16 Luglio 2024

Fallimento del datore di lavoro e insinuazione al passivo per le quote del trattamento di fine rapporto non versate al fondo di previdenza complementare

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. I, 7 giugno 2023, n. 16116 – Pres. Cristiano – Rel. Vella

Parole chiave: Trattamento di fine rapporto – Conferimento nel fondo di previdenza complementare – Delegazione di pagamento – Cessione di credito – Mancato versamento – Fallimento del datore di lavoro – Insinuazione al passivo – Legittimazione

[1] Massima: “In tema di previdenza complementare, il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando in un fondo di previdenza complementare può configurare una delegazione di pagamento (art. 1268 c.c.), piuttosto che una cessione di credito futuro (art. 1260 c.c.), sicché, in caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione a insinuarsi al passivo per le quote maturate e accantonate ma non versate al fondo spetta, di regola, al lavoratore, stante lo scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento al datore di lavoro, salvo che emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del fondo, cui, in quel caso, spetta la legittimazione attiva ai sensi dell’art. 93 l.fall.”

Disposizioni applicate: d.lgs. 252/2005, art. 8; r.d. 267/1942, art. 93

CASO

Un lavoratore chiedeva che fosse ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro il credito vantato a titolo di trattamento di fine rapporto per le quote non versate al fondo di previdenza complementare.

Il credito veniva escluso dallo stato passivo per difetto di legittimazione attiva del richiedente, in quanto l’adesione al fondo avrebbe comportato la cessione del credito al fondo medesimo, con acquisizione, da parte del lavoratore, del diritto alla corrispondente prestazione pensionistica.

Il lavoratore proponeva opposizione ai sensi dell’art. 98 l.fall., sostenendo che, nell’adesione al fondo cui erano state conferite le quote di trattamento di fine rapporto andava ravvisata una delegazione di pagamento e non una cessione di credito.

Il Tribunale di Siracusa respingeva l’opposizione, confermando che, in caso di insolvenza del datore di lavoro che abbia accantonato il trattamento di fine rapporto senza, tuttavia, versarlo al fondo di previdenza complementare, il soggetto legittimato a insinuarsi al passivo è unicamente il fondo, fatta salva la possibilità per il lavoratore di agire in via surrogatoria, in caso di inerzia.

La sentenza veniva gravata con ricorso per cassazione.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che il conferimento delle quote di trattamento di fine rapporto in un fondo di previdenza complementare va qualificato in termini di cessione di credito o di delegazione di pagamento a seconda dello strumento negoziale effettivamente utilizzato dalle parti, sicché, in caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione a insinuarsi al passivo per le quote non versate spetta al lavoratore o al fondo, a seconda che sia ravvisabile, rispettivamente, una delegazione di pagamento al datore di lavoro o una cessione di credito futuro in favore del fondo.

QUESTIONI

[1] Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione detta le regole da applicare per individuare il soggetto legittimato a proporre domanda di ammissione al passivo per le quote del trattamento di fine rapporto accantonate ma non versate al fondo di previdenza complementare prescelto dal lavoratore, in caso di fallimento del datore di lavoro, a fronte delle oscillazioni manifestatesi nella stessa giurisprudenza di legittimità.

La disciplina delle forme pensionistiche complementari è contenuta nel d.lgs. 252/2005, in virtù del quale il loro finanziamento – secondo quanto stabilito dall’art. 8 – avviene mediante il versamento di contributi da parte del lavoratore o del datore di lavoro, anche attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando; le risorse così raccolte vengono gestite dai fondi secondo le modalità previste dall’art. 6, per andare a costituire la provvista delle prestazioni erogate a norma dell’art. 11.

In caso di insolvenza del datore di lavoro che abbia accantonato il trattamento di fine rapporto senza versarlo al fondo di previdenza complementare cui il lavoratore lo aveva conferito, occorre stabilire se la legittimazione ai fini dell’insinuazione al passivo spetti al dipendente o al fondo medesimo.

La Corte di cassazione si era già espressa sul tema, rilevando che l’espressione “conferimento” contenuta nell’art. 8, comma 1, d.lgs. 252/2005 va intesa in senso atecnico, essendo in facoltà delle parti, stante la loro autonomina negoziale, individuare lo strumento volta per volta ritenuto più idoneo per realizzare l’adesione del lavoratore al fondo: da questo punto di vista, può darsi luogo a una delegazione di pagamento (con incarico conferito dal lavoratore al datore di lavoro di versare le quote del trattamento di fine rapporto al fondo) o a una cessione di credito futuro (direttamente dal lavoratore al fondo).

