Il procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo
di Carlo Cipriani Scarica in PDF
La Corte di cassazione si pronuncia, per la prima volta, sul controverso art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, stabilendo a quale parte del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo spetti l’onere di esperire il tentativo di mediazione. Si tratta di una decisione che gli operatori del diritto attendevano da tempo. Essa dovrebbe, infatti, favorire il consolidamento di un’uniforme interpretazione sul punto da parte dei nostri giudici, mettendo così finalmente al riparo l’avvocatura dai pericolosi disorientamenti della giurisprudenza di merito.
La Corte di cassazione, con la sentenza Cass. 3 dicembre 2015, n. 24629, ha statuito che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’onere di esperire il tentativo di mediazione va posto a carico del debitore opponente. Prima di esaminare la decisione della Suprema Corte pare opportuno riepilogare sinteticamente i termini della questione.
L’art. 5 d.leg. n. 28/2010 prevede che l’omesso esperimento della mediazione prevista ex lege (comma 1 bis) o disposta dal giudice (comma 2) comporta l’improcedibilità della «domanda giudiziale». L’art. 5 del d.leg. cit., prescrive, inoltre, che, dal preventivo esperimento della mediazione, devono essere esentati i «procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione» (comma 4, lett. a).
Sennonché, la normativa appena richiamata non chiarisce su quale parte incomba l’onere di esperire il tentativo di mediazione nell’ipotesi in cui, instaurato dall’ingiunto il giudizio di opposizione a d.i., siano stati emessi dal Giudice i provvedimenti sulle istanze ex artt. 648 e 649 c.p.c.
Prima dell’intervento della Cassazione, si sono consolidate, nella giurisprudenza di merito, due contrapposte interpretazioni.
Secondo una prima interpretazione, minoritaria, l’onere di esperire la mediazione nel giudizio di opposizione deve essere posto a carico del creditore opposto. Pertanto, nell’ipotesi di mancata attivazione della mediazione, l’improcedibilità colpirebbe la «domanda giudiziale» originariamente proposta in via monitoria, determinando la revoca del decreto ingiuntivo (cfr. Trib. Ferrara 4 novembre 2015; Trib. Firenze 12 novembre 2015; in dottrina, Tedoldi, Mediazione obbligatoria e opposizione a decreto ingiuntivo, in Giur. it., 2012, 2620).
Tale interpretazione fa leva principalmente sul dato letterale dell’art. 5, 1° comma, d.leg. n. 28/2010 che pone la condizione di procedibilità «a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione».
Gli è che, nell’opposizione a d.i., chi agisce in giudizio non è l’opponente debitore il quale – eccezion fatta per l’ipotesi agisce in riconvenzionale – non propone in giudizio alcuna domanda ma si limita a resistere all’iniziativa processuale portata avanti dal creditore; ciò sulla base, del consolidato orientamento per il quale per effetto dell’opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti in giudizio, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l’opponente quella di convenuto.
In secondo luogo, si è sostenuto che tale interpretazione avrebbe il vantaggio di non lasciare alla discrezionalità della parte creditrice la possibilità di addossare sull’ingiunto anche l’onere di mediazione.
L’opponente, infatti, dopo aver subito l’ingiunzione in assenza di contraddittorio, si vedrebbe pure costretta ad esperire un tentativo di mediazione che non sarebbe a lei spettato, qualora la domanda giudiziale fosse stata proposta in via ordinaria.
Una seconda interpretazione, maggioritaria, si è espressa in senso contrario, ritenendo che l’onere di esperire il tentativo di mediazione, nel giudizio di opposizione a d.i., debba spettare al debitore opponente. Pertanto, in caso di mancata attivazione della mediazione, l’improcedibilità colpirebbe solo il giudizio di opposizione e non il decreto ingiuntivo che, anzi, si consoliderebbe divenendo definitivo (cfr. Trib. Nola, 24.2.2015; Trib. Monza, I sez., 2.3.2015, est. Mariconda; Trib. Monza, I sez., 31.3.2015, est. Mariconda; Trib. Bologna, II sez. 13.6.2015, est. Costanzo; Trib. Genova, III sez., 15.6.2015, est. Bellingeri; Trib. Monza, I sez., 2.7.2015, est. Mariconda; Trib. Chieti 8.9.2015, est. Ria; in dottrina, v. Lupoi, Rapporti tra procedimento di mediazione e processo civile, in judicium.it; Balena, Istituzioni di diritto processuale civile4, II, Bari, 2015, 28).
