8 Novembre 2016

L’indennità per illegittima apposizione del termine

di Giuseppina Mortillaro Scarica in PDF

 

Secondo la Corte di Cassazione ha valenza sanzionatoria e va riconosciuta integralmente anche in assenza di danno o in presenza di minor danno 

Con la sentenza 2 novembre 2016, n. 22124, la Corte di Cassazione ha affermato che l’indennità per illegittima apposizione del termine spetta al lavoratore anche nell’ipotesi in cui questi non abbia patito alcun danno, avendo reperito altra occupazione; e ha affermato altresì che lo ius superveniens dato dall’art. 32, co. 5-7, della legge n. 183/2010 (collegato lavoro) è applicabile anche ai giudizi in corso, ivi incluso quello di legittimità.

Sotto quest’ultimo aspetto la Corte ha sostenuto che “condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso” è “il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80, cit.)”. Muovendo da tale presupposto, la Corte ha ritenuto applicabile alla fattispecie concreta la norma del collegato lavoro in punto di liquidazione del danno, ancorché tale norma fosse stata introdotta solo dopo la sentenza della Corte d’appello, avverso la quale era stato proposto ricorso per cassazione.

Il ragionamento seguito dalla Corte è, sul punto, pienamente in linea con quanto previsto dal testo normativo. Infatti, secondo il co. 5 dell’art. 32 della legge n. 183/2010, “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604” e aggiunge il co.  7 che tale disposizione (unitamente a quella del co. 6 relativa alla possibilità di dimezzare la misura massima dell’indennità in presenza di contratti collettivi che prevedono assunzioni mediante graduatorie dei lavoratori precedentemente occupati a termine) trova “applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile”.

Del pari è condivisibile quanto affermato dalla Corte con riferimento all’inapplicabilità ai giudizi in corso delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 81/2015, e segnatamente dell’art. 28, co. 2 e co. 3. Ciò in quanto la nuova disciplina sanzionatoria “si inserisce nella disciplina organica del rapporto di lavoro a tempo determinato, dettata dal Governo con il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 19 e ss., in attuazione della delega conferita con la L. n. 183 del 2014, art. 1, comma 7, la cui entrata in vigore ha determinato l’abrogazione del D.Lgs. n. 368 del 2001 , ai sensi dell’art. 55, comma 1, lett. b), e comma 2. Per essa, in assenza di esplicita disposizione contraria, deve operare quindi la regola dell’irretroattività sancita dall’art. 11 preleggi , regola cui – com’è noto – può derogarsi soltanto se ciò è espressamente previsto da apposita disposizione di diritto transitorio, quale quella che era stata formulata per l’operatività della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 6, dal relativo comma 7…..  Ne deriva che la nuova previsione nel caso è applicabile solo ai fatti generatori della (nuova) responsabilità risarcitoria, successivi all’entrata in vigore della nuova disciplina, e quindi alle ipotesi di illegittima apposizione del termine verificatesi dopo tale data. Tale conclusione non è contraddetta dal rilievo che il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 55, non ha abrogato esplicitamente anche la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 7, ma solo, al comma 1 lett. f), i commi 5 e 6, considerato che il detto comma 7 si riferisce esplicitamente (solo) ai precedenti commi 5 e 6, e non è pertanto estensibile alla nuova disciplina dettata dall’art. 28 cit. L’interpretazione costituzionalmente orientata conforta la tesi dell’irretroattività della nuova norma, dovendosi altrimenti superare il vaglio di compatibilità con l’art. 6 della CEDU, sottoposto a stringenti condizioni (v. Corte Cost. n. 303 del 2011 e 112 del 2012, già sopra richiamate)”.

Sotto il primo aspetto, riguardante la corresponsione dell’indennità nella misura integrale senza possibilità di potere detrarre dall’ammontare della stessa l’aliunde perceptum, la questione è invece più complessa.

La Corte infatti, a fronte dell’eccezione sollevata dalla difesa del datore di lavoro di detraibilità dall’ammontare dell’indennità forfettaria delle somme percepite dal lavoratore per effetto del reperimento di altra occupazione, ha ricordato che la disciplina contenuta nei co. 5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183/2010 ha retto alle censure di costituzionalità solo sulla base di una precisa lettura di tali disposizioni da parte della Corte Costituzionale con la sentenza 11 novembre 2011, n. 303.

