3 Maggio 2017

La Corporate Social Responsibility e i nuovi scenari di sviluppo dell’impresa

di Antonio Candotti Scarica in PDF

Premessa
Diventa sempre più attuale nel mondo dell’economia aziendale il tema della cosiddetta “responsabilità sociale d’impresa” (Corporate Social Responsibility: CSR”). Si tratta di un approccio strategico-culturale alla gestione dell’impresa che considera il rispetto della persona e dell’ambiente presupporti fondamentali per la crescita duratura dell’impresa stessa.
La CSR promuove uno sviluppo dell’impresa coerente con una dimensione valoriale ed etica, che recupera il ruolo centrale della persona e dell’ambiente. Sotto questo punto di vista un’impresa si dice eccellente quando è in grado di contemperare il suo fine economico (che non viene perciò distorto) con le esigenze di tutela della società, cioè quando attraverso il suo operare realizza un mix positivo tra risultati economico-finanziari e partecipativo-sociali, restituendo alla comunità parte dei benefici che l’impresa stessa ottiene dall’essere membro della comunità. Alcun studiosi della materia parlano di un “nuovo equilibrio tra massimizzazione del profitto e giusto profitto”.
Agli antipodi di questa visione c’è l’approccio di gestione dell’impresa speculativo e di breve temine, che così tanti danni ha prodotto soprattutto in questi ultimi decenni. Agli inizi degli anni ’70, Milton Friedman, Nobel per l’economia, affermava: “…c’è una e solo una responsabilità sociale dell’impresa, usare le risorse e dedicarsi ad attività concepite per aumentare i propri profitti e, purché all’interno delle regole, l’impresa deve sempre competere liberamente, senza ricorrere all’inganno o alla frode…”. In sostanza, il reddito veniva considerato quale unico indicatore dell’efficienza dell’impresa e, pertanto, la catena del valore economico finiva per coincidere con quella del valore sociale. Il messaggio chiaro era quello di massimizzare il profitto dell’impresa, seppur a certe condizioni, come se ciò coincidesse di fatto col bene della collettività.
Etica, Economia e Finanza: una nuova dimensione del fare impresa, o pura azione di marketing?
“Se sei buono, ti compro”: è il titolo di un documento presentato recentemente da una multinazionale della consulenza aziendale dedicato al tema della CSR. Il documento fa riferimento ad alcune ricerche – realizzate a livello nazionale ed internazionale coinvolgendo Amministratori Delegati e membri dei Consigli di Amministrazione di imprese di diversi settori –, volte ad indagare quanto la gestione sostenibile (1) dell’impresa, orientata verso criteri di CSR incide sul livello di competitività della impresa stessa.
Da tali indagini emerge in sintesi che, sempre di più, l’attenzione alla CSR e alla sostenibilità dell’impresa permette di conseguire questi obiettivi:
– Aumentare la reputazione.
– Creare vantaggi competitivi.
– Favorire l’innovazione del settore di appartenenza, creando nuove opportunità.
– Favorire l’affermazione dell’impresa sul mercato e l’aumento dei ricavi.
Gli intervistati hanno poi messo in evidenza che, ridurre l’impatto ambientale e aumentare l’efficienza energetica dei processi produttivi, salvaguardare i diritti e l’integrità della persona lungo tutta la filiera produttiva, misurare, rendicontare e gestire gli impatti socio-ambientali generati dall’attività d’impresa, contribuiranno sempre più al successo di lungo periodo delle imprese stesse.
Un altro aspetto sottolineato è l’interesse crescente verso tali tematiche da parte delle amministrazioni pubbliche, di cui si dirà nel seguito, che tenderanno sempre più ad adottare politiche volte a premiare e favorire le imprese “sostenibili”.
Tornando alle indagini sopra citate, è – o dovrebbe essere – in atto un vero e proprio cambiamento
dello scenario competitivo tradizionale: il modello classico “input-output” dell’impresa, basato sulla combinazione dei fattori produttivi (impianti e macchinari, capitale e lavoro), finalizzati alla
massimizzazione del profitto, non risulta più adeguato a rappresentare l’impresa inserita nello scenario competitivo internazionale e sottoposta a nuove e molteplici sollecitazioni.