Tale seconda interpretazione si fonda sulle seguenti argomentazioni:
(i) il procedimento monitorio non richiede il previo passaggio in mediazione (art. 5, 4 comma), che è invece previsto solo in caso di opposizione; dunque, l’improcedibilità non potrebbe che colpire solo il giudizio di opposizione, considerato che il debitore opponente è la sola parte avente interesse a coltivare detto giudizio;
(ii) la tesi contraria, secondo cui l’improcedibilità, verificatasi nel corso del giudizio di opposizione e comunque successivamente alla pronuncia sulle istanze ex artt. 648 e 649 c.p.c., dovrebbe comportare la caducazione del decreto ingiuntivo introdurrebbe un regime speciale di improcedibilità postuma, non prevista dal nostro ordinamento;
(iii) per quanto l’opposizione a d.i. costituisca un ordinario giudizio di cognizione di primo grado, è innegabile che esso presenti alcuni caratteri tipici dell’impugnazione; infatti, è sull’ingiunto che grava l’onere di proporre tempestivamente l’opposizione (641 c.p.c.), di costituirsi (647 c.p.c.) e di evitare che il giudizio di opposizione si estingua (art. 653 c.p.c.) se vuole impedire che il decreto ingiuntivo si consolidi.
Tali norme evidenziano la sussistenza di un principio di c.d. stabilità del decreto ingiuntivo. Orbene, in questo contesto sistematico, pare illogico sostenere che l’improcedibilità del giudizio di opposizione debba comportare la caducazione anche del decreto ingiuntivo, tanto più quando tale provvedimento sia stato già dichiarato provvisoriamente esecutivo (642-648 c.p.c.);
(iv) l’opposta interpretazione finirebbe inoltre irragionevolmente per contrastare proprio con le finalità deflattive che sono alla base del d.leg. n. 28/2010. Essa implicherebbe, infatti, un inutile spreco di attività processuale riguardante tutta l’attività compiuta dal giudice fra il deposito del decreto ingiuntivo e la declaratoria di improcedibilità dell’opposizione (ivi inclusa la pronuncia sulle istanze ex artt. 648 e 649 c.p.c.). E ciò in quanto, qualora l’improcedibilità colpisse il decreto ingiuntivo, il creditore, nella normalità dei casi, procederà a riproporre ex novo la domanda monitoria, determinando un più che probabile nuovo giudizio di opposizione e dunque, una duplicazione di processi a fronte della medesima questione.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 24629/2015, ha risolto il citato contrasto giurisprudenziale, aderendo a detto secondo orientamento e onerando l’opponente di esperire il tentativo di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda. La Corte interpreta l’art. 5 d.leg. n. 28/2010 conformemente alla sua ratio e, dunque, alla luce del principio costituzionale di ragionevole durata del processo e in funzione dell’efficienza processuale.
La norma – afferma la S.C. – attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira a rendere il processo l’extrema ratio. Per questo, atteso che il creditore – optando per l’azione in via monitoria – ha già scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale, è solo il debitore ad aver il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, «cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore». E’, dunque, su quest’ultimo che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria.
Si tratta di una sentenza che merita piena adesione, non solo perché condivisibile nelle argomentazioni e nella soluzione prospettata, ma anche perchè dovrebbe favorire il consolidamento di un’uniforme interpretazione sul punto da parte della giurisprudenza di merito.
In secondo luogo, la S.C., interpretando l’art. 5 d.lgs. n. 28/2010 conformemente alla sua ratio e individuando il soggetto onerato nella parte che ha il potere e l’interesse al giudizio, ha forse fornito la chiave di lettura delle altre ipotesi previste dal legislatore in cui l’obbligo di dar vita al procedimento di mediazione diviene attuale solo nella eventuale fase a cognizione piena. E così, ad esempio, nel procedimento di convalida di sfratto, in caso di ordinanza di rilascio con riserva delle eccezioni dell’intimato (art. 667 c.p.c.), graverà solo su quest’ultimo (in assenza di altre domande della parte intimante), quale parte interessata alla prosecuzione della fase a cognizione piena, l’onere di esperire la procedura di mediazione. Inoltre, la eventuale declaratoria d’improcedibilità travolgerà la sola fase a cognizione piena e non l’ordinanza di rilascio.
Da ultimo, è probabile che la chiave interpretativa fornita dalla Suprema Corte possa condizionare il dibattito intorno agli effetti del mancato esperimento del procedimento di mediazione che fosse disposto dal giudice in sede d’appello (art. 5, 2° comma). Anche in appello, infatti, la «procedibilità della domanda giudiziale» è subordinata all’esperimento della mediazione. Sicché, alla luce dell’orientamento della S.C., l’ordine del giudice dovrebbe essere posto a carico dell’appellante – che ha il potere e l’interesse all’impugnazione – e l’eventuale inosservanza dovrebbe determinare l’improcedibilità dell’appello, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, e non della domanda originariamente proposta.
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