore potrà essere ammesso al passivo solo dopo il pagamento, in surrogazione del creditore, considerata la natura concorsuale del credito di regresso (v. Cass. n. 19609/2017).
Pertanto, la condizione legittimante l’istanza di fallimento di cui all’art. 6 L.F. prescinde dal contenuto della pretesa di credito e dal tipo di azione in altra sede giudiziale intrapresa a sua tutela, operando anche quando essa non integri una prestazione monetaria e purché tuttavia l’oggetto del credito sia tale da potersi convertire, all’instaurazione del concorso, in una posizione soggettiva astrattamente ammissibile al passivo (v. Cass. n. 25317/2020).
Così ricostruite le ragioni dell’accoglimento del secondo motivo di ricorso (e dichiarato assorbito il terzo motivo) la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione. La Corte ha rilevato che, nonostante l’accoglimento della censura, non sussistessero i presupposti per provvedere nel merito ai sensi dell’art. 384 co. 2 c.p.c. essendo necessari, nel caso di specie, ulteriori accertamenti di fatto.
La Suprema Corte coglie qui l’occasione per offrire alcune brevi osservazioni sulla revoca della dichiarazione di fallimento.
La Corte evidenzia che in materia di revoca della dichiarazione di fallimento, in virtù dell’art. 389 (avente ad oggetto la disciplina transitoria) del D.Lgs. n. 14 del 2019, è già entrato in vigore l’art. 366 CCII, il quale, nel sostituire l’art. 147 T.U. Spese di Giustizia (di cui riproduce parzialmente il contenuto), ha previsto, altresì, che la Corte di Appello, quando revoca la liquidazione giudiziale, deve accertare se l’apertura della procedura sia imputabile al creditore o al debitore.
Infatti, l’art. 147 T.U. Spese di Giustizia novellato recita: “in caso di revoca della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, le spese della procedura e il compenso del curatore sono a carico del creditore istante quando ha chiesto con colpa la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale; sono a carico del debitore persona fisica, se con il suo comportamento ha dato causa alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale. La Corte di Appello, quando revoca la liquidazione giudiziale, accerta se l’apertura della procedura è imputabile al creditore o al debitore”.
Secondo la Suprema Corte, la verifica circa l’imputabilità delle spese della procedura ed il compenso del curatore può essere svolta anche dalla Corte di Cassazione quando accolga il ricorso avverso la sentenza del giudice del reclamo che abbia erroneamente confermato la sentenza di fallimento, purché non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, secondo la previsione di indispensabile completezza presupposta dall’art. 384 co. 2 c.p.c.
Se, come nel caso di specie, sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte di Cassazione deve necessariamente demandare al giudice di rinvio la declaratoria di revoca del fallimento e l’individuazione del soggetto cui sia imputabile l’apertura della procedura.
Così argomentato, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “La Corte di Cassazione, in sede di accoglimento del ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello che abbia rigettato il reclamo proposto contro la sentenza dichiarativa di fallimento, può direttamente revocare tale dichiarazione e così provvedere a norma dell’art. 147 T.U. Spese di giustizia, come novellato dall’art. 366 CCII (per come già vigente anche per i giudizi introdotti ex art. 18 L. F.), sull’imputabilità dell’apertura della procedura ai fini dell’addebito delle relative spese, sempre che non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, dovendo invece, per tale ipotesi, disporre la cassazione con rinvio al giudice di merito”.
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