(1) Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che risponda alle necessità del presente, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze (ONU, 1987 World Commission on Environment and Development – Rapporto «Brundtland) ed è quindi intrinsecamente connesso alla relazione tra impresa, la persona e ambiente.
Fenomeni quali la crescita della popolazione, la riduzione delle risorse naturali, il riscaldamento globale del pianeta, unitamente alla globalizzazione, alla digitalizzazione delle informazioni e all’accelerazione delle comunicazioni, sono alla base di una crescente sensibilità da parte dei soggetti che interagiscono con le imprese (i cosiddetti stakeholders, o portatori d’interesse), e costituiscono quindi nuove sollecitazioni a cui le stesse sono chiamate a rispondere e quindi – potenzialmente -nuovi rischi da gestire e trasformare in opportunità.
In questo nuovo paradigma d’impresa il “rischio reputazionale”, inteso come risultante ultima dei comportamenti dell’impresa rispetto alle suddette sollecitazioni, diventa uno dei più significativi che l’impresa deve gestire, capace di condizionare tutti gli ambiti della gestione e di incidere in modo determinante sul suo successo e sulla sua capacità di durare nel tempo. Tutelare la propria reputazione significa guadagnare la fiducia da parte dei propri stakeholders, essere ritenuto interlocutore credibile ed affidabile, cioè, in estrema sintesi “responsabile”.
Lo scenario sia internazionale, sia nazionale è tuttavia costellato da esempi di una realtà economico-finanziaria, caratterizzata da fenomeni – disastri ambientali, incidenti sul lavoro, sfruttamento dei lavoratori, corruzione… – che sembrano smentire una visione di “impresa etica”: siamo veramente di fronte ad una nuova dimensione del fare impresa, o è pura azione di marketing?
Vero è che rispetto tali situazioni si assiste a reazioni sempre più forti e decise da parte degli stakeholder, in particolare dei consumatori e delle loro associazioni, delle ONG, delle associazioni di tutela dei diritti dell’uomo e dell’ambiente, delle Istituzioni Pubbliche e dei Governi. Le imprese coinvolte sono sottoposte a pesanti attacchi che si traducono in un significativo danno reputazionale e, conseguentemente, in un calo dei loro fatturati e in significativi contenziosi legali da gestire e devono quindi reagire adottando misure di controllo degli aspetti socio-ambientali nei processi produttivi, non solo interni, ma relativi all’intera filiera.
Queste nuove pressioni riguardano in primis le grandi multinazionali che si trovano ai vertici delle filiere produttive, ma anche la imprese medie e piccole (pensiamo alla nostre Piccole e Medie Imprese – PMI –, inserite nelle filiere produttive internazionali) che operano quali fornitori intermedi. Le multinazionali infatti ribaltano sui loro fornitori e sub fornitori le richieste dei propri portatori d’interesse, definendo requisiti e quindi standard di processo sempre più stringenti per la gestione degli aspetti socio-ambientali e attivando controlli sempre più pressanti e rigorosi. Sempre più spesso, tali aspetti risultano determinanti nella selezione dei propri fornitori.
Per le imprese, le dinamiche sopra descritte in questo momento possono rappresentare opportunità di creazione di valore e di sviluppo: l’attivazione di processi di gestione orientati al rispetto della persona e dell’ambiente, rendono infatti le imprese preferibili, da parte dei consumatori e più in generale degli stakeholders.
Creazione di valore e crescita si realizzano in modo molto concreto. Ad esempio:
– una gestione attenta e responsabile delle risorse umane riduce il rischio di contenzioni, come pure di infortuni e diminuisce la mobilità; favorisce l’aumento della motivazione e del senso di appartenenza e attrae i migliori talenti;
– l’attenzione all’ambiente riduce il rischio di contenzioso per il mancato rispetto delle norme di riferimento; favorisce processi di maggior eco-efficienza; consente la differenziazione di prodotti e l’acquisizione di nuovi clienti/mercati;
– più in generale, la gestione “responsabile” dell’impresa riduce il rischio di contenzioso con le Pubbliche Amministrazioni; favorisce l’accesso a risorse finanziarie e contributi pubblici; può favorire l’aggiudicazione di bandi ed i processi autorizzativi.
