Esclusa la presenza di un patto successorio in mancanza di convenzione tra le parti
di Corrado De Rosa, Notaio Scarica in PDFCassazione civile, sez. II, 21 Febbraio 2022, n. 5555
Patti successori – Patto successorio istitutivo – Nullità del patto successorio (C.c. art. 458)
Massima: “Deve essere esclusa la sussistenza di un patto successorio vietato quando non intervenga tra le parti alcuna convenzione e la persona della cui eredità si tratta abbia soltanto manifestato verbalmente all’interessato o a terzi l’intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale promessa verbale non crea alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena libertà del testatore, oggetto di tutela legislativa. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che non costituisse patto successorio vietato l’accordo intercorso tra le parti, avente ad oggetto prestazioni mediche e assistenziali in corrispettivo all’assegnazione di beni destinati a far parte del “relictum”, in quanto tradotto in mere dichiarazioni verbali, prive di specificazione in ordine alla individuazione dei cespiti ad assegnare).”
CASO
La causa riguarda gli accordi stipulati tra P.P. e i medici dottori R.C. e S.A. che, in vita del primo, avevano fornito prestazioni professionali mediche ed assistenziali in corrispettivo della assegnazione di beni destinati a far parte del relictum di costui. I signori R.C. e S.A. convenivano in giudizio il signor P.P. per la condanna al pagamento delle prestazioni rese. Il Tribunale di Sanremo, sezione distaccata di Ventimiglia, con sentenza non definitiva n. 145/2006 e con sentenza definitiva n. 441/2011 (resa nei confronti della signora Ro.GI., erede del convenuto, deceduto nel corso del giudizio di primo grado) accertava e quantificava il predetto credito in Euro 75.548,39 per il dott. R.C., ritenendo inammissibile, perché tardiva e comunque infondata, l’eccezione di nullità ex art. 458 c.c. proposta dal convenuto nella comparsa conclusionale. La Corte di Appello di Genova, anche sulla scorta del testamento del signor P.P., che disponeva un lascito testamentario in favore degli attori, con sentenza n. 950/2016 riformava le pronunce di primo grado ritenendo esistente tra il de cuius e gli attori “un preciso accordo per effetto del quale l’appellante si impegnava ad effettuare determinate prestazioni professionali in favore del signor P. e questi a sua volta si impegnava all’attribuzione ai signori R.C. e S.A. di determinati cespiti immobiliari in sede successoria” e riconoscendo la vincolatività dell’accordo nella circostanza che il signor R.C. aveva eseguito le prestazioni confidando nelle attribuzioni testamentarie cui avrebbe beneficiato in morte del P.P.
Il signor R.C. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza.
SOLUZIONE
Il ricorrente ha denunciato la falsa applicazione dell’art. 458 c.c., lamentando che il contenuto degli accordi stipulati non sarebbe riconducibile alla nozione normativa di patto successorio. Secondo la Corte di Cassazione il motivo è fondato. A parere dei giudici di legittimità nella pronuncia impugnata è accertabile un errore di diritto nella sussunzione di dichiarazioni meramente verbali, prive di qualunque precisazione sull’identificazione delle assegnazioni, nella fattispecie astratta del patto successorio. La S.C. riprende l’insegnamento di Cass. 5870/2000, nella cui motivazione si leggeva che “è da escludere l’esistenza di un patto successorio quando tra le parti non sia intervenuta alcuna convenzione, e la persona nella cui eredità si spera abbia solo manifestato verbalmente, all’interessato o a terzi, l’intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale mera promessa verbale non genera alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena libertà del testatore che è oggetto di tutela legislativa”. La Corte ha dunque negato l’esistenza di un patto successorio nell’accordo intercorso tra le parti – in forza del quale il defunto
P.P. riceveva le prestazioni medico assistenziali promettendo in cambio l’assegnazione di immobili del suo relictum – in quanto tradotto in mere dichiarazioni verbali, genericamente riferite all’assegnazione di beni destinati a far parte della massa ereditaria e quindi prive di specificazione in ordine all’individuazione del contenuto delle attribuzioni stesse.
QUESTIONI
La Cassazione ritorna sul tema dei patti successori, forme di quella “successione pattizia” fortemente osteggiata dal legislatore.