La questione di costituzionalità era stata sollevata con separate ordinanze dal Tribunale di Trani e dalla Corte di Cassazione. In particolare la Corte di Cassazione aveva ritenuto non manifestamente infondate le questioni di legittimità dei co. 5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183/2010 per denunciato contrasto di esse con gli artt. 3, secondo comma, 4, 24 e 111 Cost., “perché la previsione di un’indennità circoscritta ad alcune mensilità di retribuzione sarebbe irragionevolmente contenuta rispetto all’ammontare del danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto, che aumenta con il decorso del tempo, assumendo dimensioni imprevedibili, in quanto pari almeno alle retribuzioni perdute dalla data dell’inutile offerta delle proprie prestazioni fino a quella, futura ed incerta, dell’effettiva riammissione in servizio. Con il risultato che la liquidazione eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del danno sofferto dal lavoratore indurrebbe il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento tentando di prolungare il giudizio oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica. Con ciò vanificando il diritto del cittadino al lavoro ed arrecando grave nocumento all’effettività della tutela giurisdizionale, che esige l’esatta, per quanto materialmente possibile, corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale. Ancora in riferimento all’art. 4 Cost., atteso che la sproporzione fra la tenue indennità ed il danno, che aumenta con la permanenza del comportamento illecito del datore di lavoro, sembrerebbe contravvenire all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria”.

La Corte Costituzionale, nel ritenere esenti da censure le disposizioni contenute nei co. 5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183/2010, aveva chiarito che l’indennità forfettaria fosse da qualificarsi in chiave sanzionatoria, e non ammettesse perciò la detrazione dell’aliunde perceptum, risultando dovuta sempre e comunque, pur in assenza di danno. Ciò fermo restando che la principale forma di tutela assicurata al lavoratore dalla norma fosse comunque il diritto alla riammissione in servizio (con obbligo di corrispondere tutte le retribuzioni ove il datore di lavoro non avesse ottemperato a seguito della pronuncia giudiziale), in assenza della quale, allora sì, la sola indennità forfettaria – proprio per non costituire un risarcimento integrale – sarebbe stata insufficiente.

Prendendo le mosse dalla sentenza della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ha sostenuto che solo “così interpretata, la nuova normativa – risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi” – ha superato il vaglio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati con le ordinanze di rimessione con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. , e art. 117 Cost. , comma 1 (v. in senso conforme, C.Cost., ord., n. 112 del 2012) nonché con riferimento all’ipotizzato contrasto con la clausola 8.3 dell’accordo quadro Europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Corte Cost. n. 226 del 2014)”, ribadendo tanto la natura sanzionatoria dell’indennità, quanto la non detraibilità dell’aliunde perceptum.

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La sentenza della Corte di Cassazione impone un raffronto tra la disciplina relativa alle conseguenze per l’illegittima apposizione del termine e quella relativa alle conseguenze derivanti da licenziamento illegittimo sia ai sensi dell’art. 18, co. 4, St. lav. che ai sensi dell’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015 (un confronto che, all’epoca della sentenza della Corte Costituzionale, sentenza su cui la Cassazione si è attestata, non sarebbe stato possibile essendo la relativa disciplina entrata in vigore successivamente alla sentenza n. 303/2011).

Se, infatti, da un lato, la sentenza della Corte di Cassazione sembra suggerire che il fatto stesso che un’indennità sia forfettizzata escluda la detraibilità dell’aliunde perceptum, dall’altro esistono oggi precise norme che ammettono (e anzi impongono) tale detrazione. Una norma è il co. 4 dell’art. 18 St. lav. come modificato dalla legge n. 92/2012 (che prevede un’indennità risarcitoria, per un massimo di 12 mensilità, “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”); l’altra è l’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015 (che prevede un’indennità risarcitoria, per un massimo di 12 mensilità, “commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni”).

Non potendo darsi allora corso, per effetto delle previsioni contenute nell’art. 18, co. 4, St. lav. e nell’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 23/2015, all’equazione secondo cui forfettizzazione dell’indennità uguale a corresponsione integrale anche in assenza di danno o in presenza di minor danno, sembra dunque doversi ravvisare la ragione del diverso trattamento delle due indennità nella funzione cui le stesse assolvono. Quella dovuta per effetto dell’illegittima apposizione del termine, avrebbe esclusivamente – come ha sostenuto la Corte Costituzionale e poi la Corte di Cassazione – funzione sanzionatoria, e si atteggerebbe come vero e proprio danno punitivo; quella dovuta per effetto dell’illegittimo licenziamento avrebbe mantenuto, invece, funzione risarcitoria vera e propria, sia pure con un risarcimento (che non è tanto “forfettizzato”, quanto piuttosto) contenuto entro un tetto massimo.