16 Luglio 2024

Interpretazione di norma processuale: condizioni per un mutamento

di Valentina Baroncini, Avvocato e Ricercatore di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. III, 7 giugno 2024, n. 16006, Pres. De Stefano, Est. Fanticini

[1] Interpretazione di norme processuali – Mutamento – Giustificazione – Condizioni – Fondamento – Conseguenze – Fattispecie.

L’interpretazione di una norma processuale consolidata può essere abbandonata solo in presenza di forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare di fenomeni sociali o del contesto normativo, oppure quando l’interpretazione consolidata risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti”, atteso che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo; ne consegue che, ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, è doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione (massima ufficiale).

CASO

[1] L’Agenzia delle Entrate-Riscossione, creditrice, procedeva a effettuare un pignoramento mobiliare presso la sede della s.r.l. debitrice. Proponeva opposizione di terzo all’esecuzione una s.n.c., asserendo che i predetti beni, benché si trovassero presso la sede della società debitrice, fossero in realtà di sua proprietà.

L’adito Tribunale di Cassino accoglieva l’opposizione, in quanto le scritture contabili prodotte in giudizio dall’opponente venivano ritenute idonee a dimostrare il suo diritto di proprietà sui cespiti staggiti.

La creditrice proponeva appello, che veniva accolto dalla Corte d’Appello di Roma, con conseguente rigetto dell’opposizione e condanna dell’opponente alle spese di lite. Per quanto di interesse ai fini del presente commento, la Corte di merito poneva a fondamento della propria decisione l’art. 63 del d.P.R. 29/9/1973, n. 602, norma che secondo il giudice d’appello non avrebbe riguardato soltanto la fase del pignoramento, ma anche il giudizio di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., e che avrebbe imposto all’opponente di dimostrare la titolarità dei beni pignorati mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata o sentenza passata in giudicato (pronunciata su domanda anteriore all’anno a cui si riferisce l’entrata iscritta a ruolo).

Avverso tale pronuncia l’opponente proponeva ricorso per cassazione affidato a un unico motivo. In particolare, il ricorrente denunciava, ai sensi dell’art. 360, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 63 del d.P.R. n. 602/1973, per avere la Corte d’Appello applicato la citata disposizione – e le relative limitazioni probatorie – al giudizio di opposizione di terzo, sebbene la norma riguardi soltanto l’attività di pignoramento dell’ufficiale della riscossione; sostiene la ricorrente che il legislatore non avrebbe inteso comprimere il diritto di difesa del terzo nell’opposizione ex artt. 619 c.p.c. e 58 d.P.R. n. 602/1973, ma avrebbe invece voluto dettare una regola per l’esecuzione del pignoramento, dal quale non può esimersi l’agente della riscossione senza la produzione di documenti aventi fede privilegiata.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione non ritiene di accogliere la tesi prospettata dalla ricorrente, con conseguente rigetto del ricorso presentato.

Afferma la Corte, infatti, che l’univoca lettura data dalla giurisprudenza di legittimità al citato art. 63 del d.P.R. n. 602/1973, nel senso dell’applicazione delle limitazioni ivi stabilite all’opposizione di terzo all’esecuzione promossa dall’agente della riscossione, costituisce “diritto vivente”, dovendo conseguentemente ritenersi consolidata l’interpretazione della norma, di natura processuale, riguardante le limitazioni probatorie per il terzo opponente.

La lettura suggerita dalla ricorrente – benché non implausibile – non può, di conseguenza, essere accolta, perché contrastante con la consolidata interpretazione giurisprudenziale – anch’essa non implausibile, né irrazionale o manifestamente arbitraria – senza che siano ravvisabili mutamenti del contesto normativo tali da giustificare un revirement, oppure esiti disfunzionali o iniqui.

QUESTIONI

[1] La questione affrontata dal provvedimento in commento riguarda l’ambito applicativo delle limitazioni probatorie considerate dall’art. 63 del d.P.R. n. 602/1973, il quale, come noto, dispone che «L’ufficiale della riscossione deve astenersi dal pignoramento o desistere dal procedimento quando è dimostrato che i beni appartengano a persona diversa dal debitore iscritto a ruolo, dai coobbligati o dai soggetti indicati dall’articolo 58, comma 3, in virtù di titolo avente data anteriore all’anno cui si riferisce l’entrata iscritta a ruolo. Tale dimostrazione può essere offerta soltanto mediante esibizione di atto pubblico o scrittura privata autenticata, ovvero di sentenza passata in giudicato pronunciata su domanda proposta prima di detto anno [corsivo nostro]».

Secondo un consolidato orientamento di legittimità, tali limitazioni trovano applicazione nell’opposizione di terzo alla procedura esecutiva promossa dall’agente della riscossione (così, tra le molte, Cass., 6 maggio 2010, n. 10961; Cass., 23 maggio 2014, n. 11531; Cass., 18 gennaio 2002, n. 539; Cass., 24 aprile 1998, n. 4231).

La norma è anche stata rimessa più volte al vaglio della Corte costituzionale, la quale – pur senza fornire una propria lettura della disposizione o avallare esplicitamente l’interpretazione della Suprema Corte – ha dichiarato la questione infondata (così Corte Cost., 9 ottobre 1998, n. 351, che ha affermato che la disciplina dell’ammissibilità e del regime delle prove è rimessa alla discrezionalità del legislatore che, nella specie, ha introdotto limitazioni non arbitrarie, né manifestamente irrazionali), oppure inammissibile, vuoi per difetto di rilevanza, vuoi per manifesta infondatezza (Corte Cost., 5 aprile 2000, n. 478; Corte Cost., 16 novembre 2001, n. 368; Corte Cost., 16 maggio 2008, n. 158; Corte Cost., 20 marzo 2009, n. 77; da ultimo, Corte Cost., 5 aprile 2019, n. 73).

Affinché possa essere avallato un mutamento nella (consolidata) interpretazione da fornire a tale norma processuale, nel caso di specie nel senso proposto da parte ricorrente, dovrebbero ricorrere i presupposti tratteggiati da Cass., sez. un., 12 ottobre 2022, n. 29862, secondo cui “l’interpretazione di una norma processuale consolidata può essere abbandonata solo in presenza di forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare di fenomeni sociali o del contesto normativo, oppure quando l’interpretazione consolidata risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti”, atteso che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo; ne consegue che, ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, è doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione”.

Tali presupposti, secondo il provvedimento in commento, sono del tutto assenti nel caso di specie: ciò che impedisce di dar luogo a un mutamento nell’interpretazione della norma processuale in questione, e che impone di dar seguito a quella consolidata, circa l’applicabilità delle limitazioni probatorie richiamate al giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione ex art. 619 c.p.c.

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