Nell’affrontare le questioni inerenti all’oggetto della pronuncia, è opportuna la preventiva tripartizione dei patti successori, che – utilizzando le parole della più grande dottrina (BIANCA, Diritto civile – II – La famiglia – Le successioni, Milano, 2005) – può essere così rappresentata: “Il patto istitutivo è la convenzione con la quale il soggetto dispone della propria successione. Il patto dispositivo è il negozio mediante il quale il soggetto dispone (a favore di altri) di diritti che gli potranno spettare su una successione non ancora aperta. Il patto rinunciativo è il negozio mediante il quale il soggetto rinunzia a diritti che gli potranno spettare su una successione non ancora aperta”. Oggetto della pronuncia de qua è dunque un patto successorio istitutivo, avendo il disponente – secondo la ricostruzione seguita nella sentenza cassata – disposto per il tempo successivo alla sua morte mediante contratto a prestazioni corrispettive, che legava sinallagmaticamente le prestazioni mediche e il legato in favore del professionista. Il codice civile all’art. 458 vieta espressamente questo tipo di convenzione, per le ragioni ricavabili dalla Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942, in cui si legge che, sancita al precedente articolo 457 la tassatività delle due forme di delazione (legittima o testamentaria), “ho considerato l’opportunità di escludere espressamente l’ammissibilità della terza: possibile causa di delazione, ossia del contratto come titolo di successione, stabilendo il divieto della cosiddetta successione pattizia o patto successorio”. Oltre a quella esplicitata nella Relazione, è possibile individuare anche un’altra ragione a sostegno del divieto in esame, giacché il patto successorio contrasta con il principio fondamentale e di ordine pubblico “della piena libertà del testatore di disporre dei propri beni fino al momento della sua morte” (Cass. 19 novembre 2009 n. 24450): con la conclusione di un patto istitutivo il testatore compromette irrimediabilmente la propria autonomia, vincolando la destinazione delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Parte della dottrina (ad esempio Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 1983, I, 28; Grosso-Burdese, Le successioni, in Tratt. Dir. Civ. italiano (diretto da F. Vassalli), XII, tomo I, Torino, 1997, 93) individua più precisamente la ratio del divieto nell’esigenza di assicurare la libertà di revoca del testatore: la libertà di disporre a causa di morte si traduce, infatti, anche nella facoltà di modificare l’assetto dato alla propria organizzazione patrimoniale in ogni momento, come dal combinato disposto degli artt. 587 e 679 c.c. che qualificano il testamento come atto revocabile con facoltà di revoca inderogabile e irrinunciabile. Segnati i contorni teorici della fattispecie, tuttavia, assai meno agevole appare la qualificazione concreta di un accordo come patto vietato ai sensi dell’art. 458 c.c., i cui limiti “appaiono all’osservatore contemporaneo come una maglia intollerabilmente stretta e ingiustificatamente limitativa del libero dispiegarsi dell’autonomia privata, come un obsoleto fattore di blocco frapposto al perseguimento di interessi sostanzialmente meritevoli di tutela” (così V. Roppo, Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv., 1997, 7). Pur nell’ampia eterogeneità della categoria, la dottrina (cfr. ad esempio Antonini, Il divieto di patti successori, in Stud. Iur., 1996, fasc. 5,602, Caccavale-Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, in Riv. Dir. Priv., 1997, fasc. 1, 76, De Giorgi, Patto successorio, in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 533) ha elaborato un “prototipo del patto successorio” nell’accordo stipulato prima dell’apertura della successione, avente ad oggetto l’acquisto a causa di morte di beni che saranno ricompresi nella massa ereditaria. Anche la giurisprudenza (da ultimo, Cass. civ. n. 14110/2021) si è spesa per l’interpretazione delle fattispecie dubbie, delineando gli elementi essenziali dell’accordo: è in primo luogo necessario che il vincolo giuridico originato dal patto abbia quale finalità la costituzione, modifica o estinzione di diritti relativi alla successione non ancora aperta, considerati in quanto tali e, dunque, come “l’id quod superest”(Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 18198 del 2 settembre 2020): non rilevano, invece, le mere intenzioni manifestate dal futuro de cuius , quali generiche promesse di imprecisate future utilità economiche, inidonee a costituire vincoli giuridici (come nel caso in esame,
laddove la mancata trasposizione delle intenzioni del disponente in una convenzione, espressione di una concreta volontà negoziale, è stata ritenuta dirimente ai fini dell’esclusione della natura di patto vietato). Ragionando sull’enunciata ratio di conservazione del potere di revoca, sull’invalidità dell’accordo incide proprio la perdita del c.d. “ius poenitendi” del disponente e dunque la definitiva perdita del dominio (seppur parziale e limitato all’oggetto del contratto) sulla futura successione (come nella vicenda giudicata dal Tribunale di Biella con decisione del 27 novembre 2007, con cui veniva dichiarata nulla una clausola statutaria che prevedeva la predeterminazione al valore nominale dell’entità della liquidazione in favore degli eredi del socio defunto, così che “i soci limitano reciprocamente la loro libertà testamentaria, perché dispongono del valore della loro quota – bene che cade in successione – per il tempo della loro morte, attribuendo agli eredi una quota fissa e lasciando alla società quanto resta”). E’ opportuno precisare che la morte di uno dei contraenti non è del tutto aliena ai possibili contenuti leciti del contratto, considerata l’apertura della dottrina più moderna alla sua incidenza sul mero piano effettuale del negozio (si pensi alle discusse donazioni “cum moriar” e “si praemoriar”, in cui la premorienza del disponente è utilizzata dalle parti quale mero evento naturale cui collegare gli effetti negoziali). Solo qualora il decesso permei la causa del contratto, disciplinando situazioni che da questo origineranno e presupponendo che l’oggetto e la controparte vi sopravvivano (come insegnato da Cass. civ. n. 18198/2020) potranno dirsi varcati i confini della illiceità ex art. 458 c.c. In ogni caso, come dimostrato dalla sentenza in commento, anche in presenza dei predetti indici, le mere dichiarazioni di intenti non possono tradursi in un patto successorio, ma sono unicamente rivelatrici della onerosità, nella intenzione delle parti, del rapporto stesso.
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