La compensatio lucri cum damno: una recente pronuncia
di Martina Mazzei, Avvocato Scarica in PDFCass. civ. [ord.] Sez. III, 30 agosto 2019, n. 21837 – Pres. Travaglino – Rel. Scarano
[1] Compensazione – Indennizzo – Risarcimento dal danno – Decurtazione – Emotrasfusioni
(Cod. civ. art. 2697 c.c.)
[1] “Avuto riguardo all’indennizzo ex L. n. 210 del 1992 […] esso può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno) solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova e’ onerata la parte che eccepisce il lucrum, in quanto l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un minimo ed un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l’esatto ammontare, ne’ il carattere predeterminato delle tabelle consente di individuare, in mancanza di dati specifici a cui e’ onerato chi eccepisce il lucrum, il preciso importo da portare in decurtazione del risarcimento.”
CASO
[1] Il caso origina dalla sentenza del 20 luglio 2016 con cui la Corte d’Appello di Catania, in parziale accoglimento del gravame interposto dal Ministero della salute e in conseguente parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Catania, aveva ridotto l’ammontare liquidato dal giudice di prime cure a carico del Ministero in favore di Tizio; rigettando, viceversa, la domanda proposta dai suoi congiunti per il ristoro dei danni subiti in conseguenza del decesso causato dalla contrazione dell’epatite C all’esito di una serie di emotrasfusioni a cui si era sottoposto in quanto affetto da talassemia.
Avverso la suindicata pronuncia della Corte di merito i congiunti hanno proposto ricorso per cassazione, affidandosi a quattro motivi.
SOLUZIONE
[1] Per quanto di interesse con il terzo motivo i ricorrenti denunziano «violazione e falsa applicazione» dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dolendosi del fatto che la Corte di merito avesse «provveduto a decurtare dall’importo risarcitorio la somma complessiva di Euro 20.093,36, tratta dal decreto di concessione dell’indennizzo del de cuius», affermando che «non e’ sufficiente l’eccezione di parte convenuta in merito alla spettanza a favore del danneggiato di una somma a titolo di indennizzo, poiché non fornisce elementi per individuare l’esatto ammontare del credito opposto in compensazione, ossia non assolve all’onere probatorio sulla stessa gravante ex art. 2697 c.c. di indicare l’esatto ammontare dell’indennizzo percepito».
La Suprema Corte con la sentenza in epigrafe, dopo un’analisi della compensatio lucri cum damno in ipotesi analoghe a quelle del caso in esame, ha ritenuto fondati i motivi ed ha, pertanto, accolto il ricorso.
QUESTIONI
[1] La decisione della Terza sezione civile consente di fare delle considerazioni sulla compensatio lucri cum damno. Si tratta di un principio di diritto che non trova un espressa previsione normativa ma che ripone il suo fondamento nella funzione compensativa del rimedio risarcitorio (art. 1223 c.c.) e nel divieto generale di arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.). Tale principio implica, infatti, che il risarcimento debba tenere conto, oltre che dei danni, anche degli effetti vantaggiosi derivanti dall’inadempimento dovendosi operare una compensazione tra perdite e benefici.
L’istituto della compensatio lucri cum damno muove dal presupposto che il risarcimento non può rappresentare ragione di lucro per il danneggiato né può permettergli di conseguire più di quanto l’adempimento gli avrebbe procurato.
Il risarcimento, infatti, non può costituire fonte di una locupletazione per il danneggiato. Il suo patrimonio, quindi, deve risultare ripristinato dall’intervento risarcitorio nella stessa quantità che aveva prima del fatto lesivo, occorrendo decurtare dalla quantificazione complessiva del danno gli effetti di tutte le conseguenze positive derivate dalla condotta illecita.
La giurisprudenza ha più volte affermato che ai fini dell’operatività della compensatio lucri cum damno è richiesta l’unità causale dell’evento dannoso ossia che le ripercussioni patrimoniali favorevoli derivino casualmente dallo stesso fatto dannoso che ha prodotto quelle negative.
In altri termini, il principio della compensatio trova applicazione «solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno, non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso.» (Cass. civ. sez. III, 20 maggio 2013, 12248. In senso conforme v. Cass. civ. sez. I 18 giugno 2018, n. 16088 e Cass. civ. sez. III, 2 marzo 2010, n. 4950).
