Fatti di bancarotta e scritture contabili: la Suprema Corte cassa con rinvio perché i bilanci “inattendibili” non possono costituire prova delle avvenute distrazioni
di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDFCorte di Cassazione, V Sezione Penale, Sentenza n. 15789/2019 del 19 marzo 2019 (pubblicata il 10 aprile 2019)
Parole chiave: bancarotta fraudolenta patrimoniale – amministratore unico – distrazione patrimoniale – cassa – ammontare distrazioni – efficacia probatoria delle scritture contabili – inattendibilità
Massima: “Deve essere cassata con rinvio la sentenza d’appello che condanna l’amministratore della società per bancarotta fraudolenta patrimoniale per aver distratto dalla cassa della società la differenza fra l’importo risultante dalla situazione patrimoniale e la somma materialmente rinvenuta dal curatore fallimentare laddove la stessa sentenza che dichiara il fallimento evidenzia l’inattendibilità della voce “disponibilità di cassa” nelle scritture contabili mentre la responsabilità per il delitto di bancarotta per distrazione richiede l’accertamento della previa disponibilità, da parte dell’imputato, dei beni non rinvenuti in seno all’impresa”
Disposizioni applicate: art. 87 e 223 L.F. – artt. 2710 e 2740 c.c. – art. 192 c.p.p..
La Quinta Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 15789 del 19 marzo 2019, si è pronunciata sul reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e sull’efficacia probatoria delle scritture contabili societarie, laddove queste ultime siano incomplete o comunque prospettino una situazione patrimoniale inattendibile.
Ben si comprende, infatti, come una regolare e corretta tenuta dalla contabilità aziendale svolga un ruolo fondamentale nella vita della società sia nel momento, per così dire, fisiologico al fine di rappresentare ai soci, ma anche ai terzi e al mercato, lo “stato di salute” patrimoniale e reddituale di quest’ultima; sia – e ancor di più – nel momento “patologico” (stato di crisi ed eventuale fallimento) per ricostruire il patrimonio societario, le operazioni e soprattutto le dinamiche che hanno condotto al dissesto. Infatti, la dichiarazione di fallimento costituisce l’evento con il quale si “cristallizzano” e consumano eventuali condotte illecite perpetrate da parte delle figure apicali (organo amministrativo, amministratori delegati, direttori generali ecc.) con conseguenti possibili censure sia in termini di responsabilità civilistiche sia soprattutto in termini di reati fallimentari (bancarotta e così via).
I bilanci (e le altre scritture contabili) – in ragione della funzione assolta di rilevazione e rappresentazione, fra l’altro, della situazione di salute patrimoniale e finanziaria della società – sono dotati di un ruolo probatorio “previlegiato” per quanto concerne le vicende societarie, senza assurgere tuttavia a prove legali, essendo soggetti in ogni caso al libero apprezzamento da parte del Giudice (art. 116 c.p.c.) (cfr. ex multis Cassazione 25 ottobre 2018 n. 30516). Con la conseguenza che il soggetto che li ha prodotti in giudizio resterà diversamente onerato, mediante ulteriori e diversi strumenti probatori (cfr. in proposito, recentemente Cassazione 23 novembre 2018 n. 30516).
Orbene, anche in materia di reati fallimentari commessi dalle figure apicali (nel caso di specie: bancarotta fraudolenta patrimoniale) una corretta e completa tenuta della contabilità nonché una rappresentazione veritiera dei fatti contabili sono la base per ricostruire il perimetro del patrimonio sociale e per relationem l’ammontare degli ammanchi, tant’è vero che in linea generale il calcolo del quantum delle distrazioni, di regola, si effettua dal raffronto fra la “cassa” così come risultante dalle voci bilancistiche (e dalle altre scritture) e quella effettivamente rinvenuta dal curatore al momento del fallimento. Si ricorda infatti che allorquando risulti che la figura apicale abbia compiuto dei prelievi extracontabili (ossia non annotati nella contabilità ufficiale), incombe sulla stessa, ai sensi dei principi generali, l’onere di fornire debita giustificazione, motivazione e prova della finalità sociale – e non invece personale ovvero extrasociale – del prelievo stesso (cfr. ex multis Cassazione 11 novembre 2010 n. 22911). In altre parole, secondo la Giurisprudenza, “pare evidente che la responsabilità della cassa grava sull’amministratore, sicché su di lui incombe l’onere di provare che le somme che, secondo la contabilità sociale, avrebbero dovuto costituire il saldo cassa ed invece non reperite al momento del fallimento, fossero comunque state utilizzate per scopi sociali” (cfr. Cassazione 16 giugno 2016 n. 12454).
