28 Settembre 2021

Fallimento della c.d. supersocietà di fatto e foro competente

di Giulio Marconcin, Avvocato Scarica in PDF

Cassaz., Sez. I, 22 febbraio 2021, n.4712. Pres. Cristiano – Rel. Terrusi

Parole chiave: Fallimento – Fallimento in estensione – Società – Supersocietà di fatto – Supersocietà di fatto tra società di capitali – Competenza per territorio – Tribunale che ha dichiarato il fallimento del socio

Massima

In tema di fallimento, l’art. 147, comma 5, l. fall., trova applicazione anche qualora il socio già fallito sia una società partecipe con altre società o persone fisiche ad una società di persone (cd. “supersocietà di fatto”), nel qual caso, in deroga all’art. 9 l. fall., la competenza alla dichiarazione di fallimento in estensione si radica presso il tribunale ove risulta già pendente la procedura concorsuale riguardante il socio, venendo in rilievo il principio di prevenzione sancito dai commi 4 e 5 dell’art. 147 anzidetto e dall’art. 40 c.p.c. e costituendo il fallimento della società, che sia socia illimitatamente responsabile, l’occasione per accertare anche la distinta insolvenza della supersocietà di fatto.

Disposizioni applicate

Art. 9 l. fall.; art. 147, commi 4 e 5, l. fall.; art. 148 l. fall.

Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione, dopo aver ribadito l’applicabilità della disciplina del fallimento in estensione anche al fenomeno della c.d. “supersocietà di fatto”, affronta il tema inedito dell’individuazione del foro territorialmente competente alla dichiarazione di fallimento, prendendo occasione dal conflitto negativo di competenza venutosi a creare tra due tribunali in relazione a una domanda di fallimento formulata dal curatore di una società di capitali che avrebbe partecipato, unitamente ad altre società, una presunta supersocietà di fatto.

Caso

L’intervento della Suprema Corte trae origine dal rigetto, da parte del Tribunale di Teramo, del ricorso con cui il curatore del fallimento di (OMISSIS) S.r.l., aperto in quella sede, aveva chiesto, ex art. 147, quinto comma, l. fall., l’estensione del fallimento nei confronti di altre società che avrebbero assieme partecipato, quali soci, una supersocietà occulta.

In particolare, il Tribunale teramano dichiarava la propria incompetenza a dichiarare il fallimento della presunta società occulta sul presupposto che il fallimento avrebbe dovuto essere pronunciato, ex art. 9 l. fall. (applicabile anche in caso di estensione), dal tribunale del luogo in cui la società di fatto aveva assunto le scelte direttive e strategiche relative a tutte le società che ne erano socie; luogo che, nel caso di specie, era da ravvisare nel foro di Ascoli Piceno.

Sennonché il Tribunale di Ascoli Piceno, ritenendosi a sua volta incompetente, promuoveva regolamento di competenza presso la Corte di Cassazione, sostenendo che il fallimento della supersocietà di fatto (e dei suoi soci) dovesse essere dichiarato, in ossequio al disposto di cui all’art. 147, quinto comma, l. fall., dal tribunale che aveva già dichiarato il fallimento di (OMISSIS) S.r.l.

Soluzione 

La Suprema Corte ha dichiarato la competenza del Tribunale di Teramo evidenziando, in particolare, che “la competenza alla dichiarazione del fallimento in estensione vada sempre rapportata al criterio di prevenzione, che serve a concentrare l’accertamento dello stato di insolvenza presso un unico tribunale”. Con la conseguenza che, nel caso di specie, la domanda – in base al combinato disposto degli artt. 147, quarto e quinto comma, l. fall. – avrebbe dovuto essere proposta presso l’ufficio ove risultava già pendente la procedura fallimentare di (OMISSIS) S.r.l.

Questioni applicate nella pratica

Come visto, la pronuncia in esame offre l’occasione di tornare nuovamente sul tema del fallimento della c.d. supersocietà di fatto sia pur sotto un profilo diverso e complementare, quale l’individuazione del giudice territorialmente competente a dichiararne lo stato di insolvenza in presenza di un conflitto negativo di competenza.

Benché non sia questa la sede opportuna per ripercorrere il ricco dibattito pluridecennale sviluppatosi sulla configurabilità della c.d. società di fatto e sulla sua fallibilità, sia qui sufficiente ribadire che a tale fattispecie si ritiene ora pacificamente applicabile – in via di interpretazione estensiva – la disciplina del fallimento in estensione dettata dall’art. 147, quinto comma, l. fall. (come modificato dal D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), anche nell’ipotesi in cui il socio di una società di capitali partecipi, unitamente ad altri (siano essi, a loro volta, società o persone fisiche) a una società di persone non registrata (sul punto, cfr. in particolare Cass. Civ. 20 maggio 2016, n. 10507, in Società, 2017, 163 ss., con nota di L. Abete; Cass. Civ. 13 giugno 2016, n. 12120, in Giur. comm., 2017, 645 ss., con nota di A. Jorio; Cass. Civ. 1° febbraio 2016, n. 1095, in Società, 2016, 453, con nota di F. Fimmanò, le quali hanno riconosciuto la validità di una società di persone occulta (o comunque irregolare ex art. 2297 cod. civ.) partecipata (per facta concludentia) da società di capitali, con conseguente applicabilità della disciplina sul fallimento in estensione).

Un’interpretazione, quella sopra citata, condivisa poi dalla Corte Costituzionale che, chiamata a pronunciarsi nel 2017, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, quinto comma, l. fall. (per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.) proprio in ragione della lettura estensiva della norma.

