E’ illegittimo il recesso del socio se la durata della S.p.A. supera l’aspettativa di vita del socio
di Eleonora Giacometti, Avvocato Scarica in PDFParole chiave: recesso del socio – società per azioni – durata della società – exit del socio di minoranza
Massima: “Il socio di una società per azioni costituita per una durata pari a 105 anni non può recedere dalla stessa a norma dell’art. 2437, comma 3, c.c., non potendo tale ipotesi essere equiparata a quella di una società per azioni costituita a tempo indeterminato.”.
Disposizioni applicate: artt. 2437 c.c., 2473 c.c.,
Con la sentenza in esame il Tribunale delle Imprese di Milano si è pronunciato in merito al diritto di recesso del socio di una società per azioni, ai sensi dell’art. 2437 c. 3° c.c., nell’ipotesi in cui la società sia costituita per un termine particolarmente lungo.
Nel caso di specie, il socio di una S.p.A. costituita nel 1995 con termine di durata fino al 31 dicembre 2100 ha sostenuto la legittimità del proprio recesso, affermando l’assimilabilità della suddetta durata ad una durata illimitata, a tempo indeterminato, e la conseguente applicabilità dell’art. 2473 c. 3° c.c. secondo cui “se la società è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con il preavviso di almeno centottanta giorni”.
A sostegno della propria tesi, il socio ha richiamato orientamenti dottrinali e giurisprudenziali ed, in particolare, il precedente, pronunciato dalla Corte di Cassazione in tema di S.r.l. ma applicabile anche alle S.p.A. (stante l’analoga previsione di cui all’art. 2473 c.c.), in base al quale “in tema di società a responsabilità limitata, la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo (nella specie, l’anno 2100), tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, ne determina l’assimilabilità ad una società a tempo indeterminato, onde, in base all’art. 2473 cod. civ., compete al socio in ogni momento il diritto di recesso, sussistendo la medesima esigenza di tutelarne l’affidamento circa la possibilità di disinvestimento della quota” (Cass. Civ. Sent. n. 9962/2013).
Tale orientamento della Corte di Cassazione non è però stato condiviso dal Tribunale di Milano che, pur riconoscendo il favor riservato dalla riforma del diritto societario del 2003 all’istituto del recesso del socio di una società di capitali, ha ritenuto di non poter estendere l’applicabilità delle norme in tema di recesso al di fuori delle ipotesi specificamente previste dalla legge, trattandosi di un istituto comportante la possibilità di un depauperamento della società, rispetto al quale va sempre preferita una interpretazione restrittiva.
Ciò anche per il fatto che la valutazione della ragionevolezza o meno del termine di durata di una società non deve risolversi in un apprezzamento del tutto discrezionale dell’interprete, che sarebbe incompatibile con le esigenze di interpretazione oggettiva delle clausole statutarie, essendo infatti inopponibili ai terzi gli “elementi negoziali e le vicende dei relativi rapporti societari che non siano ostensibili tramite l’accesso al Registro delle imprese e, nello specifico, non risultino esplicitati nello statuto” (ex art. 2193 c.c.).
Nel caso di recesso, i terzi interessati a tale vicenda sarebbero infatti i creditori della società, la cui garanzia generica, rappresentata dal capitale sociale, risulterebbe diminuita laddove si ammettesse la legittimità del recesso di un socio con conseguente liquidazione della sua quota.
Pertanto, secondo il Tribunale di Milano, non essendo ricavabile dal nostro sistema normativo un parametro oggettivo predefinito per la valutazione di abnormità della durata statutaria (non potendo essere tale la durata media della vita di un socio-persona fisica, né l’oggetto sociale normalmente riferito ad attività imprenditoriali suscettibili di sviluppo per un tempo indeterminabile), le norme in tema di recesso devono essere interpretate in modo restrittivo.
Più flessibile, al riguardo, sembra invece essere il più recente orientamento della Corte di Cassazione che, nel valutare l’abnormità o meno di una durata statutaria fissata al 2050, ha osservato che tale durata supererebbe “non la ragionevole data di compimento del progetto imprenditoriale (come affermato nella pronuncia n. 9662/2013), ma unicamente l’aspettativa di vita ovvero la durata media di vita del socio-persona fisica: circostanza, questa, del tutto irrilevante”; in tal modo, la Corte sembrerebbe concedere uno spazio maggiore alla potenziale legittimità di un recesso parametrato, appunto, sulla data di compimento del progetto d’impresa (come, ad esempio, il recesso da una società con durata pluricentenaria, avente quale oggetto esclusivo la ristrutturazione e la vendita di un unico immobile specificamente individuato).