Si viene, così, a instaurare un rapporto trilaterale tra datore di lavoro, fondo di previdenza complementare e lavoratore, in virtù del quale:

  • il primo è obbligato, nei confronti del secondo, a versare il trattamento di fine rapporto;
  • il secondo è tenuto a erogare le prestazioni secondo le modalità previste dall’art. 2120 c.c., nei limiti della quota maturata a decorrere dal 1° gennaio 2007 (mentre la parte rimanente resta a carico del datore di lavoro);
  • la materiale erogazione del trattamento di fine rapporto è affidata al datore di lavoro anche per la parte di competenza del fondo, salvo conguaglio sui contributi dovuti al fondo stesso e agli altri enti previdenziali.

Secondo un’altra impostazione, i versamenti effettuati dal datore di lavoro hanno natura contributiva (e non retributiva) e non entrano direttamente nel patrimonio del lavoratore, che può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al fondo, affinché alimenti il trattamento pensionistico integrativo da erogarsi alla cessazione del rapporto, in quanto siano maturati i relativi requisiti: il lavoratore, dunque, non acquisisce il diritto di percepire le contribuzioni versate al termine del rapporto, ma un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, tant’è vero che, quando non sussistano tutti i relativi presupposti, il dipendente non ha diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro.

In questa prospettiva, l’adesione al fondo del lavoratore determina, in capo a quest’ultimo, l’obbligazione contributiva di finanziamento, che viene adempiuta – attraverso una trattenuta sullo stipendio e il successivo versamento al fondo – dal datore di lavoro, senza, tuttavia, che possa configurarsi una delegazione di pagamento, non essendone configurabile la revoca, in quanto incompatibile con le regole dettate dalla disciplina speciale in tema di permanenza nelle forme pensionistiche complementari e di riscatto (totale o parziale) delle posizioni individuali. Il lavoratore, infatti, può agire per ottenere coattivamente il versamento al fondo delle somme da parte del datore di lavoro che le abbia trattenute, mentre non può chiederne la restituzione.

I giudici di legittimità, tuttavia, affermano che, non potendosi ravvisare una vera e propria incompatibilità tra gli istituti speciali previsti dalla disciplina della previdenza complementare e la delegazione di pagamento, occorre verificare se il conferimento del trattamento di fine rapporto si sia concretamente tradotto o meno in una cessione di credito, anche in considerazione del fatto che, a differenza di quanto avviene nel sistema della previdenza pubblica, non opera il principio dell’automaticità delle prestazioni (cui consegue un allentamento del nesso di corrispettività tra contribuzione e prestazione, in funzione del principio di solidarietà).

Non è, dunque, corretto sostenere che, attraverso il conferimento volontario del trattamento di fine rapporto maturando in un fondo di previdenza complementare, si attua necessariamente una cessione del relativo diritto al fondo di previdenza volta per volta individuato.

Occorre, invece, accertare quale sia lo strumento effettivamente prescelto dalle parti, dal momento che la diversa qualificazione delle modalità di finanziamento del fondo – in termini di delegazione di pagamento (art. 1268 c.c.) o di cessione di credito futuro (art. 1260 c.c.) – incide sulla titolarità del diritto e sulla conseguente legittimazione a farlo valere, anche mediante l’insinuazione al passivo del relativo credito in caso di fallimento del datore di lavoro che non abbia versato le somme trattenute.

D’altra parte, è lo stesso contesto normativo di riferimento a fare propendere per il mantenimento della legittimazione attiva in capo al lavoratore, nonostante il conferimento del trattamento di fine rapporto in un fondo di previdenza complementare.

In particolare, l’art. 5 d.lgs. 80/1992 (recante la disciplina di tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro) prevede che, in caso di omesso o parziale versamento dei contributi da parte del datore di lavoro e di conseguente impossibilità di percezione della prestazione cui avrebbe avuto diritto, il lavoratore, quando il suo credito sia rimasto in tutto o in parte insoddisfatto all’esito di una procedura concorsuale, può chiedere al fondo di garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata i contributi omessi, con conseguente surroga di diritto del fondo al lavoratore per il loro equivalente: dalla disposizione, dunque, emerge chiaramente che il lavoratore ha diritto di vedere soddisfatte le proprie pretese in sede concorsuale, potendo chiedere l’intervento del fondo di garanzia in caso di insoddisfazione totale o parziale nell’ambito della stessa.

Si tratta, quindi, di un diritto che compete – in prima battuta – al lavoratore nei confronti del datore di lavoro, essendo una mera facoltà, in caso di fallimento di quest’ultimo, la richiesta di intervento del fondo di garanzia e, dunque, una eventualità la surroga del fondo medesimo nel diritto di chiedere l’ammissione al passivo, prospettabile solo in quanto l’intervento si sia effettivamente realizzato.

Ne discende, in definitiva, che – quantomeno di norma – la legittimazione all’insinuazione al passivo fallimentare compete al lavoratore e tale conclusione risulta compatibile con la prospettazione di una delegazione di pagamento conferita al datore di lavoro, il cui fallimento ne determina lo scioglimento, alla stregua di quanto avviene con riguardo a ogni contratto di mandato, ai sensi dell’art. 78, comma 2, l.fall.

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