È dunque in questo quadro evolutivo che si colloca la diversa (ma complementare) tematica del foro competente a dichiarare il fallimento in estensione della supersocietà di fatto e dei suoi soci occulti.

Prima della riforma del diritto fallimentare, si distinguevano diversi criteri di risoluzione del conflitto di competenza nei casi in cui più tribunali apparivano astrattamente competenti a dichiarare il fallimento dello stesso socio. Situazione che poteva verificarsi, ad esempio, laddove il fallito era allo stesso tempo imprenditore individuale e socio di società avente sede in un luogo diverso da quello in cui lo stesso esercitava l’attività (personale) di impresa individuale.

Un primo orientamento risolveva il conflitto di competenza attraverso il criterio della continenza (o dell’accessorietà), in forza del quale il fallimento della società avrebbe attratto la procedura minore riguardante il singolo socio imprenditore individuale presso il proprio foro (così in particolare Cass. Civ. 26 gennaio 1995, n. 966, in Fallimento, 1995, 846; Cass. Civ. 1° marzo 1988, n. 2141, in Fallimento, 1988, 662; Cass. Civ. 23 febbraio 1985, n. 1616, in Dir. fall., 1985, 333; Cass. Civ. 16 luglio 1984, n. 4177, in Fallimento, 1984,

1402). In altri termini, tale criterio era dunque fondato sull’esigenza di concentrare le due procedure fallimentari, quella della società e quella del socio/imprenditore individuale, presso un unico tribunale, ossia quello che aveva dichiarato il fallimento della società.

A tale tesi si opponeva un secondo orientamento, che risolveva il conflitto di competenza sulla base del diverso criterio di prevenzione, in virtù del quale la competenza a dichiarare il fallimento del socio (che svolgeva, al contempo, attività di impresa individuale distinta da quella sociale) sarebbe stata attribuita al tribunale che, per primo, aveva dichiarato l’insolvenza dell’impresa individuale, in analogia a quanto stabilito dall’art. 39 cod. proc. civ. Il tutto senza alcuna possibilità di attrazione rispetto alla procedura instaurabile (o instaurata) a carico della società. In altri termini tale orientamento, diversamente dal precedente, negava la concentrazione delle procedure (quella individuale e quella sociale) presso un unico foro, con la conseguenza che il tribunale successivamente intervenuto per dichiarare il fallimento della società sarebbe stato competente solo per quest’ultimo (cfr. Cass. Civ. 7 gennaio 1984, n. 102, in Giur. comm., 1985, 464, con nota di Malesani, secondo cui gli artt. 147 e 148 l. fall. “si riferiscono al caso ordinario del socio ancora in bonis e non prevedono l’ipotesi eccezionale in cui il socio sia stato già dichiarato fallito per avere esercitato in altro luogo un’attività imprenditoriale diversa ed autonoma”; Cass. Civ. 9 settembre 1997, n. 8795, in Fallimento, 1998, 505; Cass. Civ. 19 maggio 1995, n. 5564, in Fallimento, 1995, 1203).

La riformulazione dell’art. 147 l. fall. avrebbe determinato il superamento di entrambe le tesi sviluppatesi in epoca ante riforma, “visto che la norma oggi chiaramente induce all’attrazione del fallimento nel medesimo foro in cui sia stato aperto quello previamente dichiarato”. Pertanto, la riconduzione del fenomeno dell’insolvenza della c.d. supersocietà di fatto nell’ambito di applicazione dell’art. 147, quinto comma, l. fall., ha portato a risolvere il conflitto nel senso di affermare la prevalenza del tribunale che aveva preventivamente dichiarato il fallimento dell’impresa individuale ovvero della società che, in veste di socio, partecipava la società di fatto.

Secondo la Cassazione, tale conclusione risulta confortata da ragioni di ordine logico-sistematico, giacché l’aver inquadrato il fenomeno dell’insolvenza della supersocietà di fatto entro le maglie dell’art. 147 l. fall. induce ad applicare a tale fattispecie la medesima disciplina prevista per il fallimento del socio occulto di società dichiarata fallita (art. 147, quarto comma, l. fall.).

Inoltre, prosegue la Suprema Corte, tra il fallimento della supersocietà e il fallimento delle società partecipanti non sarebbe ravvisabile alcun rapporto di accessorietà o di continenza, non essendo ravvisabile tra le due procedure né “una posizione di subordinazione o di dipendenza”, né una “identità di soggetti”.

La lettura della norma citata si pone, invece, “in consonanza con l’ottica della connessione” di cui all’art. 40 cod. proc. civ. Infatti, tale meccanismo regolatorio “finisce per costituire, secondo l’art. 147, l’occasione per ravvisare (o comunque per accertare) anche la distinta insolvenza della supersocietà di fatto” assicurando, fin dall’accertamento dello stato di insolvenza, la concentrazione delle procedure fallimentari presso il giudice preventivamente adito al fine di realizzare al meglio, nell’ottica della par condicio, sia gli interessi della società partecipante sia gli interessi dei creditori della supersocietà.

Alla luce di quanto sopra, nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto competente – secondo lo schema dell’art. 147, quinto comma, l. fall. – il tribunale di Teramo, che aveva già dichiarato il fallimento di (OMISSIS) S.r.l., quale società partecipante dell’asserita supersocietà di fatto, reputando non condivisibile l’interpretazione proposta dal giudice teramano, che si era a sua volta ritenuto incompetente, ex art. 9 l. fall., a dichiarare l’insolvenza della supersocietà occulta.