Un aspetto sottolineato da alcuni giuristi è tra l’altro la stretta connessione tra il processo di “gestione responsabile dell’impresa” e alcuni degli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire con il D.Lgs 231/01, sulla responsabilità amministrativa degli enti (tutela della trasparenza, della legalità, della salute e sicurezza sul lavoro, dell’ambiente). Ed è interessante notare che il Codice Etico, documento attraverso il quale l’impresa esprime e codifica i valori ed i principi che sono alla base del suo agire economico, costituisce l’elemento “cerniera”, di collegamento tra il suddetto Decreto e la CSR. In generale l’obiettivo perseguito è di favorire l’evoluzione dei sistemi di “governance” dell’impresa.
A livello europeo il dibattito di questi ultimi anni ha portato all’elaborazione di Direttive Comunitarie che esprimono una chiara presa di posizione da parte dell’Europa rispetto a tali tematiche: si pensi ad esempio
alla Direttiva che ha disciplinato il tema della salute e sicurezza sul lavoro o a quelle sulla lotta alla corruzione e sulla legalità, temi all’ordine del giorno dell’agenda del nostro Governo.
A conferma del ruolo sempre più centrale che le Istituzioni Pubbliche attribuiscono alle imprese con riferimento alla tutela di aspetti di rilevanza pubblicistica, quali la tutela delle persone e dell’ambiente, vi è il D.Lgs 254, del 30 dicembre 2016, emanato in attuazione della Direttiva UE 2014/95, dedicato all’informativa di carattere non finanziario delle imprese. Tale Decreto, prevede, con riferimento agli esercizi finanziari aventi inizio dal 1° gennaio 2017, l’obbligo per talune tipologie di imprese (“enti di interesse pubblico” e “gruppo di grandi dimensioni”- il legislatore ha scelto un’applicazione graduale, a partire dalle imprese di grandi dimensioni) l’obbligo di pubblicazione di una “Dichiarazione” contenente le informazioni di carattere non finanziario (“…temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva,…”). La “Dichiarazione” a cui fa riferimento il Decreto è in sostanza il Bilancio Sociale o Bilancio di Sostenibilità, anche se la norma non impone alcuno standard ne’ un modello di riferimento, lasciando libere le società di decidere come pubblicare le informazioni richieste (sarà possibile farlo – ad esempio – anche integrando il contenuto della Relazione sulla Gestione). Va sottolineato che le informazioni di carattere non finanziario richieste hanno come ambito di riferimento l’intera filiera produttiva e quindi le grandi imprese trasferiranno gradualmente ai propri partner a monte e a valle della filiera tali richieste estendendo di fatto anche a soggetti oggi non obbligati l’onere dell’elaborazione dell’informativa non finanziaria.
Alcuni studiosi di queste tematiche hanno elaborato la proposta di una nuova forma di sviluppo capitalistico: il 27 maggio 2014 si è tenuta a Londra la prima Conferenza sul “capitalismo inclusivo”, dedicata al tema del rinnovamento del sistema capitalista, con la partecipazione di alte autorità politiche ed economiche internazionali, tra cui” il Principe del Galles, l’ex presidente degli Stati uniti Bill Clinton, il direttore del FMI Christine Lagarde e il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney. Si tratta in estrema sintesi, di un modo diverso di parlare di responsabilità e visione di lungo periodo nella gestione dell’impresa, che dovrebbe portare a proiettare il sistema capitalistico verso un’idea di “giusto profitto”, favorendo una migliore distribuzione della ricchezza e conseguentemente una progressiva riduzione delle disuguaglianze.
I prossimi decenni ci diranno se dietro queste crescenti sensibilità e manifestazioni di buone intenzioni siamo di fronte ad una vera svolta, ad un cambiamento radicale, o semplicemente ad un’operazione di maquillage, una strategia per fare apparire il capitalismo e le imprese migliori di quello che realmente sono.
