8 Febbraio 2022

Incidenza causale della patologia pregressa e risarcimento del danno per responsabilità medica

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, sent. 09.11.2021 n. 32657– Pres. Travaglino – Rel. Scoditti

Responsabilità professionale – Danno non patrimoniale – Causalità materiale – Causalità giuridica – Neutralizzazione e riduzione – Concausa di lesione – Concausa di menomazione.

Massina: “in tema di responsabilità medica non si può stabilire l’esclusiva responsabilità della struttura ospedaliera, con il conseguente obbligo in capo a quest’ultima di risarcire per intero i danni riportati dalla vittima, senza tenere distinte le ipotesi in cui un tempestivo intervento avrebbe evitato il danno subìto dalla vittima oppure lo avrebbe semplicemente ridotto. Il giudizio di fatto deve avere un termine esclusivo (neutralizzazione o riduzione delle conseguenze della patologia pregressa) e deve collegarvi il conforme effetto giuridico”.

CASO

I genitori di un bambino affetto da gravi patologie neurologiche, in quanto esercenti la potestà genitoriale sul figlio, citavano in giudizio l’azienda sanitaria locale, onde ottenere il risarcimento del danno per le gravi patologie neurologiche patite dal figlio, a causa delle negligenze e dei ritardi dei sanitari.

Il Giudice di prime cure, tenuto conto della CTU, secondo la quale la pregressa patologia coagulativa-trombofiliaca della madre aveva concorso a determinare il danno patito dal minore, aveva accolto la domanda attorea, riducendola tuttavia nel quantum, ed aveva condannato la convenuta al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, a favore degli attori, quali legali rappresentanti del minore.

In sede d’appello, l’azienda sanitaria veniva condannata al pagamento di ulteriori importi ai genitori, in proprio e quali rappresentanti legali del figlio.

Infatti, secondo il Giudice del gravame, dal giorno in cui era merso il dato del “rallentamento di crescita del feto” non era stata fornita alla gestante sufficiente assistenza, erano stati omessi la tempestiva ospedalizzazione della stessa nonché l’anticipazione del parto, i quali, se eseguiti, avrebbero “evitato con probabilità vicina alla certezza” i “danni intrauterini fetali e l’entità delle lesioni neurologiche irreversibili” del nascituro, ovvero ne avrebbero ridotto l’incremento. La Corte, infatti, riteneva che tali danni si sarebbero potuti evitare, o comunque, limitare, se i sanitari avessero operato correttamente.

Di conseguenza, era illogico ritenere che la patologia della madre costituisse elemento fortuito tale da sminuire il rilevante inadempimento dei sanitari. Pertanto, non era praticabile la riduzione proporzionale della responsabilità medica per pregressa patologia della madre (che rappresenterebbe una concausa naturale e non umana), né la riduzione equitativa del quantum risarcibile da parte della struttura sanitaria.

In altre parole, secondo il giudice d’appello un intervento tempestivo dell’equipe medica avrebbe evitato o quanto meno ridotto i danni intrauterini.

L’azienda sanitaria e la relativa compagnia assicurativa proponevano ricorso in cassazione articolato in due motivi.

SOLUZIONE

L’incidenza causale della patologia pregressa della madre, ai fini della menomazione di cui il figlio è affetto, va valutata tenendo presente la differenza tra la “neutralizzazione” e la “riduzione” della patologia pregressa da parte del sanitario che ha agito. La Cassazione, cioè, afferma che non si può stabilire l’esclusiva responsabilità della struttura ospedaliera, con il conseguente obbligo in capo a quest’ultima di risarcire per intero i danni riportati dalla vittima, senza tenere distinte le ipotesi in cui un tempestivo intervento avrebbe evitato il danno subìto dalla vittima o lo avrebbe semplicemente ridotto. Il giudizio di fatto deve avere un termine esclusivo (neutralizzazione o riduzione delle conseguenze della patologia pregressa) e deve collegarvi il conforme effetto giuridico.

