Errata scelta del trattamento medico e responsabilità sanitaria
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, ord., 27.09.2024, n. 25825 – Pres. Scrima – Rel. Cricenti
Attività medico-chirurgica – Responsabilità civile – Accertamento del nesso causale – Giudizio controfattuale – Relazione tra condotta alternativa lecita ed evento concretamente verificato
[1] In tema di accertamento del nesso causale nella responsabilità sanitaria, il giudizio controfattuale va compiuto ponendo in relazione la condotta alternativa lecita con l’evento concretamente verificatosi e di cui si duole il danneggiato, ossia chiedendosi se tale specifico danno era evitabile sostituendo la condotta posta in essere con quella alternativa.
CASO
Un paziente, a causa di persistenti dolori alla schiena, si rivolgeva ad uno specialista ortopedico, che diagnosticava una lombosciatalgia, priva di interessamento neurologico, ed escludeva la necessità di un intervento chirurgico, ritenendo più indicato un trattamento conservativo.
Stante il permanere della sintomatologia dolorosa, il paziente si rivolgeva ad un secondo specialista, che diagnosticata un’ernia discale bilaterale, suggeriva l’intervento chirurgico, in relazione al quale il paziente veniva verbalmente informato, da un secondo chirurgo, della possibilità, sia pure rarissima, che in esito all’intervento potessero residuare danni permanenti al sistema nervoso.
L’intervento chirurgico veniva eseguito in una clinica specialistica, accreditata con il servizio sanitario nazionale, e nei giorni immediatamente successivi il paziente riportava difficoltà di deambulazione sempre crescente, fino alla paralisi totale degli arti inferiori, con una conseguente invalidità civile del 100%.
Il Tribunale adito accoglieva la domanda risarcitoria spiegata dall’attore, accertando la responsabilità dei due medici convenuti, non solo per l’erronea valutazione dell’intervento ma anche per aver proposto un intervento chirurgico, anziché optare per un trattamento meno invasivo, in una situazione già dal principio complessa.
La Corte d’Appello ribaltava integralmente la decisione di prime cure.
Contro la pronuncia della Corte di merito il paziente proponeva ricorso in cassazione affidato a tre motivi.
SOLUZIONE
La Suprema Corte con l’ordinanza in commento giunge alla conclusione secondo cui, nell’accertamento del nesso causale, la condotta alternativa lecita va messa in relazione all’evento concretamente verificatosi, e di cui si duole il danneggiato, e non già rispetto ad un evento diverso. Pertanto, se il danno di cui ci si lamenta è costituito dalla paralisi permanente, l’indagine causale va effettuata ponendo in relazione questo danno con la condotta alternativa lecita, ossia chiedendosi se tale danno era evitabile sostituendo la condotta posta in essere con una condotta alternativa.
QUESTIONI
La sentenza di merito aveva escluso il nesso eziologico tra il pregiudizio subito dal paziente, impossibilitato a deambulare a seguito dell’intervento chirurgico, e il consiglio di praticare il trattamento più invasivo, vale a dire l’intervento medesimo. La Corte di merito, cioè, aveva ritenuto che la prova del nesso causale non fosse stata raggiunta, in quanto dalla CTU medico-legale sarebbe emerso che, pur essendo forse opportuno consigliare al paziente di non sottoporsi all’intervento chirurgico, tuttavia, una volta effettuato quest’ultimo, esso era stato correttamente eseguito. Il danno patito dal paziente non era in un certo senso prevedibile, ma semmai era da ricondursi a pregresse patologie del medesimo.
La Suprema Corte, nell’accogliere i motivi di gravame articolati dal paziente, s’incentra sull’accertamento del nesso di causalità.
Tale indagine in ambito civile avviene sulla base di un giudizio c.d. controfattuale, ossia l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione, ci si chiede se si sarebbe verificata la medesima conseguenza. E quindi eliminando, per ipotesi, la condotta che si ritiene dannosa e sostituendola con quella ritenuta lecita, ci si chiede se l’evento si sarebbe comunque verificato. Con la conseguenza che, se, ipotizzando che l’azione o l’omissione non fosse mai avvenuta, l’evento si sarebbe comunque verificato, allora non sussiste responsabilità del medico; altrimenti, in caso contrario, sussiste.
Orbene, secondo la Suprema Corte, il ragionamento controfattuale della corte di merito, secondo cui, laddove si fosse evitato l’intervento chirurgico e si fosse, invece, optato per un intervento conservativo o non invasivo, quest’ultimo non avrebbe comunque sortito un positivo effetto, era completamente errato.
