Fallimento della parte: interruzione del processo e decorrenza del termine per la riassunzione
di Fabio Cossignani Scarica in PDFL’ultimo comma dell’art. 43 l. fall. – disponendo che «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo» – ha introdotto una peculiare ipotesi di interruzione automatica del giudizio in cui è parte il soggetto dichiarato insolvente. Sorge così il rischio che, ignorando l’evento, la parte interessata alla prosecuzione incorra in una decadenza incolpevole. Di qui la ricerca di soluzioni interpretative garantiste, sia per la controparte del fallito sia per il curatore, in un quadro giurisprudenziale ancora assai variegato e incerto.
Con la riforma della legge fallimentare del 2006-2007 è mutata anche la disciplina dei processi pendenti alla data di dichiarazione di fallimento.
In particolare, a differenza di quanto accadeva in precedenza, ai sensi dell’attuale art. 43, ult. co., l. fall. l’effetto interruttivo opera di diritto dal momento stesso in cui viene pubblicata la sentenza dichiarativa di fallimento, anche quando il fallito sta in giudizio a mezzo di un difensore.
L’obiettivo di tale innovazione è la rapida sostituzione del fallito col curatore, ma lo scopo non può dirsi raggiunto, tenuto conto degli inconvenienti cui la disposizione dà luogo.
A scanso di equivoci, va detto innanzitutto che l’interruzione, di regola, prelude alla prosecuzione del giudizio.
Tuttavia, nell’ambito fallimentare tale regola subisce una deroga quando si tratta di cause passive che pendono in primo grado (anche se di opposizione a decreto ingiuntivo). In tal caso, infatti, i creditori che intendono soddisfarsi sul patrimonio del fallito hanno l’onere di proporre domanda di insinuazione al passivo (art. 52, co. 2, l. fall.). Il processo interrotto dovrebbe considerarsi improseguibile, salva la predicabilità di una prosecuzione straordinaria nei confronti dello stesso fallito ai soli fini extrafallimentari (cfr. art. 96, ult. co., l. fall.).
Possono invece proseguire i giudizi passivi già definiti con sentenza. Ad esempio, il curatore che non voglia ammettere il credito accertato dalla sentenza può proporre impugnazione o coltivare quella già in corso (art. 96, co. 2, n. 3, l. fall.).
Di sicuro, poi, possono essere proseguite le cause aventi ad oggetto un credito del fallito ovvero le revocatorie ordinarie. Con esse si tutela l’attivo fallimentare.
Quindi, il curatore ha, di regola, interesse a che si giunga alla pronuncia della sentenza. Quando tali controversie pendono in grado di impugnazione, l’interesse seguirà il soggetto rimasto soccombente nel grado precedente.
L’inconveniente della nuova disciplina consiste in ciò, che come tutte le ipotesi di interruzione automatica, anche l’art. 43 l. fall. rischia di generare estinzioni cd. ‘misteriose’.
In altre parole, l’evento interruttivo (la dichiarazione di fallimento) potrebbe essere ignorato dal soggetto interessato alla continuazione del giudizio. La decadenza incolpevole dal termine di tre mesi fissato dall’art. 305 c.p.c. per la riassunzione/prosecuzione potrebbe quindi determinare la chiusura in rito del processo, con il possibile passaggio in giudicato della sentenza resa nel grado precedente quando si tratti di estinzione del giudizio di impugnazione.
Di qui l’intervento della giurisprudenza, anche e soprattutto costituzionale (v. C. cost., 21 gennaio 2010, n. 17), la quale ha precisato che il combinato disposto degli art. 43, ult. co., l. fall e 305 c.p.c. deve essere interpretato nel senso che il termine per la riassunzione del processo decorre, per la controparte del fallito, dal momento in cui questa ha avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo.
Sennonché, il termine di riassunzione, come visto, decorre automaticamente anche rispetto al curatore, soggetto destinato a sostituire il fallito nei suoi rapporti processuali e quindi interessato, in talune circostanze, a coltivare il giudizio interrotto.
La giurisprudenza ha in un primo momento escluso che a vantaggio della curatela si possa applicare il criterio della conoscenza effettiva. E ciò in ragione del fatto che il curatore ha per forza di cose conoscenza legale dell’evento interruttivo, ossia del fallimento. Da tale premessa si è fatto discendere che dalla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento inizi a decorrere il dies a quo del termine di riassunzione (Trib. Mantova, 2 ottobre 2012 e Trib. Roma, 8 marzo 2011, in Giur. it., 2013, 1368).
Contro questa opinione è facile obiettare che, se è vero che il curatore è a conoscenza dell’evento, potrebbe tuttavia ignorare incolpevolmente la pendenza del processo interrotto. Per tale ragione, autorevole dottrina reputa di poter applicare in tal caso l’istituto della rimessione in termini (art. 153 c.p.c.) (Consolo-Muroni, Amministrazione straordinaria e termine a quo dell’interruzione del processo e per la sua riassunzione, in Fallimento, 2009, 967).
Quest’ultima soluzione offre tutela alla curatela, ma in maniera differenziata rispetto alla controparte del fallito: la prima è ammessa al compimento dell’atto di impulso processuale previa dimostrazione della sussistenza dei presupposti della rimessione in termini; sulla seconda, invece, non grava un analogo onere, spettando viceversa all’avversario dimostrare che la conoscenza legale si è formata anteriormente al trimestre che ha preceduto il compimento dell’atto di riassunzione.
Anche al fine di evitare la contrarietà al canone di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., la più recente giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, sembra dirigersi verso una condivisibile reductio ad unitatem, applicando a tutte le parti interessate, quindi anche al curatore, la conoscenza legale come criterio individuatore del dies a quo del termine di riassunzione (Cass., 7 marzo 2013, n. 5650, in Dir. fall., 2014, II, 241; Trib. Padova, 28 ottobre 2013, in Pluris; Trib. Roma, 2 aprile 2014, ; Trib. Taranto, ord. 16 aprile 2015; in dottrina, di recente, Bettazzi, Segnali di uniformità nell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 43 l.fall., in Fallimento, 2014, 1205 ss.). Per il curatore si tratterà di conoscenza della pendenza del processo.
Ad ogni modo, la giurisprudenza risulta ancora in via di assestamento e non possono escludersi oscillazioni in senso opposto rispetto agli ultimi arresti citati. Peraltro, ad aggravare l’incertezza contribuisce la variegata declinazione pratica della nozione di conoscenza legale: tradizionalmente, questa è stata identificata con la conoscenza formatasi all’interno del processo interrotto mediante dichiarazione, comunicazione, certificazione o notificazione dell’evento. Ciononostante, diverse recenti pronunce hanno dilatato non poco la nozione, talvolta sostituendo la conoscenza legale con la conoscenza di puro fatto (cfr. le diverse opinioni espresse da Cass. n. 5650/2013 cit., Trib. Brescia, 8 gennaio 2013, Trib. Taranto, 27 marzo 2013, cit., e Trib. Reggio Calabria, 22 aprile 2013, tutte in Dir. fall., 2014, II, 241 ss.).