QUESTIONI

Con il primo motivo di ricorso, le soccombenti denunciavano il fatto che il contratto di ospedalità, ossia il contratto a prestazioni corrispettive che sorge tra la struttura sanitaria ed il paziente, non produce i propri effetti protettivi anche nei confronti dei terzi, ossia i genitori del minore, e che, data la natura extracontrattuale della responsabilità con riferimento ai genitori agenti in proprio, al momento della notifica dell’atto di citazione si era già compiuta la prescrizione quinquiennale.

Tale motivo di doglianza è stato dichiarato inammissibile.

La sentenza in commento, infatti, uniformandosi ai precedenti della giurisprudenza di legittimità (Cass. 14488/2004; Cass. 10741/2009; Cass. 2354/2010; Cass. 16754/2012; Cass. 10812/2019; Cass. 14615/2020) ha ribadito che il contratto stipulato tra gestante e struttura sanitaria, avente ad oggetto la prestazione di cure volte a garantire il corretto decorso della gravidanza (con esclusione, quindi, di prestazioni sanitarie di diverso tipo, dove non sussiste responsabilità contrattuale al di fuori del rapporto fra medico e paziente), riverbera i suoi effetti protettivi non solo sulla gestante ma anche sul nascituro e sul padre, i quali sono legittimati ad agire per il risarcimento del danno a titolo di responsabilità contrattuale; con la conseguente applicazione del termine decennale di prescrizione.

Con il secondo motivo, le parti soccombenti si dolevano del fatto che, sebbene il giudice del gravame avesse aderito alla CTU, secondo cui la patologia pregressa della madre aveva avuto un’incidenza causale sulla malformazione del figlio, tuttavia non aveva ridotto in modo corrispondente il quantum debeatur.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso, per essere la motivazione della grava sentenza contraddittoria.

Secondo gli Ermellini, infatti, non può stabilirsi l’esclusiva responsabilità della struttura ospedaliera (con il conseguente obbligo in capo a quest’ultima di risarcire per intero i danni riportati dalla vittima) se prima non vengono dipanati i dubbi concernenti gli eventuali benefici che sarebbero scaturiti da un intervento sanitario tempestivo: la corte territoriale avrebbe dovuto interrogarsi se l’intervento tempestivo avrebbe neutralizzato oppure semplicemente ridotto l’entità di tali danni, laddove, invece, essa ha ricollegato il medesimo effetto giuridico a due diversi giudizi di fatto.

La sentenza in commento ha chiarito che non possono essere assimilate la neutralizzazione e la riduzione degli esiti della patologia pregressa, in quanto, essendo diverse le conseguenze giuridiche dei due presupposti di fatto, si giunge ad un’inevitabile ed inconciliabile contraddizione, laddove le si equipari ai fini della determinazione del danno risarcibile.

Infatti, se il tempestivo intervento dei sanitari avesse neutralizzato la patologia pregressa, non avrebbe senso parlare di concausa e correttamente dovrebbe concludersi per l’irrilevanza della patologia pregressa della madre ai fini del risarcimento del danno.

Laddove, invece, il tempestivo intervento dei sanitari avesse ridotto gli effetti della patologia pregressa, si sarebbe dovuto riconoscere l’incidenza di detta patologia in termini di causalità giuridica ex art. 1223 c.c. (Cass. civ., 514/2020; Cass. civ., 28986/2019).

Sebbene l’annotata sentenza non ne richiami le nozioni, giova qui accennare brevemente ai concetti di causalità materiale e causalità giuridica.

La causalità materiale attiene al nesso eziologico tra la condotta del debitore e l’evento-inadempimento e dovrà verificare se quest’ultimo è imputabile oppure no al debitore ed in che misura in caso di concorso di cause.

La causalità giuridica, invece, riguarda l’indagine tra l’evento-inadempimento e le conseguenze dannose, ossia i pregiudizi derivati al creditore-danneggiato, direttamente riconducibili all’evento.

Orbene, se l’azione o l’omissione colpevole concorra con la causa naturale, e quindi con la patologia pregressa, nella produzione dell’evento lesivo, sul piano della causalità materiale sarà del tutto indifferente la preesistenza, coesistenza o concorrenza della causa naturale stessa.

