15 Ottobre 2024

La collaborazione volontaria come strumento di emersione delle donazioni occulte di attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero

di Corrado De Rosa, Notaio Scarica in PDF

Cassazione civile sez. tributaria, sentenza 09 luglio 2024, n. 18724 (SORRENTINO– Presidente – SOCCI – Relatore)

(Articolo 56 bis, comma 1, lett. a), d.lg. n. 346 del 1990)

“In tema di imposta di successione, la dichiarazione prevista dall’art. 56 bis, comma 1, lett. a), d.lg. n. 346 del 1990, al fine dell’accertamento e della sottoposizione all’imposta delle liberalità diverse dalle donazioni, può provenire, oltre che dal donatario, anche dal donante e può essere rappresentata anche dall’istanza volta ad avvalersi della procedura di collaborazione volontaria ed il rientro dei capitali detenuti all’estero, quando la donazione abbia avuto ad oggetto le attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato, spontaneamente emerse per volontà dell’autore della violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’art. 4, comma 1, d.l. n. 167 del 1990, conv., con modifiche, dalla l. n. 227 del 1990.”

CASO

La sentenza in rassegna riguarda una controversia sorta in tema di imposta di donazione, la Cassazione si è pronunciata sulla decorrenza del termine di decadenza dal potere di accertamento delle liberalità indirette, attivato ai sensi dell’art. 56-bis del D.P.R. 346/1990. Infatti, la controversia riguarda l’avviso di accertamento per un importo di euro 11.931.078,00 euro relativo ad una imposta di successione e donazione per liberalità indiretta emergente dalla procedura di collaborazione volontaria (voluntary disclosure) prevista dalla Legge del 15 dicembre 2014, n. 186.

La sentenza di primo grado aveva accolto il ricorso del contribuente contro l’avviso di accertamento in questione, mentre la Commissione tributaria regionale della Liguria aveva accolto l’appello presentato dall’Agenzia delle Entrate e aveva rigettato l’appello incidentale del contribuente, limitatamente alle spese del giudizio di primo grado.

Il contribuente ha dunque impugnato tale decisione presentando un ricorso per Cassazione, articolato in sei motivi, integrati da successiva memoria. I motivi di ricorso riguardano ciò:

  1. Violazione degli articoli 1, 55 e 56-bis del Testo Unico del 31 ottobre 1990, n. 346, e dell’articolo 809 del Codice Civile, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 del Codice di procedura civile.
  2. Violazione dell’articolo 56-bis del Testo Unico e dell’articolo 809 del Codice Civile, sempre in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 del Codice di procedura civile.
  3. Ulteriore violazione dell’articolo 56-bis del Testo Unico, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 del Codice di procedura civile.
  4. Violazione del secondo comma dell’articolo 56-bis, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 del Codice di procedura civile.
  5. Violazione degli articoli 60 del D.Lgs. n. 346 del 1990 e 70 del D.P.R. n. 131 del 1986, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 del Codice di procedura civile.
  6. Violazione degli articoli 60 del D.Lgs. n. 346 del 1990 e 70 del D.P.R. n. 131 del 1986, in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 del Codice di procedura civile.

L’Agenzia delle Entrate ha resistito al ricorso con controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso dal momento che nel contesto della procedura di collaborazione volontaria (volta, tra l’altro, all’accertamento di tributi) il contribuente aveva dichiarato liberalità indirette provenienti da un parente e, secondo l’Agenzia, il termine di decadenza previsto dall’articolo 76 del D.P.R. 131 del 1986 non era ancora scaduto, poiché il dies a quo doveva essere individuato nel momento in cui il contribuente aveva reso la dichiarazione nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria.

La Procura Generale della Cassazione ha presentato una memoria scritta con richiesta di rigetto del ricorso, richiesta che è stata ribadita anche in udienza.  La Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

SOLUZIONE

La Suprema Corte ritiene di procedere ad un esame congiunto dei motivi del ricorso poiché sono tutti collegati alla stessa questione giuridica: la sussistenza di una liberalità indiretta, diffondendosi nell’analisi del differente funzionamento degli istituti della voluntary disclosure e sul funzionamento dell’art 56-bis del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 relativo all’accertamento delle liberalità indirette.