Recentemente le Sezioni Unite sono intervenute (Cass. SS.UU. civ. 22 maggio 2018, n. 12564, 12565, 12566, 12567 per cui v. in dottrina DI MAJO, Compensatio lucri cum damno – Luci ed ombre nella compensatio lucri cum damno, in Giur. It., 2018, 10, 2093; GALLO, Compensatio lucri cum damno. La compensatio lucri cum damno e i suoi confini, in Giur. It., 2018, 6, 1343; MANGANARO, Compensatio lucri cum damno. Nuovi orientamenti in materia di responsabilità civile nel dialogo tra le Corti, in Giur. It., 2018, 6, 1488; MINOPOLI, Compensatio lucri cum damno: i nuovi principi fissati dalle Sezioni Unite, in Ius in Itinere, 4 luglio 2018) dirimendo una serie di contrasti, sorti in dottrina e giurisprudenza, in merito ai presupposti della compensatio e hanno precisato che la stessa può operare soltanto in presenza di due condizioni cumulative: «la medesimezza delle cause giustificative delle attribuzioni patrimoniali spettanti al danneggiato e l’esistenza di un meccanismo legislativo di riequilibrio.»
In particolare, la previsione di un meccanismo di surroga o di rivalsa è volto ad evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito così individuandosi un punto di equilibrio fra l’esigenza di evitare un’indebita locupletazione del danneggiato (mediante il cumulo del risarcimento e delle provvidenze indennitario) e quella di impedire che la compensatio finisca per «premiare» ingiustificatamente l’autore dell’illecito.
Alla luce della pregressa giurisprudenza di legittimità e delle più recenti pronunce delle Sezioni Unite, la Terza Sezione civile è stata chiamata a verificare la correttezza della pronuncia della Corte d’appello di Catania nella quale il giudice di seconde cure aveva applicato l’istituto della compensatio lucri cum damno fra indennizzo ex L. n. 210 del 1992 ossia «indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati» e risarcimento del danno derivante dalla perdita di un congiunto.
La Suprema Corte ha affermato, in primo luogo, che l’indennizzo ex L. n. 210 del 1992, secondo giurisprudenza consolidata, può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, operando, quindi, il principio della compensatio lucri cum damno, solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, se sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum.
In secondo luogo, la Corte ha specificato che l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un minimo ed un massimo, a seconda della patologia riconosciuta, non equivale a corresponsione e, quindi, non fornisce elementi sufficienti per individuarne il suo esatto ammontare, ne’, d’altra parte, il carattere predeterminato delle Tabelle di Milano consente di individuare il preciso importo da portare in decurtazione del risarcimento in mancanza di dati specifici a cui e’ onerato chi eccepisce il lucrum (v. Cass. civ., 14 giugno 2013, n. 14932; e, conformemente, Cass. civ., 10 maggio 2016, n. 9434 e, da ultimo, Cass. civ., 22 agosto 2018, n. 20909).
Sulla base di tali premesse la Terza Sezione ha rilevato che, nel caso di specie, con riferimento all’indennizzo ricevuto dal dante causa ai sensi della L. n. 210 del 1992, il giudice d’appello, nell’affermare che «alla luce della documentazione versata in atti e delle stesse allegazioni contenute nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado appare senza dubbio provato che Tizio abbia ricevuto la somma complessiva di vecchie Lire 38.906.175, oggi pari ad Euro 20.093,36 anche se il relativo mandato di pagamento e’ stato prodotto senza quietanza» ha disatteso i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità sul punto. Infatti, da un lato, non risulta chiaro quale tipo di danno la Corte di merito abbia considerato e valutato, se il danno morale terminale o c.d. tanatologico spettante ai parenti del defunto iure hereditatis ovvero il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale iure proprio e, dall’alto, non si evince l’esatto ammontare opposto in compensazione a titolo di indennizzo ex L. n. 210 del 1992 dal Ministero, giacche’ la «riconosciuta spettanza a favore del danneggiato di una somma a tale titolo non fornisce elementi idonei per individuare l’esatto ammontare del credito opposto in compensazione». Ai fini dell’operare della compensatio lucri cum damno, infatti, tali circostanze non possono di per sè far ritenere assolto l’onere probatorio, gravante sul Ministero, di indicare l’esatto ammontare dell’indennizzo percepito dal de cuius.
Sulla scorta di tali argomentazioni la Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha accolto il ricorso ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello di Catania in diversa composizione.