Le conseguenze dannose della lesione, invece, valutate sul piano della causalità giuridica (criterio eziologico che indaga, appunto, sulla relazione tra la lesione e le sue conseguenze), andranno liquidate nella loro effettiva e complessiva consistenza, attribuendo all’autore dell’illecito la sola percentuale di aggravamento della situazione preesistente (Cass. civ., 15991/2011; Cass. civ., 28986/2019).

La distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica impone di considerare se la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima del fatto illecito incida sul primo o sul secondo dei due nessi causali.

L’invalidità o la malattia pregresse, infatti, possono costituire tanto una “concausa di lesione” quanto una “concausa di menomazione”. Le preesistenze rileverebbero sul piano della causalità materiale se dovessero rappresentare una concausa della lesione, mentre rileverebbero sul piano della causalità giuridica laddove si traducessero in concausa di menomazione.

La sentenza in commento si sofferma poi sulle due categorie di concause di pregiudizio patito dalla vittima: le “concause di lesione” e le “concause di menomazione”.

Si parla di “concausa di lesione” quando il decorso clinico del nuovo danno subìto è aggravato da una patologia precedente (es. la piccola ferita che, inferta a persona emofiliaca, causa una grave emorragia).

In questo caso, entrambi i fattori causali sono necessari per la causazione dell’evento dannoso.

La concausa di lesioni è giuridicamente irrilevante, nel senso che quando la patologia preesistente è concausa della lesione patita dal danneggiato, di essa non si deve tener conto nella liquidazione del danno e tanto meno nella determinazione del grado di invalidità permanente.

Nelle “concause di menomazione”, invece, la preesistenza di uno stato patologico pregresso può:

non influire in alcun modo sul verificarsi del successivo danno (es. soggetto non vedente che subisce la frattura di un arto), talché la “causa” preesistente tale non è (c.d. menomazioni coesistenti, ossia quelle che interessano organi e apparati diversi).

Le menomazioni “coesistenti” non interferiscono l’una con l’altra (ad es. la mancanza di un occhio non incide e non interferisce con la lesione subìta successivamente all’arto, che non viene ad essere condizionata dalla precedente minorazione). In tali casi, ai fini della quantificazione del grado di invalidità permanente, è come se la lesione fosse stata sofferta da persona sana: poiché, quindi, la menomazione preesistente è irrilevante nella causazione del danno, non vi sono motivi per limitare il risarcimento;

incidere sulla lesione successiva, causandone una maggiore gravità o estensione (è il caso di chi, dopo aver subito una frattura alla caviglia, subisca dopo anni una frattura al ginocchio). In tal caso, secondo i principi consolidati della Suprema Corte, si dovrà, in applicazione delle regole della causalità giuridica, stabilire quali tra i postumi della seconda lesione siano da considerarsi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito e, come tali, essere ascritti al responsabile (c.d. menomazioni concorrenti, ossia quelle che colpiscono uno stesso organo o apparato).

Le menomazioni “concorrenti”, diversamente dalle precedenti, interferiscono l’una con l’altra.

In tal caso, si pone il problema di valutare quali siano i criteri di accertamento del danno risarcibile.

Sul punto, la sentenza in commento richiama un principio espresso in altri propri precedenti, secondo cui occorre determinare l’equivalente monetario della lesione attuale (intesa come menomazione pregressa più quella successiva causata dall’illecito) e da questo valore sottrarre l’equivalente monetario della condizione pregressa.

L’applicazione di tale principio significa adattare il risarcimento alla condizione reale del danneggiato. Altrimenti facendo (vale a dire risarcendo solo l’eccedenza, e quindi la lesione attuale senza la pregressa) si finirebbe con il liquidare la stessa somma, indipendentemente dalla entità della lesione pregressa.

In ogni caso, resta il potere-dovere del Giudice di fare ricorso al criterio dell’equità correttiva, laddove la rigorosa applicazione tabellare porti a soluzioni palesemente inique.

Orbene, in conclusione, nel caso in esame, secondo gli Ermellini, la Corte territoriale non si è ispirata ai principi suddetti e, pertanto, la sentenza gravata è da ritenersi priva di motivazione, in quanto non è riuscita a chiarire se l’intervento medico sarebbe stato idoneo a neutralizzare o a ridurre le conseguenze della patologia pregressa e a far discendere le conseguenze in tema di risarcimento.

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