Indagini finanziarie: caos sui versamenti dei professionisti
di Maurizio Tozzi Scarica in PDFIl tema delicato delle indagini finanziarie ha visto, con particolare riguardo al mondo professionale, delle prese di posizione controverse da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione, che probabilmente renderanno necessaria una valutazione delle Sezioni Unite. Senza voler tediare, attesa l’ampia conoscenza del tema, è noto che ai fini accertativi in relazione ad un conto corrente (casistica più semplice), un titolare di partita IVA è tenuto a giustificare all’Amministrazione finanziaria, qualora richiesto, non solo le movimentazioni in entrata, ma anche quelle in uscita. La prima immediata giustificazione è quella di dimostrare la riconducibilità dei movimenti all’attività svolta, mediante riscontro con le relative scritture contabili. Ove ciò non fosse possibile, al contribuente l’onere di dimostrare la fonte legittima dei versamenti (potendo far riferimento a qualsiasi ipotesi documentabile, dalla vincita di una lotteria ad un prestito familiare), ovvero, per i prelevamenti, il beneficiario dei medesimi.
In origine, con specifico riferimento ai professionisti, la presunzione legale relativa in materia consentiva di considerare maggiori compensi sia i versamenti che i prelievi. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 228 del 2014 è intervenuta sul tema, sgombrando ogni dubbio circa la non applicabilità di detta presunzione in riferimento ai prelevamenti effettuati, sul presupposto che l’utilizzo dei fondi, per una persona fisica, è solitamente rivolto a finalità personali e familiari, non dovendo dimenticare l’assenza di obblighi contabili.
La delicatezza delle indagini finanziarie in ambito professionale è però estesa anche al comparto dei versamenti. In questa direzione, infatti, pesa molto l’onere probatorio richiesto, che può sfociare in una sorta di prova diabolica, soprattutto se si considerano due fattori: la già menzionata assenza di obblighi contabili; la non previsione di specifici adempimenti circa il versamento dei compensi introitati. Qualsiasi professionista non è tenuto ad annotare i propri introiti finanziari in riconciliazione esatta con le fatture emesse e nemmeno deve, con scientifica puntualità, procedere al versamento entro un delimitato lasso di tempo degli importi incassati e fatturati. Ben può accadere, ad esempio, che il professionista incassi 2 mila euro, ne trattenga 500 per proprie esigenze personali, ne spenda 200 per costi professionali e decida di versare 1.300,00 euro sul proprio conto, operazione che sembra assolutamente giustificata sul piano della sequenza logica degli accadimenti.
Peraltro, la problematica sussiste anche per gli imprenditori in contabilità semplificata o in regimi agevolati come quello forfettario, nonché per le indagini finanziarie eventualmente estese sui conti di terzi soggetti, quali familiari del contribuente o anche i soci della società sottoposta a controllo, laddove le operazioni effettuate sono sicuramente influenzate da accadimenti e scelte di carattere personale.
In relazione ai professionisti, però, sul tema dei versamenti si sono registrate, dopo la citata sentenza della Corte Costituzionale, delle conclusioni contrastanti da parte della Corte di Cassazione. Con la sentenza n. 12779 depositata il 21 giugno 2016, i giudici di legittimità affermano, tra l’altro, che “il venir meno dell’equiparazione tra il professionista e l’impresa … è stata recepita da questa Corte che, con la sentenza n. 23041 del 2015 ha affermato il principio di diritto secondo cui la presunzione… secondo cui sia i prelevamenti che i versamenti operati sui conti bancari … vanno imputati ai ricavi conseguiti nella propria attività … si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi e professionisti intellettuali …”. La posizione della Corte, per quanto sorprendente, sembra(va) non ammettere deroghe, sottolineando la presenza di un principio di diritto consolidato secondo cui non è più possibile per il fisco attivare l’automatismo accertativo in relazione ai versamenti. Peccato che, a breve distanza di tempo, sia giunta la sentenza n. 18065 depositata il14 settembre 2016, nella quale testualmente si legge: “… i prelevamenti non possono essere utilizzati come presunzione di reddito per le persone fisiche… al contrario che per gli imprenditori (v. Corte Costituzionale che invece, quanto ai prelievi, ha escluso la presunzione di reddito per i lavoratori autonomi), a differenza che dei versamenti che invece sono indicativi di reddito …”. Conclusione dunque diametralmente opposta: se sui prelievi non vi è dubbio che la presunzione operi solo per gli imprenditori, in ordine ai versamenti trattasi di una disposizione che trova applicazione nei confronti di ogni contribuente persona fisica, sia non titolare di partita IVA, sia ovviamente professionista o imprenditore.
Come al solito la confusione regna sovrana, con il congruo contributo dei giudici supremi. Quale può essere lo scenario futuro? Non è dato sapere. Fino ad intervento risolutore, o normativo o giuridico, il solo consiglio utile è quello di adottare comportamenti coerenti e logici (come nella sequenza dell’esempio dianzi esposto) e di tenere il più possibile traccia dei versamenti operati, evitando di esporsi a facili contestazioni. Ad esempio è evidente che se si versano 500 euro collegati ad una fattura di 500 euro e successivamente si emette una fattura di mille euro ma si procede ad un versamento di 2.500 euro qualcosa da spiegare e documentare emerge in relazione al secondo versamento, con onere probatorio difficoltoso per l’ammontare di 1.500 euro eccedente rispetto alla fattura emessa: nulla vieta che vi possa essere la giustificazione, ma è sicuramente auspicabile evitare simili situazioni.
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