18 Febbraio 2020

Imposta di successione: presunzione ex art. 9 T.U.S. e indicazione di beni mobili in dichiarazione.Divieto di cumulo

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione, Sez. V, sentenza n. 31806 del 5 dicembre 2019

SUCCESSIONI – Imposta sulle successioni e le donazioni – Presunzione appartenenza attivo ereditario di denaro, gioielli e mobilia per il 10% – Calcolo sull’attivo ereditario – Indicazione di beni per un valore inferiore – Inclusione del valore dichiarato dall’erede – Illegittimità 

*Premesso che l’attivo ereditario è costituito da tutti i beni ed i diritti che formano oggetto della successione, esclusi quelli specificamente esentati dall’imposta, la norma di cui all’art. 9 D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 stabilisce che denaro, gioielli e mobilia si presumono compresi nell’attivo “per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore”. Tale norma deve essere interpretata nel senso che il valore presunto comprende anche quanto eventualmente dichiarato dal contribuente, con la conseguenza che è illegittima la pretesa del fisco di calcolare la percentuale presuntiva del 10% sull’attivo ereditario, dopo aver aggiunto il valore dichiarato dall’erede per denaro, gioielli e mobilia; in presenza pertanto di un valore dichiarato inferiore a quello presunto, l’imposta principale di successione deve essere sempre calcolata, per quanto riguarda i beni mobili, sul valore presunto, mentre l’imposta complementare deve essere liquidata sulla differenza fra il valore presunto e quello dichiarato (Cass. 25.2.2008 nr 4751). Si deve dunque ritenere illegittima la pretesa del fisco di calcolare la percentuale presuntiva del dieci per cento sull’attivo ereditario alla luce di importi dichiarati superiori alla suddetta percentuale.

Disposizioni applicate

Art. 9 D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346

[1] Con sentenza n. 182/2013 la C.T.R. della Lombardia dichiarava illegittimo l’avviso di liquidazione ed irrogazione di sanzioni impugnato da Tizio e Caio, ed emesso dall’Agenzia delle Entrate in relazione alla dichiarazione di successione presentata dai contribuenti a seguito del decesso di Sempronio.

Venivano contestati diversi profili, ma per quanto di qui interesse basti premettersi che l’avviso di liquidazione riguardava la tassazione operata sia in relazione a beni immobili che mobili (denaro) che erano stati precedentemente costituiti in trust.

Il giudice di appello osservava che il bene immobile acquisito da un Trust, caduto in successione, era stato sottoposto ad una tassazione pari al 7%, sicché la tassazione operata dall’Agenzia delle Entrate in misura pari al 6% non era dovuta ai sensi dell’art. 2, comma 47 del D.I. 262/2006, convertito con modificazioni dalla legge 286/2006, in quanto in caso di successione o donazione non si realizza il presupposto impositivo in capo ai beneficiari.

Con riguardo alla tassazione delle somme di denaro e all’indebita applicazione della presunzione del 10%, rilevava che le disponibilità liquide indicate nella dichiarazione in circa € 650.000,00 erano state inserite nel menzionato Trust per una cifra di poco inferiore e quindi, per analoghe ragioni a quelle sopra indicate (divieto di doppia imposizione), non erano soggette ad imposta di successione.

Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a 5 motivi, dei quali, nella presente sede verrà esaminato esclusivamente l’ultimo, con il quale la ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art 9, comma secondo, D. Lgs. n. 346/1990 in relazione all’art. 360, 1° comma n. 3 c.p.c.. Criticava, infatti, la decisione laddove aveva inteso escludere dalla massa ereditaria imponibile anche quel valore presuntivo del 10% di denaro, mobilio e gioielli conteggiato dall’Ufficio in applicazione del richiamato art. 9, vanificando in tal modo la disposizione impositiva.

[2] La Cassazione ha rigettato, in punto, il ricorso osservando che, nel ragionamento seguito dalla CTR, l’esclusione dalla base imponibile del valore presuntivo calcolato dall’Ufficio è dovuto al fatto che la gran parte delle somme liquide, indicate nella dichiarazione di successione era già stata inserita nel trust.

L’analisi degli Ermellini si rivela più attenta e pertinente di quello condotto dal Giudice di secondo grado. Essi richiamano la norma citata, la quale – premesso che l’attivo ereditario è costituito da tutti i beni ed i diritti che formano oggetto della successione, esclusi quelli specificamente esentati dall’imposta – stabilisce, per quanto qui interessa, che denaro, gioielli e mobilia si presumono compresi nell’attivo “per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore”.

A giudizio della Suprema Corte “tale norma deve essere interpretata nel senso che il valore presunto comprende anche quanto eventualmente dichiarato dal contribuente, con la conseguenza che è illegittima la pretesa del fisco di calcolare la percentuale presuntiva del 10% sull’attivo ereditario, dopo aver aggiunto il valore dichiarato dall’erede per denaro, gioielli e mobilia; in presenza pertanto di un valore dichiarato inferiore a quello presunto, l’imposta principale di successione deve essere sempre calcolata, per quanto riguarda i beni mobili, sul valore presunto, mentre l’imposta complementare deve essere liquidata sulla differenza fra il valore presunto e quello dichiarato”.