Nella fattispecie posta all’attenzione della Quinta Sezione della Suprema Corte l’amministratore unico di una S.r.l., dichiarata fallita, proponeva ricorso nei confronti della sentenza della Corte territoriale – confermativa di quella di primo grado – che lo aveva ritenuto responsabile dei fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per aver distratto dalle casse sociali ingenti somme di denaro.
Nel dettaglio, la società era stata dichiarata fallita in data 1 luglio 2009 e la situazione patrimoniale al 3 luglio 2009 rappresentava “disponibilità liquide” per decine di migliaia di euro, ma pochi giorni più tardi il Curatore nominato avrebbe rinvenuto nelle casse sociali solo poche centinaia di euro.
Avverso la sentenza di secondo grado, di conferma della condanna, l’amministratore unico della società ricorreva per Cassazione, evidenziando, in buona sostanza, come la Corte d’Appello avesse travisato la situazione contabile della società, della quale il ricorrente aveva prodotto in giudizio una nota esplicativa, finalizzata “a dimostrare … agli organi fallimentari che il bilancio in possesso degli stessi non era completo, nonché l’inattendibilità o incertezza dell’importo imputato come oggetto di appropriazione, alla luce del confronto tra la sentenza dichiarativa di fallimento e le mere scritture contabili”.
La Quinta Sezione, con la sentenza in commento, rileva subito come la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni di proprietà della società fallita – fatti questi integranti il delitto di bancarotta per distrazione – possa “esser desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti, posto che la responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori … giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato” (cfr., conformi, Cassazione 22 settembre 2015 n. 8260; Cassazione 13 febbraio 2014 n. 11095).
Invero, pare opportuno ricordare come gravi sull’imprenditore sia la responsabilità per la conservazione della garanzia patrimoniale nei riguardi dei creditori (art. 2740 c.c.), sia l’obbligo di riferire il vero in sede di interpello da parte del curatore (art. 87 L.F.), circa la destinazione dei beni dell’impresa.
Alla luce di detti obblighi sarebbe giustificato, in caso di mancato rinvenimento dei beni aziendali o dei loro ricavati, l’inversione dell’onere della prova (ancorché solo apparante) a carico dell’amministratore della società imputato di bancarotta per distrazione.
Il principio sopra esposto, prosegue la Quinta Sezione, deve tuttavia coordinarsi con ulteriore accertamento prodromico – che costituisce finanche un presupposto logico – della responsabilità dell’amministratore per bancarotta, e ciò “indipendentemente da qualsiasi presunzione”, ossia quello della previa disponibilità, in capo alla società fallita, dei beni non rinvenuti al momento del fallimento.
Precisa la Corte che il detto accertamento della previa disponibilità da parte dell’imputato dei beni distratti “non può fondarsi sulla presunzione di attendibilità dei libri e delle scritture … dovendo invece le risultanze desumibili da questi essere valutate – soprattutto quando la loro corrispondenza al vero sia negata dall’imprenditore – nella loro intrinseca attendibilità … al fine di accertare la loro corrispondenza al reale andamento degli affari e delle dinamiche aziendali” (cfr. ex multis Cassazione 3 ottobre 2018 n. 55805).
Ad avviso della Cassazione, la Corte d’Appello non avrebbe fatto “buon governo” dei principi esposti avendo, in particolare, “affidato la prova della previa effettiva disponibilità, in capo alla fallita, delle somme oggetto dell’imputazione di bancarotta per distrazione al dato contabile, la cui attendibilità, tuttavia, era stata oggetto di censure da parte dell’appellante” (il quale, per inciso, in sede di gravame aveva in particolare citato espressamente un passaggio della sentenza dichiarativa di fallimento che evidenziava l’inattendibilità della voce relativa alla “disponibilità di cassa”).
Ebbene, osserva la Corte di Cassazione, la sentenza dichiarativa di fallimento aveva correttamente rilevato l’inattendibilità della voce contabile relativa alla disponibilità di cassa, stante da un lato la conclamata incapacità della società di pagare i propri debiti e dall’altro che l’unico conto corrente della società presentava un saldo negativo per alcune centinaia di migliaia di euro.
La Quinta Sezione ha così statuito per l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla competente Corte d’Appello, per un nuovo esame nel merito alla luce degli esposti principi.