La condotta imprudente del beneficiario della garanzia può liberare il fideiussore dalla propria obbligazione
di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. III, 12 dicembre 2019, n. 32478 – Pres. Vivaldi – Rel. Sestini
Parole chiave: Contratto di appalto – Polizza fideiussoria a garanzia dell’inadempimento dell’appaltatore – Pagamento del saldo del corrispettivo nonostante la presenza di vizi e difetti – Condotta lesiva degli interessi del fideiussore – Sussistenza – Domanda di pagamento proposta dal committente garantito – Rigetto – Legittimità
[1] Massima: Gli obblighi di correttezza e di buona fede che permeano la vita del contratto impongono alla parte garantita di salvaguardare la posizione del proprio fideiussore, con la conseguenza che la loro violazione non consente l’esercizio di pretese nei confronti del garante, nella misura in cui la sua posizione sia stata aggravata dal garantito.
Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1175, 1227, 1375, 1455, 1956.
CASO
Una società convenne in giudizio una compagnia assicuratrice per ottenere il pagamento della somma dovuta in forza di polizza fideiussoria stipulata in relazione a un contratto di appalto avente per oggetto la ristrutturazione e l’ampliamento di un immobile di proprietà dell’attrice, giacché non tutti i vizi e difetti rilevati in sede di consegna dell’opera erano stati eliminati.
La compagnia assicuratrice contestò la domanda, rilevando che il pagamento all’appaltatore del considerevole importo liquidato a titolo di saldo finale nonostante la presenza dei vizi e in assenza del collaudo finale integrava un fatto colposo comportante la diminuzione del risarcimento ai sensi dell’art. 1227 c.c., nonché un grave inadempimento dei doveri di correttezza e buona fede sanciti dall’art. 1375 c.c., che imponevano di preservare gli interessi del fideiussore.
Sia in primo che in secondo grado la domanda venne accolta, dal momento che il pagamento del saldo del corrispettivo dell’appalto era avvenuto quando l’inadempimento dell’appaltatore, che si era impegnato a eliminare i vizi e difetti riscontrati in sede di consegna, non era ancora divenuto definitivo e non poteva, quindi, essere considerato contrario a buona fede; inoltre, la condotta della società attrice non poteva comportare la liberazione del fideiussore ai sensi dell’art. 1956 c.c., in quanto se l’atto di fare credito poteva essere individuato nel pagamento del saldo del corrispettivo dell’appaltatore nonostante la sua inadempienza, difettava comunque la consapevolezza, da parte della società committente, dell’aggravamento delle condizioni economiche, atteso che in quel momento l’inadempimento non era ancora definitivo.
La società assicuratrice proponeva quindi ricorso per cassazione, lamentando l’erronea valutazione e interpretazione delle clausole del contratto di appalto dalle quali si evinceva che l’obbligo di pagamento presupponeva che i lavori fossero stati ultimati e fossero privi di manchevolezze, la violazione del principio del neminem laedere di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché dell’art. 1227 c.c., laddove non era stato ravvisato un comportamento imprudente della società attrice che aveva pagato all’appaltatore il saldo del corrispettivo sebbene fosse pienamente consapevole dell’esistenza di vizi, la violazione degli artt. 1375 e 1455 c.c., dal momento che l’esecuzione arbitraria di un pagamento non dovuto costituiva un inadempimento oggettivamente grave e importante nell’economia complessiva della polizza.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, che è stato dunque accolto, dal momento che i giudici di merito avevano colpevolmente omesso di considerare se la scelta del committente di pagare nonostante l’inadempimento (sia pure non definitivo) dell’appaltatore avesse comportato una violazione degli obblighi generali di correttezza e buona fede, aggravando la posizione del garante, anziché salvaguardarne l’interesse.
QUESTIONI
[1] Nel caso di specie ci si trovava in presenza di una cosiddetta polizza fideiussoria, la quale viene utilizzata frequentemente nel settore degli appalti e, rappresentando una figura contrattuale intermedia tra il versamento cauzionale e la fideiussione, resta sostanzialmente assoggettata alla disciplina propria di quest’ultima (Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2005, n. 28233; Cass. civ., sez. III, 27 maggio 2005, n. 11261; Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2002).