Si deve dunque ritenere illegittima la pretesa del fisco di calcolare la percentuale presuntiva del dieci per cento sull’attivo ereditario alla luce di importi dichiarati “superiori” alla suddetta percentuale. Diversamente opinando si verrebbe a determinare una doppia tassazione, in quanto il 10% verrebbe conteggiato su somme di denaro già dichiarate.

[3] La questione posta al vaglio della giurisprudenza di legittimità, liquidata in una sentenza sin troppo stringata e non certamente di lineare chiarezza merita alcuni chiarimenti, soprattutto in relazione alle pretese del fisco ed alla interpretazione della norma in oggetto.

Il citato art. 9 testualmente prevede, al secondo comma, che “si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore, salvo che da inventario analitico redatto a norma degli articoli 769 e seguenti del codice di procedura civile non ne risulti la esistenza per un importo diverso”.

Dal dettato legislativo l’Agenzia delle Entrate ritiene si ricavi il principio che la presunzione del 10% possa essere evitata dal contribuente solo attraverso la redazione dell’inventario analitico. In assenza di tale inventario sarebbe, pertanto, legittima la tassazione operata sull’intero valore netto imponibile, comprensivo dei beni mobili eventualmente indicati nella dichiarazione di successione.

Il punto è stato oggetto di più attenta ed approfondita analisi da una pronuncia precedente della Cassazione (pure richiamata nella sentenza epigrafata).

Secondo Cass. Civ., Sez. V, sentenza n. 4751 del 25.2.2008 la mancanza di un inventario analitico comporta l’applicabilità della presunzione legale, dovendosi solo valutare la portata di tale presunzione, a fronte di una dichiarazione di valori mobiliari da parte dell’erede, non assistita da inventario. Dapprima, si conferma che “la presunzione, mancando l’inventario, è certamente applicabile; pertanto sarebbe inaccoglibile la richiesta dell’erede di pagare l’imposta in ragione di quanto dichiarato, anziché in ragione di un imponibile presuntivamente aumentato del dieci per cento”. Viene, poi, precisato che il punto dirimente è se l’aumento presuntivo di un decimo debba essere calcolato al netto, ovvero al lordo, del valore dei beni mobili denunziati dal contribuente. Al riguardo si osserva che in forza della formulazione letterale della norma, “l’incremento legale dell’attivo ereditario – per l’esistenza presunta di beni mobili che in esso “si considerano compresi” (e dunque non debbono essere ulteriormente aggiunti) -, è indipendente dalla dichiarazione dei beni stessi (“anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore”).

Tale espressione – chiaramente superflua, se riferita all’applicabilità, anche in tali casi, della presunzione legale – acquista significato solo in funzione della necessità, evidentemente avvertita dal legislatore, di evitare disparità impositive fra l’erede che non dichiari affatto l’esistenza dei menzionati valori mobiliari e colui che invece la dichiari, ma in misura inferiore a quella presunta”.

Infatti, in mancanza di tale precisazione esplicita, il primo (non dichiarante) vedrebbe calcolata l’imposta sull’attivo dichiarato (o accertato), aumentato del dieci per cento; laddove il secondo (dichiarante parziale) subirebbe, senza ragione, un trattamento fiscale deteriore, giacché la stessa percentuale sarebbe calcolata sull’attivo ereditario incrementato dal valore dei beni mobili dichiarati”.

[4] Le conclusioni cui giunge la giurisprudenza sono certamente condivisibili e forniscono l’occasione, dato l’argomento trattato, per riportare alcune considerazioni.

  1. Il terzo comma dell’art. 9 precisa che “si considera mobilia l’insieme dei beni mobili destinati all’uso o all’ornamento delle abitazioni”. Vale a dire che sono “coperti” dalla presunzione del 10% solo ed esclusivamente quei beni rientranti nella predetta definizione che siano collocati all’interno delle abitazioni del defunto. Ciò vale, in particolare modo, per le opere d’arte che se, ad esempio, fossero custodite in caveaux, esposte in gallerie o depositate in musei od altre istituzioni dovrebbero essere oggetto di specifica indicazione. In tal caso potrebbero trovare applicazione, tuttavia e se ne ricorrano le condizioni, le esenzioni stabilite per i beni sottoposti a vincolo culturale.
  2. Si ritiene che non rientrino nella definizione di denaro ai sensi dell’art. 9 i saldi dei conti correnti del de cuius. I giudici di legittimità, infatti, affermano che, rientra nell’ambito di applicazione della norma soltanto il denaro “sul quale il defunto esercitasse un diritto di proprietà e non il denaro che avesse formato oggetto di un deposito in conto corrente bancario, atteso che in tal caso la proprietà del denaro appartiene alla banca ed il cliente è titolare di un semplice diritto di credito[1].

* Massima non ufficiale

[1] Così, testualmente, Cass. Civ. Sez. 5, Sentenza n. 19160 del 15/12/2003 (conforme Cass. Civ. n. 8198/2011)

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