Fusione per incorporazione: rapporto di cambio e diverse categorie di azioni
di Mario Cascavilla Scarica in PDFCass. Civ. n. 7920 del 20 aprile 2020
Parole chiave: concambio –– fusione per incorporazione –– parità interna –– diritti diversi –– progetto di fusione
Massima: “nel caso di fusione per incorporazione, il rapporto di cambio tra azioni di risparmio della società incorporata e azioni ordinarie della società incorporante deve calcolarsi tenendo conto che il valore delle prime non è necessariamente coincidente con quello delle azioni ordinarie della stessa incorporata, giacché il valore delle azioni di risparmio, che può essere desunto dalle quotazioni di mercato dei titoli, è funzione dei diritti, non solo di natura patrimoniale, ma anche di natura amministrativa, conferiti dalle azioni in questione”.
Disposizioni applicate: art. 2501 sexies c.c. – art. 2501 ter c.c. – art. 2437 ter c.c. – art. 2441 c.c.
Nell’ambito di una operazione di fusione per incorporazione – ossia quella operazione con la quale si raggiunge il risultato dell’unificazione dei patrimoni di ciascuna delle società partecipanti e la confluenza dei soci in un’unica struttura organizzativa – il rapporto di concambio rappresenta il numero di azioni o quote della società derivante dalla fusione che vengono assegnate, in luogo della loro partecipazione originaria, ai soci della società che si estingue.
Ai fini del calcolo del rapporto di cambio, il codice civile non fornisce uno specifico metodo matematico ma si limita a prescrivere, all’art. 2501 sexies c.c., soltanto che tale rapporto deve risultare “congruo”. È possibile affermare che non esiste un rapporto di cambio unico, esatto, bensì una pluralità di possibili concambi, i quali, entro un ragionevole range di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista legislativo.
Il compito di definire il rapporto di cambio è dal legislatore assegnato agli amministratori dell’una e dell’altra società coinvolte nella fusione. Come prevede l’art. 2501 sexies c.c., gli amministratori, prima che l’operazione avvenga, sono chiamati a redigere una relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote e le risultanti determinazioni sono soggette a controllo solo in caso di scelta arbitraria, o adottata sulla base di dati non veritieri o incompleti.
La Corte di Cassazione, nella pronuncia si commenta, si preoccupa di stabilire se sia consentito agli amministratori anche la facoltà di attribuire valore diverso ad azioni di diverse categorie emesse dall’incorporata.
Il caso di specie ha origine all’esito di una operazione di fusione tra due società, su iniziativa di un socio della società dell’incorporata. Questo ha lamentato di avere sofferto, all’esito dell’operazione, una ingiustificata alterazione, in senso peggiorativo, della misura della propria partecipazione nella società incorporata poiché il rapporto di cambio sarebbe stato definito attribuendo alle azioni di risparmio, di sua titolarità, un valore inferiore rispetto a quello assegnato alle azioni ordinarie della medesima società.
L’incorporante è risultata vincitrice nei primi due gradi di giudizio, argomentando che, avendo la società incorporata emesso azioni di diverse categorie, fornite di diritti diversi, sarebbe stato lecito adottare un diverso criterio di valutazione del loro valore.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla sopra accennata questione, affronta la problematica osservando anzitutto che la disciplina giuridica della fusione non contiene disposizioni che postulino la necessità di assegnare alle diverse categorie di azioni il medesimo rapporto di cambio.
È d’altra parte da ritenere corretto che, in presenza di diverse categorie di azioni, sia necessario determinare il rapporto di cambio mediante una duplice operazione: (i) la prima, consistente nel fissare la c.d. parità interna delle azioni, con la quale si definisce il rapporto di valore tra le diverse tipologie di titoli della società incorporata e (ii) la seconda, che consiste nel definire la c.d. parità esterna, cioè la stima del concambio tra le azioni ordinarie della società incorporata e le azioni ordinarie della società incorporante, così come quella tra le azioni di risparmio dell’incorporata e le azioni ordinarie dell’incorporante.
Tra le due, quella che rappresenta l’operazione di maggior rilievo per poter definire se sia possibile, in concreto, differenziare il rapporto di cambio tra diverse categorie di azioni, è quella volta a fissare la parità interna.
L’operazione in discorso deve essere eseguita, secondo la Corte, determinando in primo luogo il valore della specifica tipologia di titolo sulla base del suo valore di mercato[1], che rappresenta un valore che, normalmente, è funzione dalla diversità dei diritti che lo stesso titolo incorpora; si badi bene, però, che i diritti incorporati che rilevano nella stima del valore di mercato del titolo non sono solamente quelli di natura patrimoniale ad esso riferibili, come quelli aventi ad oggetto gli utili e la quota di liquidazione ex art. 2350 c.c., bensì anche i diritti di tipo amministrativo e, in particolare, il diritto di voto ex art. 2351 c.c..
Se, allora, un’omogeneità tra i diritti assegnati alle diverse tipologie di azioni dovrebbe portare ad una omogenea determinazione del rapporto di cambio tra le stesse e le azioni della società incorporante (per l’ovvia conseguenza che si sarà accertato che le azioni hanno il medesimo valore di mercato), la loro disomogeneità, come detto derivante dalla diversità di diritti ad esse assegnate, porterà alla determinazione di un rapporto di cambio differenziato (stante l’accertamento del loro diverso valore di mercato).
Ed in effetti, nel caso di specie, la Corte ha potuto rilevare come l’azione di risparmio dell’incorporata non assegnasse al suo titolare un diritto di voto, diritto che invece veniva assegnato al titolare dell’azione ordinaria (sempre dell’incorporata, s’intende). Conseguentemente, nella definizione della parità interna, la disomogeneità dei diritti avrebbe ben potuto comportare una differenziazione del valore tra le due diverse tipologie di azioni, con sbilanciamento a favore delle azioni ordinarie. Anzi, stabilire il rapporto di cambio tenendo conto della diversa consistenza dei diritti connaturati alle diverse categorie non è solo una facoltà, ma un’attività doverosa che gli amministratori devono compiere per non incorrere in arbitrio.
[1] Che il parametro di determinazione del valore di mercato di un titolo debba essere il suo valore di mercato è non solo il canone di ragionevolezza a richiederlo, ma è lo stesso codice a prevederlo. Ad opinione dei giudici di legittimità, infatti, esso è desumibile dalle seguenti norme:
a) 2501 ter, che al comma 1, n. 7, precisa che dal progetto di fusione deve risultare anche “il trattamento eventualmente riservato a particolari categorie di soci e ai possessori di titoli diversi dalle azioni”;
b) 2437 ter c.c., sui criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso del socio, che impone, salvo diverse disposizioni statutarie, di liquidare le azioni quotate sui mercati regolamentati facendo riferimento alla media dei prezzi di chiusura delle medesime nell’ultimo semestre;
c) 2441 c.c., sul diritto di opzione in caso di nuove emissioni di azioni o di obbligazioni convertibili, che prescrive di tener conto, nel prezzo delle azioni quotate, oltre che del patrimonio netto, anche dell’andamento delle quotazioni per lo stesso arco di tempo.