24 Ottobre 2023

Elargizione di denaro da parte di un genitore al figlio convivente. Liberalità o adempimento di obbligazione nascente dalla convivenza?

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

Cass. Civ., Sez. 2, Ordinanza n. 18814 del 04/07/2023 

Successioni “mortis causa” – Successione necessaria – Reintegrazione della quota di riserva dei legittimari – Azione di riduzione (lesione della quota di riserva) –  Donazioni – Somme erogate in più occasioni dal “de cuius” alla figlia convivente – Soggezione alla collazione ereditaria e all’azione di riduzione – Condizioni – Accertamento sulle ragioni delle elargizioni, se determinate dall’adempimento di obbligazioni nascenti dalla convivenza e dal legame parentale – Necessità.

Al fine di ravvisare presuntivamente la sussistenza di plurime donazioni di somme di denaro fatte dalla madre alla figlia convivente, soggette all’obbligo di collazione ereditaria ed alla riduzione a tutela della quota di riserva degli altri legittimari, tratte dalla differenza tra i redditi percepiti dalla “de cuius” durante il periodo di convivenza e le spese ritenute adeguate alle condizioni di vita della stessa, occorre considerare altresì in che misura tali elargizioni potessero essere giustificate dall’adempimento di obbligazioni nascenti dalla coabitazione e dal legame parentale, e dunque accertare che ogni dazione fosse stata posta in essere esclusivamente per spirito di liberalità.

Disposizioni applicate

Articoli 737, 769, 751, 742 e 555 cod. civ.

[1] Nel giudizio di primo grado, i fratelli Primo e Secondo convenivano la sorella Terza per vedere accertata la lesione della loro quota di legittima relativamente alla successione della madre Tiziona, in ragione delle donazioni da costei in vita effettuate a favore di Terza, con lei convivente dal febbraio 1981 sino alla morte della stessa, avvenuta il 5 settembre 2005.

Il Tribunale accoglieva la domanda attorea e Terza veniva condannata a pagare ai fratelli una somma di poco superiore a € 24.000,00.

La Corte d’Appello respingeva il gravame proposto da Terza, confermando la sentenza di primo grado.

Le motivazioni del Giudice di secondo grado si fondavano sulla ritenuta attendibilità delle conclusioni cui era pervenuto il CTU nominato in primo grado. Questi aveva ricostruito i redditi pensionistici percepiti da Tiziona dal 1981 al 2005 (pari a circa € 1.000,00 mensili), con i quali avrebbe “partecipato alle spese della figlia con la quale conviveva per il vitto e le medicine”. Ricostruite, poi, le condizioni di vita della predetta Tiziona, la Corte d’Appello ha desunto dalla mancata risposta all’interrogatorio formale che la madre coadiuvasse la figlia nelle attività domestiche e le “donasse periodicamente denaro” ed ha condiviso la presunzione raggiunta dal Tribunale, secondo cui Tiziona spendeva per il suo mantenimento e la cura della sua persona il 60% dei redditi percepiti, risparmiando il residuo 40%. Questa percentuale di risparmio portava ad un capitale di oltre € 114.000,00, soldi “che devono ritenersi incassati” da Terza, mentre a Primo e Secondo risultavano esser stati dati poco più di 1.000,00 euro ciascuno (mancando prova di donazioni di maggior importo).

Esclusa la riconducibilità della predetta somma di € 114.000,00 a donazione remuneratoria o ad obbligazione naturale, la Corte d’appello ha considerato che la stessa avesse dato luogo ad un “complesso di donazioni lesive della quota di riserva”.

[2] Avverso la sentenza di secondo grado, Terza proponeva ricorso in Cassazione censurando, con il primo motivo, tale pronuncia per avere ritenuto donazione di denaro meritevole di collazione l’apporto che la defunta madre avrebbe conferito alla figlia convivente, ingiustamente considerando lesivo un importo ridotto e diluito nel tempo (24 anni) di 400 euro mensili; e ciò attraverso l’utilizzazione di presunzioni relative alla buona salute della de cuius, alla sobrietà delle condizioni di vita della medesima, e quindi alle ridotte esigenze di vita che le avrebbero consentito di vivere con il 60% di quanto incassato, presumendo che il residuo 40% sia stato donato alla figlia convivente. Il secondo motivo del ricorso denunciava la violazione degli artt. 769 e ss., 737 e 2729 c.c., censurando la sentenza di secondo grado per avere omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio, relativo alla convivenza fra la de cuius e la ricorrente, tale da impedire ontologicamente la configurabilità di una donazione, atteso che gli apporti dei conviventi, lungi dal costituire donazioni, si concretano in conferimenti vicendevoli. Ribadiva la ricorrente che, pertanto, la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto la configurabilità di donazioni e perciò applicabile l’obbligo di collazione.