La polizza fideiussoria prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore costituisce una garanzia atipica, in quanto non assicura l’adempimento della prestazione – connotata dal carattere dell’insostituibilità – dovuta dall’appaltatore (cioè la corretta e integrale esecuzione dell’opera o del servizio commissionati), ma la soddisfazione dell’interesse economico del beneficiario compromesso dall’inadempimento dell’appaltatore: con essa, infatti, la banca o la compagnia di assicurazioni si impegna a pagare al committente-beneficiario un determinato indennizzo o risarcimento monetario in luogo della prestazione appaltata rimasta inadempiuta.
La sentenza che si annota ha condiviso la tesi della società assicuratrice secondo cui il pagamento del saldo del corrispettivo dell’appalto nonostante la presenza di vizi dell’opera e la successiva attivazione della garanzia fideiussoria aveva, di fatto, prodotto l’effetto di scaricare sul fideiussore il rischio della mancata eliminazione dei difetti, mentre una condotta più prudente avrebbe dovuto indurre il committente a differire il pagamento fino alla completa ed esatta ultimazione dei lavori, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento; un tanto, secondo i giudici di legittimità, avrebbe stimolato l’appaltatore ad adempiere correttamente la propria obbligazione e, nel contempo, consentito al fideiussore di non essere escusso per la quota corrispondente all’ammontare del saldo.
In effetti, va ricordato che, a termini dell’art. 1665 c.c., il diritto dell’appaltatore di ottenere il pagamento del corrispettivo sorge nel momento in cui l’opera viene consegnata e accettata dal committente.
In ragione di ciò, i giudici di legittimità hanno osservato che l’operatività delle clausole generali di correttezza e buona fede impongono di negare tutela alla parte che tali clausole abbia violato e pretenda di riversare sulla controparte un pregiudizio che avrebbe potuto facilmente evitare.
Infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna parte di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal principio generale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, il quale è pertanto tenuto al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari per la salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (oltre alla citata Cass. civ., sez. III, 4 maggio 2009, n. 10182, si veda anche Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106). Il principio di correttezza e buona fede – che, secondo la relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” – deve essere inteso in senso oggettivo, in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2010, n. 22819).
Tali principi, proprio in considerazione della loro portata di carattere generale, hanno trovato applicazione in svariati settori del diritto (per esempio, in campo giuslavoristico, si veda Cass. civ., sez. lav., 3 dicembre 2019, n. 31521; in campo processuale, con riguardo al divieto di frazionamento del credito, si veda Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2019, n. 31308; con riferimento ai doveri degli organi societari, si veda Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2019, n. 18700; nel settore dei contratti bancari, si veda Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2012, n. 12454) e sono stati ribaditi pure dalla sentenza che si annota, che li ha declinati con riferimento ai rapporti tra fideiussore e garantito, affermando che il secondo è tenuto a salvaguardare la posizione del primo, non potendo azionare pretese nei suoi confronti laddove, con la propria condotta, ne abbia aggravato la posizione.
Nel caso di specie, secondo la Corte di cassazione, i giudici di merito avevano erroneamente escluso la ricorrenza di violazioni degli obblighi generali di correttezza e buona fede da parte della società committente sul mero assunto che la scelta di pagare il saldo del corrispettivo dell’appalto fosse rimessa alla sua determinazione e che tale scelta non fosse censurabile – sotto il profilo della colpa – per il fatto che l’inadempimento dell’appaltatore non era ancora divenuto definitivo, mentre “una corretta valutazione, compiuta considerando anche l’interesse del fideiussore, avrebbe dovuto prescindere da valutazioni di natura soggettiva e considerare – sul piano oggettivo – se la condotta del garantito fosse stata idonea a salvaguardare l’interesse del garante o se l’avesse invece aggravata”.
Una decisione, quella della Suprema Corte, che si pone in ideale continuità con l’orientamento secondo cui l’esercizio di un diritto può risultare abusivo nel momento in cui sacrifichi indebitamente le aspettative e gli interessi della controparte o sia diretto a ottenere risultati diversi da quelli che la norma sottende (il riferimento è alle numerose pronunce che, a partire dalla già citata Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, hanno dichiarato illegittimo il recesso ad nutum esercitato pur in presenza di una clausola contrattuale che lo prevedeva, laddove – anche in considerazione della disparità di forza economica esistente tra le parti – siano state impiegate modalità arbitrarie o tali da provocare uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, al fine di conseguire effetti ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere o la facoltà era stato attribuito).