Christine Lagarde (dal 2011 Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale) intervenuta alla Conferenza sul capitalismo inclusivo faceva notare che “a sei anni dall’inizio della profonda crisi che ha travolto l’economia globale, le banche continuano ancora ad opporsi a qualsiasi riforma e ad essere ancora troppo interessate all’assunzione di rischi eccessivi pur di garantirsi bonus a scapito della fiducia del pubblico…” riferendosi poi alla ricerca di Oxfam -una confederazione internazionale di organizzazioni non governative intesa a trovare soluzioni strutturali alla povertà e all’ingiustizia-, ha sottolineato che “le 85 persone più ricche del mondo, che a mala pena riempirebbero un singolo bus a due piani, controllano l’equivalente della ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, 3,5 miliardi di persone” e che “tra le opzioni per affrontare le disuguaglianze ci sono sistemi fiscali più progressivi e maggiore utilizzo delle tasse sulla proprietà”.
A ben vedere quindi la situazione sembra ben lungi dall’esprimere il tanto atteso cambiamento di rotta e ciò è stato richiamato anche da Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, quando, facendo riferimento all’economia liberista ha affermato che “in questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiduciagrossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza”.
Il ruolo del professionista
Il premio Nobel per l’economia John Nash, con riferimento ai gravi scandali finanziari disse: “Non sono i modelli creati dai matematici per costruire strumenti finanziari sempre più complessi ad aver trascinato il
mondo nel baratro, la responsabilità è di chi li ha usati in modo avido e irrazionale.” Non si tratta quindi di negare o contrastare l’evoluzione dello scenario così come lo si conosce, ma di farsi parte attiva di una rivoluzione virtuosa e a ciò può contribuire una presa di posizione sincera e convinta da parte di chi questa rivoluzione può accelerarla acquisendo un ruolo centrale: i professionisti.
I professionisti, attraverso il loro rapporto con i clienti e con i colleghi, possono essere tra i primi artefici della promozione e della diffusione della cultura della responsabilità sociale, che si fonda innanzi tutto su un atteggiamento mentale, sull’adesione a un modello culturale orientato verso criteri in cui la gestione dell’impresa si fonde con i concetti di tutela delle persone e dell’ambiente, assegnando alla professione un ruolo sempre più innovativo, inclusivo e qualificante. In una frase sola: “Practice what you preach”.
In virtù del rapporto fiduciario che s’instaura con l’imprenditore, il professionista, soprattutto con riferimento alle PMI, può infatti essere promotore di innovazione e sviluppo, portando nuove idee, nuove visioni ed esperienze all’interno delle imprese. Per fare ciò è essenziale che condivida e faccia propri i cambiamenti culturali in atto, per poter essere credibile agli occhi dell’imprenditore: correttezza, trasparenza e responsabilità devono caratterizzare in primis il suo approccio alla professione, e a ciò si deve aggiungere un adeguato livello di formazione sulle tematiche di CSR. In caso contrario, di fronte alle sollecitazioni del contesto esterno e/o dell’imprenditore su tali tematiche, il professionista è portato ad assumere un atteggiamento difensivo/conservativo, a svilire il significato e la portata innovativa di ciò che non conosce e non pratica, frenando la spinta al cambiamento e facendo perdere all’impresa opportunità significative.
In uno scenario in continua evoluzione come quello attuale, la formazione e l’aggiornamento costante sono prerequisiti fondamentali. Altrettanto importante è lo scambio professionale a livello internazionale, in quanto alcuni Paesi e la stessa Commissione Europea hanno assunto un ruolo di leadership nel campo della CSR.
Apprendere cosa sta accadendo in contesti differenti rafforza la percezione del valore e del significato del proprio percorso culturale e professionale, rende il professionista maggiormente consapevole del ruolo che può e deve avere nei confronti dell’impresa e conseguentemente ne rafforza la credibilità.
È evidente che ciò di cui si sta parlando non è né semplice, né immediato: la teoria dello sviluppo sostenibile e la CSR implicano un cambiamento radicale della mentalità, investono ogni aspetto della gestione e possono modificare radicalmente le strategie competitive ed il modo stesso di fare impresa. Si tratta di cogliere le opportunità che i cambiamenti in atto ci presentano.