[3] La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso e, a sostegno della propria decisione, ha svolto una serie di considerazioni in ordine alle liberalità soggette a riduzione (o collazione) che meritano di essere riportate.

Gli Ermellini ricordano come in caso di asserita lesione della quota di legittima, ed ai fini dell’obbligo di collazione tra i soggetti indicati dall’art. 737 c.c., come in caso di esercizio dell’azione di riduzione verso il coerede donatario, rilevano le donazioni (dirette e indirette) fatte in vita dal de cuius. A norma dell’art. 742 c.c., non sono comunque soggette a collazione, tra le altre, le spese di mantenimento e di educazione, quelle sostenute per malattia, quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze, né le liberalità d’uso.

Evidenziano, dunque, come il presupposto dell’obbligo di collazione sia “che il coerede ad esso tenuto abbia ricevuto beni o diritti a titolo di liberalità dal “de cuius”, direttamente o indirettamente tramite esborsi effettuati da quest’ultimo. Non sono soggette, peraltro, a collazione né alla riduzione a tutela della quota riservata ai legittimari le attribuzioni o elargizioni patrimoniali senza corrispettivo operate in favore di persona convivente (nella specie, si assume, fatte dalla madre, morta a 98 anni, in favore della figlia con lei unica convivente nel corso di ventiquattro anni), ove non sia accertato che le stesse fossero state poste in essere per spirito di liberalità, e cioè con la consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario, e non invece per adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza.

Sono, viceversa, soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte da un genitore ad un figlio, non operando al riguardo l’eccezione delineata per il coniuge dall’art. 738 c.c. (Cass. n. 2700 del 2019)”.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che la decisione di secondo grado difettasse poiché mancavano, nel ragionamento presuntivo adoperato dalla Corte d’appello i requisiti della “gravità” e della “concordanza” di cui all’art. 2729 c.c., riferiti al grado di probabilità e di coerenza della sussistenza del fatto ignoto della donazione della somma di € 400,00 mensili fatta dalla madre in favore della figlia, “giacché la convivenza per ventiquattro anni fra costoro rende altrettanto normale ipotizzare pure l’adempimento di obbligazioni nascenti dalla coabitazione e dal legame parentale.

Inoltre, per ravvisare un “complesso di donazioni” quale base causale delle continuative elargizioni patrimoniali fatte dalla de cuius alla figlia, tratte presuntivamente dall’importo lordo dei redditi percepiti decurtato dell’importo forfetizzato stimato congruo per le esigenze di vita di Tiziona, i giudici del merito avrebbero dovuto altresì accertare l’esclusivo spirito di liberalità che avesse assistito ogni dazione di denaro dalla madre alla figlia convivente”.

Nell’accogliere, il ricorso il Giudice di legittimità ha, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: “al fine di ravvisare presuntivamente la sussistenza di plurime donazioni di somme di denaro fatte dalla madre alla figlia convivente, soggette all’obbligo di collazione ereditaria ed alla riduzione a tutela della quota di riserva degli altri legittimari, tratte dalla differenza tra i redditi percepiti dalla de cuius durante il periodo di convivenza e le spese ritenute adeguate alle condizioni di vita della stessa, occorre considerare altresì in che misura tali elargizioni potessero essere giustificate dall’adempimento di obbligazioni nascenti dalla coabitazione e dal legame parentale, e dunque accertare che ogni dazione fosse stata posta in essere esclusivamente per spirito di liberalità”.

[4] Le argomentazioni della Suprema Corte, condivisibili in punto di diritto, suggeriscono alcune riflessioni.

