Funzione di origine e decettività sopravvenuta del marchio
di Daniele Caponetto, AvvocatoNiccolò Ferretti, Avvocato Scarica in PDFCome noto, una delle funzioni del marchio registrato è quella di consentire al pubblico di collegare i prodotti forniti o i servizi prestati all’impresa che ne è titolare. Si parla, al riguardo, di funzione di indicazione di origine o provenienza imprenditoriale del marchio.
In seguito a vari interventi legislativi, ormai non troppo recenti, tale funzione di indicazione di origine è stata ridimensionata. Infatti, sono ora consentite delle deroghe al principio, in passato imposto dalla legge, secondo cui il marchio era inscindibilmente legato all’impresa che lo ha registrato. Per esempio, al titolare del marchio è attribuita oggi la facoltà di cederlo separatamente dall’azienda, od anche di concedere una licenza d’uso non esclusiva.
In caso di cessione del marchio il titolare si priva della titolarità dello stesso, attribuendola esclusivamente a uno o più soggetti a lui estranei, mentre in caso di licenza, pur mantenendo la sua titolarità, consente (anche) ad altri di farne uso, per contraddistinguere i loro prodotti o servizi. In caso di licenza non esclusiva, di fatto, il medesimo segno viene usato da più aziende per beni e/o servizi del medesimo genere.
Senonché, situazioni simili potrebbero creare confusione presso il pubblico riguardo la provenienza dei prodotti o servizi. Oltretutto i licenziatari, soprattutto nell’ipotesi di licenze non esclusive, in mancanza di specifici accordi, potrebbero addirittura mettere in commercio beni di qualità tra loro diversa, se pur marchiati con il medesimo segno distintivo, generando inganno presso il pubblico.
Per ovviare a questo rischio il legislatore italiano ha previsto un insieme di norme, che nel loro complesso disciplinano quello che la dottrina e la giurisprudenza hanno battezzato come “statuto di non decettività”. Compongono questo nucleo di norme gli articoli i seguenti articoli del Codice della Proprietà Industriale (d.lgs 30/2005 o C.P.I.): art. 21, comma 2, che vieta l’uso ingannevole del marchi; art. 14, che vieta la registrazione di segni idonei ad ingannare il pubblico e che prevede la decadenza del marchio, che sia diventato idoneo (dopo la registrazione) ad ingannare il pubblico circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi per cui è usato; ed infine art. 23, comma 4, che prescrive che dalla cessione o licenza del marchio non debba derivare inganno per il pubblico.
La giurisprudenza, anche comunitaria, interpretando tali norme, ha spesso ribadito la necessità di tutela dei consumatori dagli inganni che potrebbero sorgere da usi del marchio in contrasto con la legge. La casistica relativa alla sopravvenuta ingannevolezza del marchio rimane ad oggi piuttosto limitata.
Comprendere quando dalla cessione o dalla licenza può derivare inganno per il pubblico non è sempre agevole. Una recente pronuncia della Cassazione è intervenuta a riguardo occupandosi del rischio per il pubblico di cadere in inganno in seguito alla cessione di un marchio patronimico, costituito, cioè, dal nome anagrafico di un soggetto.
In virtù di un accordo transattivo avvenuto nel 2006 tra lo stilista Alviero Martini e la Alviero Martini s.p.a., società da lui stesso fondata, da cui poi questi è fuoriuscito, il designer cedeva alla società anche l’uso del marchio patronimico “Alviero Martini Prima Classe”.
In seguito al predetto accordo, il designer continuava ad usare autonomamente il proprio nome e cognome sui prodotti da egli commercializzati attraverso altra società nell’ambito del marchio “ALV by Alviero Martini”. Contestava però i modi in cui la società cessionaria, l’Alviero Martini s.p.a., usava il marchio ceduto. Giunti a contenzioso, la Corte d’Appello di Milano, confermando quanto stabilito dal giudice di prime cure, aveva respinto le domande avanzate dallo stilista, che lamentava l’inadempimento del predetto accordo da parte della cessionaria. Nello specifico, secondo la tesi di parte attrice, l’inadempimento della società cessionaria sarebbe consistito nella mancata pubblicazione della notizia del trasferimento del marchio, con un conseguente rischio di inganno per il pubblico, che sarebbe stato indotto a ritenere ancora sussistente, anche dopo l’uscita del Martini dalla società, il legame tra questi e i prodotti contraddistinti dal marchio che recava il suo nome. Nei giudizi di merito, la società convenuta aveva però dimostrato che la notizia del trasferimento del marchio era stata adeguatamente resa nota e che non sussisteva alcun rischio di inganno per il pubblico. Sul punto, le pronunce di merito sono state infine confermate anche dalla Corte di Cassazione, che ha, in sostanza, escluso l’inadempimento contrattuale.
In aggiunta, Alviero Martini aveva richiesto, sia in Tribunale che in Appello, anche la pronuncia di decadenza del marchio usato dalla società per ingannevolezza sopravvenuta. Invocando l’art. 14 C.P.I. che, come accennato, prevede, tra i vari casi, la decadenza del marchio divenuto idoneo a ingannare il pubblico circa la qualità dei prodotti per cui è usato. Nello specifico lo stilista lamentava un peggioramento della merce in seguito alla cessione del marchio.
La Corte d’Appello aveva escluso l’ingannevolezza sopravvenuta perché: (i) la produzione successiva all’uscita dello stilista era avvenuta sotto il marchio “Alviero Martini Prima Classe”, e non del solo patronimico; (ii) la cessione era stata ampiamente pubblicizzata (iii) l’accordo del 2006 non imponeva un obbligo di mantenimento della qualità, o un suo controllo o sindacato da parte dello stilista cedente.
La Suprema Corte, con ordinanza n. 20269 del 23 giugno 2022, ha stabilito che in tema di cessione di marchio patronimico, l’art. 14, comma 2, lett. a), del c.p.i. (…), implica non semplicemente che si stabilisca l’eventualità di un peggioramento purchessia dei livelli qualitativi dei prodotti contraddistinti, ma che sia accertata una relazione eziologica col modo e col contesto in cui il marchio viene utilizzato dal nuovo titolare; l’accertamento di tali profili – il modo e il contesto -, e della stessa relazione eziologica, è questione di fatto, e il relativo giudizio, se debitamente motivato, resta sottratto al sindacato di legittimità.
In sostanza, ceduto il marchio e resa nota questa circostanza al pubblico, il pubblico non è più legittimato a collegare il marchio allo stilista cedente, né i prodotti al marchio originario.
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