In via preliminare rileva che la procedura di collaborazione volontaria prevista dalla L. 15 dicembre 2014, n. 186, pur essendo particolare, è finalizzata all’accertamento dei tributi. Infatti, come affermato dalla giurisprudenza, la “voluntary disclosure” (introdotta con l’art. 1 della L. n. 186 del 2014 e regolata dagli artt. 5-quater e septies del D.L. n. 167 del 1990) costituisce un istituto autonomo rispetto all’accertamento con adesione. Tale procedura non presuppone una contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, non ha uno scopo deflattivo e si concretizza nella dichiarazione volontaria da parte del contribuente della propria situazione debitoria, con l’eventuale instaurazione di un contraddittorio. La cassazione afferma che si tratta effettivamente di un «procedimento diretto all’accertamento dei tributi» quantunque si perfezionasse nelle forme dell’accertamento con adesione (ribadendo dunque quanto affermato nelle sue decisioni n. 1002/2023, 2964/2023 e 5174/2023).

Viene poi osservato che ai sensi dell’art. 56-bis del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, l’accertamento delle liberalità diverse dalle donazioni può essere effettuato al ricorrere congiunto di due presupposti:

  1. Quando l’esistenza delle liberalità emerge da dichiarazioni rese dall’interessato nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento dei tributi.
  2. Quando tali liberalità abbiano determinato un incremento patrimoniale superiore a 350 milioni di lire.

Nel caso in esame, risultano indubbiamente presenti entrambi i presupposti previsti dalla norma, come accertato dalla sentenza d’appello, infatti nel caso di specie, il contribuente aveva volontariamente dichiarato, nell’ambito della speciale procedura di emersione di capitali detenuti all’estero (voluntary disclosure), di aver beneficiato, in passato, di una liberalità indiretta di ingente valore. E a fronte della dichiarazione spontanea, l’Agenzia aveva attivato la procedura ex art. 56-bis del 346/1990 e disposto nei suoi confronti l’accertamento della liberalità indiretta, non dichiarata all’epoca della sua effettuazione. La procedura di collaborazione volontaria è, come già evidenziato, diretta all’accertamento dei tributi e la dichiarazione resa nell’ambito di tale procedimento è idonea a integrare il presupposto legislativo. Questo principio è stato confermato anche dalla Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che, in materia di imposta di successione, la dichiarazione di cui all’art. 56-bis, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 346 del 1990 può provenire sia dal donatario che dal donante, e può coincidere con la richiesta di avvalersi della voluntary disclosure per il rientro di capitali detenuti all’estero (Cfr. Sez. 5, Sentenza n. 9780/2023, Rv. 667715-01; Sez. 5, Sentenza n. 5802/2023, Rv. 666920-02; Sez. 5, Ordinanza n. 27665/2020, Rv. 659967-01).

Nel caso in esame, l’incremento patrimoniale rilevante non è contestato. Si tratta di una liberalità indiretta, non formalizzata in un atto specifico, ma di notevole importo e non giustificata da altre ragioni, oltre a essere avvenuta tra parenti. Questo è stato accertato con precisione dalle decisioni di merito e non è stato oggetto di contestazione nel ricorso per cassazione.

La Suprema Corte ritiene infondati anche il quinto e il sesto motivo di ricorso, relativi al termine di decadenza quinquennale dall’esercizio del potere impositivo che decorrerebbe dalla data in cui il contribuente abbia reso la dichiarazione in sede di voluntary disclosure. Il contribuente aveva lamentato l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento, in quanto l’avviso di accertamento era stato notificato oltre il termine cinque anni previsto dall’art. 76 del Testo Unico in materia di imposta di registro (D.P.R. 131/1986) applicabile, mutatis mutandis, anche all’imposta di donazione (ex art. 60 del D.Lgs. 346/1990) decorrenti, a parere del ricorrente, dal momento di effettuazione della liberalità. Invero, la norma invocata dal contribuente dispone che l’imposta vada richiesta “… a pena di decadenza, nel termine di cinque anni dal giorno in cui … avrebbe dovuto essere richiesta la registrazione”. Ai sensi dell’art. 60 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, si applica la decadenza di cinque anni prevista dall’art. 76 del D.P.R. n. 131 del 1986. Tuttavia, il dies a quo, ossia il momento di decorrenza del termine, non coincide con quello delle liberalità, ma con quello della dichiarazione volontaria al fisco. L’art. 76, comma 5, prevede infatti che l’imposta sia dovuta anche in caso di registrazione volontaria o di utilizzo dell’atto, indipendentemente dalla decadenza. Lo stesso principio si applica all’enunciazione di un atto non registrato ex art. 22 del D.P.R. n. 131 del 1986, quando non sussiste l’obbligo di registrazione (Cfr. Sez. 5, Ordinanza n. 19015/2021, Rv. 661807-01). In questo caso, il presupposto dell’imposta deriva dall’autodichiarazione della liberalità indiretta, resa dal contribuente nell’ambito della voluntary disclosure. Pertanto, il termine di decadenza decorre dalla data della dichiarazione resa durante la procedura, e non si è verificata decadenza, poiché la dichiarazione è stata presentata il 14 marzo 2015 e l’avviso di accertamento è stato notificato il 17 dicembre 2015.