Il vizio del ragionamento era dovuto al fatto che esso non teneva conto di elementi di fatto rilevanti e decisivi (vale a dire il parere del primo specialista, che aveva sconsigliato l’intervento, ed il fatto che un precedente intervento chirurgico non avesse prodotto il risultato sperato) e della circostanza che l’efficacia causale dell’antecedente (cioè la scelta della tipologia di intervento da effettuare, se chirurgico o meno) non andava valutata rispetto all’evento guarigione o all’efficacia o no del trattamento, ma rispetto all’evento, concretamente prodottosi, di danno permanente subìto dal paziente.
I Giudici del Supremo Collegio hanno rammentato che la valutazione circa la scelta terapeutica più adatta al paziente deve essere fatta – secondo la tecnica giuridica del giudizio controfattuale – non con riguardo alla patologia da curare, ma con riferimento alla pericolosità dell’intervento in sé ed alle possibili complicanze imprevedibili, delle quali il paziente deve essere portato a conoscenza.
Utilizzando le parole della Suprema Corte “il giudizio controfattuale andava effettuato chiedendosi se l’intervento conservativo, in luogo di quello chirurgico, avrebbe evitato o meno i danni permanenti al paziente, piuttosto che chiedersi se l’intervento conservativo avrebbe sortito effetti benefici per l’interessato, guarendolo dalla patologia”.
È, dunque, irrilevante – secondo i Giudici di legittimità – stabilire se, e con quale grado di probabilità, la terapia di mantenimento avrebbe condotto alla guarigione del paziente.
La Cassazione sottolinea, dunque, il principio per cui, nell’accertamento del nesso causale, la condotta alternativa lecita va messa in relazione all’evento concretamente verificatosi (nella fattispecie, la grave paralisi agli arti inferiori), e di cui si duole il danneggiato, e non rispetto ad un evento diverso solo astrattamente ipotizzato (la possibile guarigione dalla patologia).
Se, quindi, il danno di cui ci si lamenta è costituito dalla paralisi permanente, l’indagine causale va effettuata ponendo questo danno in relazione con la condotta alternativa lecita, chiedendosi, quindi, se tale danno era evitabile, sostituendo la condotta posta in essere con una condotta alternativa.
Invece, i Giudici di appello hanno effettuato l’indagine controfattuale considerando quale evento non il danno subìto, ma l’inefficacia terapeutica del trattamento, e dunque un evento diverso, di cui il ricorrente non si doleva.
Occorreva, invece, chiedersi se, evitare l’intervento avrebbe evitato il danno, danno che, nel caso di specie, è la paralisi e non la mancata guarigione dalla lombosciatalgia, e dunque la questione causale è conseguente: stabilire se la condotta alternativa lecita avrebbe evitato quell’evento.
In altri termini, il ragionamento controfattuale, come svolto dalla Corte d’appello, può esprimersi nel modo seguente: “il trattamento conservativo non era necessariamente da preferire in quanto già in passato si era dimostrato inefficace“, mentre invece l’assunto del ricorrente era: “il trattamento conservativo era da preferire in quanto avrebbe evitato i danni permanenti, poco importando la sua efficacia curativa“.
Secondo la Suprema Corte, il giudizio controfattuale consiste nella verifica della fondatezza di questa seconda proposizione linguistica e non della prima.
Quindi, l’efficacia causale della condotta alternativa lecita, ossia del trattamento conservativo, che era richiesto di accertare, non era quella di comportare la guarigione, ma quella ben diversa di evitare il danno permanente.
Pertanto, la Corte di merito avrebbe dovuto valutare se la condotta alternativa lecita (cioè, il trattamento meno invasivo) fosse da pretendersi, a prescindere dalla sua efficacia sulla patologia in corso, in quanto garantiva, a differenza della condotta di fatto tenuta, di evitare il rischio.
In conclusione, quindi, con l’ordinanza n. 25825/2024 la Cassazione ha affermato l’importante principio, per cui il chirurgo, che opta per un determinato tipo di intervento particolarmente invasivo, sulla scorta del fatto che un altro, di tipo conservativo, non avrebbe sortito gli effetti sperati, può essere ugualmente ritenuto responsabile per l’errore commesso e, quindi, tenuto a rispondere dei relativi danni al paziente.
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