La sentenza in commento, infatti, sembra dar ragione all’orientamento di alcune corti di merito in ordine alle elargizioni effettuate dai genitori nei confronti dei figli.

Più di un Tribunale, contrariamente a quanto deciso dal giudice di primo grado nel caso di specie, ha ritenuto che non siano riconducibili al negozio di donazione (diretta o indiretta) le dazioni di somme di denaro periodicamente operate da genitori a favore di figli non economicamente autosufficienti, dovendosi ricondurre tali negozi a ipotesi “di adempimento dei genitori ad un’obbligazione naturale di mantenimento del figlio”.[1]

Al riguardo, deve tuttavia richiamarsi la diversa posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 12477 del 07/07/2004 laddove si è affermato che “le elargizioni di denaro a titolo di liberalità in favore del figlio sono assoggettate alla disciplina della collazione, non rilevando in contrario il soggettivo convincimento del “de cuius” di rispondere esse ad un obbligo morale”.

A ben vedere le due posizioni non sono così antitetiche, fondandosi essenzialmente sulla rilevanza dell’elemento probatorio: laddove non sia provato che le elargizioni sono state attuate per mero spirito di liberalità, non si può riconoscere loro natura donativa; esse potranno trovare giustificazione nella convivenza tra i soggetti ovvero nella difficoltà economica del figlio.

È questo il principio che emerge anche da Cass. Civ. n. 9379 del 21/05/2020: “la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l’intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio”.

È certamente vero che solo il rigoroso assolvimento degli oneri probatori gravanti sulla parte può portare all’accoglimento delle domande proposte, ma non può tacersi che è proprio nei casi come quelli analizzati dai giudici nelle sopra riportate pronunce che tale onere risulta difficilmente assolvibile. Come possono i figli del defunto provare, dalla produzione in giudizio della sola documentazione bancaria (unico elemento generalmente rinvenibile), lo spirito di liberalità che ha animato il genitore nei confronti di un altro figlio?

Ed anche qualora siano stati entrambi i genitori ad effettuare le disposizioni bancarie, in caso di azione promossa anche dal genitore superstite, la sua eventuale dichiarazione non avrebbe rilievo probante, provenendo da una parte in causa.

A ben vedere, ogni qualvolta un genitore effettua un versamento di denaro a favore un figlio (periodicamente o anche solo una tantum) lo fa per spirito di liberalità[2], anche qualora ciò discenda da uno stato di indigenza dello stesso. La volontà è certamente quella di aiutare il figlio ed il genitore lo fa, presumibilmente, senza sentirsi in alcun modo obbligato.

Ed ancora, come è possibile, in caso di convivenza con i genitori stabilire (rectius provare) quali somme debbano essere ricondotte all’adempimento di obbligazioni “nascenti dalla coabitazione e dal legame parentale” e quali all’ambito donativo?

Ed è questo l’aspetto che, a giudizio dello scrivente, appare più criticabile della pronuncia in commento: non era forse possibile ritenere che già l’utilizzo del 60% dei propri redditi per le esigenze di vita di Tiziona comprendesse quanto necessario e giusto per contribuire alla coabitazione con la figlia? Oppure, deve desumersi dal principio espresso dalla Suprema Corte che la convivenza sia sufficiente ad escludere in principio (salvo prova contraria) la natura liberale delle elargizioni effettuate tra i conviventi stessi? E, ancora, è solo la somministrazione periodica a legittimarne l’esclusione dal novero delle donazioni?

E in caso di mancata convivenza, quali sono i limiti per ricondurre dette operazioni nell’alveo delle obbligazioni naturali di mantenimento?

Sono tutti interrogativi a cui l’interprete è chiamato a dare una non facile risposta. L’unico dato oggettivo è che non è possibile stabilire parametri certi che permettano di ricondurre tale tipo di dazioni di denaro ad un ambito piuttosto che all’altro.

[1] Così Trib. Busto Arsizio del 27/08/2021 R.G. n. 4088/2019

[2] Come affermato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, lo spirito di liberalità si sostanzia nella consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario a fronte del proprio impoverimento. Circostanza certamente ricorrente nelle ipotesi in esame.

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Successione mortis causa e il diritto societario