La Suprema Corte ritiene infine infondato anche il quarto motivo di ricorso: il regime di tassazione delle liberalità indirette è riferito, ai sensi dell’art. 56-bis, alla legislazione vigente al momento dell’entrata in vigore. Le aliquote e le franchigie applicabili sono quelle in vigore, come successivamente modificate. Si tratta di un rinvio dinamico che comporta l’applicazione delle modifiche normative intervenute in materia di successioni.

QUESTIONI

La sezione tributaria della Corte di Cassazione con questa sentenza approfondisce, in tema di imposta di donazione, la decorrenza del termine di decadenza dal potere di accertamento delle liberalità indirette, attivato ai sensi dell’articolo 56 bis D. Lgs. 346/1990 del (Testo Unico sulle successioni e donazioni). Preliminarmente, la Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui le liberalità indirette, cioè gli atti di liberalità che producono gli effetti economici propri della donazione, pur non essendo donazioni sotto l’aspetto tecnico giuridico, che vengono dichiarate spontaneamente nella procedura di voluntary disclosure ai sensi dell’art. 1 L. 186/2014, sono soggette all’imposta di donazione secondo l’art. 56-bis del D. Lgs. 346/1990.

Il procedimento di collaborazione volontaria (voluntary disclosure) è stato introdotto con la legge n. 186 del 2014 per consentire ai contribuenti che detengono all’estero investimenti e attività di natura finanziaria, anche indirettamente o per interposta persona, relativamente ai quali sia stata omessa la dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, delle imposte sostitutive, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto, di regolarizzare la propria posizione fiscale denunciando spontaneamente all’Amministrazione finanziaria la violazione commessa in tema di possesso di patrimoni all’estero e collaborando con l’Amministrazione fiscale per sanare la situazione. Come ha affermato l’Agenzia Entrate, la finalità perseguita dal legislatore è quella di “…consentire ai contribuenti di riparare alle infedeltà dichiarative passate e porre le basi per l’avvio di un rapporto col Fisco improntato alla reciproca fiducia, secondo le linee guida tracciate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)”[1]. Il principale obiettivo della normativa è sanare le omissioni fiscali evitando conseguenze penali per determinati reati tributari, come il riciclaggio o l’autoriciclaggio, se si aderisce alla procedura in tempo utile.

La voluntary disclosure è dunque funzionale ad accertare i tributi e non riveste alcun carattere deflattivo e si pone in linea con l’obiettivo di migliorare i rapporti tra fisco e contribuente. Si tratta di una sorta di scudo fiscale per cui il contribuente che abbia condotto dei capitali all’estero può riportarli nel territorio dello Stato beneficiando di una riduzione delle sanzioni proprio per aver dimostrato la volontà di collaborare. Questo istituto detta una duplice tutela: da un lato per l’Amministrazione Finanziaria che recupera somme utili al sostentamento delle spese statali; dall’altro per il contribuente che beneficia di un abbattimento delle sanzioni per aver collaborato con l’Ufficio.

La norma prevede inoltre sanzioni significative in caso di violazioni non regolarizzate, che variano a seconda della gravità e della localizzazione dei fondi, con penalità maggiori per i Paesi considerati “black list”. Con la legge del 2014 è stato introdotto il reato di autoriciclaggio, per cui chi impiega capitali illeciti in attività economiche o finanziarie è soggetto a pene che variano da due a otto anni di reclusione. Le pene possono essere ridotte se i fondi vengono destinati all’uso personale o se si collabora con le autorità per evitare ulteriori reati.

Nonostante le polemiche sui condoni fiscali, la “voluntary disclosure” ha offerto l’opportunità di riportare capitali non dichiarati nel sistema legale. In un contesto di crescente attenzione alla regolamentazione dell’uso del contante e alla lotta all’evasione, una riapertura della procedura potrebbe rappresentare un’opportunità per attrarre nuove risorse nelle casse dello Stato e favorire una maggiore trasparenza finanziaria.

[1] Circolare 19/E del 12 giugno 2017

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