14 Novembre 2017

Il “duello” sulle spese tra giudice e avvocato

di Giovanni Anania Scarica in PDF

Cass. civ., sez VI, 6 giugno 2017, n. 14038 Pres. Amendola Rel. Vincenti

Spese giudiziali civili – Potere discrezionale del giudice – Riduzione dei compensi liquidati all’avvocato – Obbligo di motivazione -– sussiste (Cod. proc. civ. art. 92) 

 In sede di liquidazione delle spese processuali, il giudice non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato in misura inferiore a quelli esposti nella notula prodotta dall’avvocato vittorioso, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione della eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei relativi minimi. 

CASO


Il ricorso per cassazione era proposto contro una decisione del Tribunale di Napoli, qui giudice d’appello, che aveva ritenuto non applicabili, ratione temporis, le vecchie tariffe professionali di cui al d.m. n.127 del 2004 e, quindi, aveva liquidato a forfait i diritti di avvocato,  in misura complessivamente inferiore a quella risultante dalla somma delle voci esposte nella notula prodotta dalla parte premiata dalla sentenza.

SOLUZIONE


La Corte di Cassazione, nell’ordinanza che si annota, ha ritenuto;

– che il giudice avesse erroneamente escluso, ai fini della liquidazione delle spese di lite l’applicabilità delle vecchie tariffe vincolanti, a cui invece occorreva ancora fare riferimento atteso che il giudizio era già pendente quando è entrata in vigore la l. n. 27/2012 che le ha abrogate (nello stesso senso, cfr., ex multis, Cass., 27 febbraio 2017, n. 4949; Cass., 19 ottobre 2016, n. 21205; Cass., 21 giugno 2016, n. 12741; Cass., 11 febbraio 2016, n. 274; Cass., 18 dicembre 2012, n. 23318).

– che, pertanto, il giudice doveva regolare le spese di giudizio nel rispetto della nota spese dell’avvocato, redatta distinguendo i “diritti” dagli “onorari” di difesa, da cui poteva discostarsi solo dandone adeguatamente conto in motivazione.

QUESTIONI


L’ordinanza non si discosta dal costante orientamento giurisprudenziale formatosi nel vigore del previgente regime tariffario (cfr., negli stessi termini, Cass., 23 agosto 2017, n. 20325; Cass., 05 aprile 2017, n. 8824; Cass., 29 febbraio 2016, n. 3961; Cass., 14 ottobre 2015, n. 2060; Cass., 10 marzo 2014, n. 5535; Cass., 10 dicembre 2012, n. 22388).

Anche durante l’ancien régime, infatti, l’elasticità del nostro sistema consentiva al giudice di liquidare discrezionalmente i compensi dell’avvocato vittorioso.

La discrezionalità del giudice incontrava tuttavia un primo limite nell’obbligo di motivazione, ed era sindacabile in sede di impugnazione.

Ma non era questo l’unico vincolo, e neppure il più importante.

Il giudice, infatti, non poteva liquidare in favore della parte vittoriosa compensi al di sotto della “soglia minima” prevista dalla legge, fatta salva:

– da un lato, la previsione di cui al r.d.l. n. 1578 del 1933, art. 60 u.c., con riferimento al solo onorario per il caso di “facile trattazione” della causa, ovvero nell’ipotesi “manifesta sproporzione” di cui all’art. 4 c. 2 del d.m. n.127 del 2004 tra le prestazioni dell’avvocato e l’onorario previsto dalle tabelle (ma solo in presenza del parere obbligatorio del competente Consiglio dell’Ordine);

– dall’altro, la libertà del giudice di determinare discrezionalmente, ai fini della liquidazione della spese, il valore effettivo della lite (cfr. Cass., 14 luglio 2015, n. 14691).

Questa conclusione non era scalfita neppure dall’entrata in vigore del d.l. n. 223 del 2006 che ha cancellato il principio dell’inderogabilità dei minimi tariffari, in quanto tale principio, ormai non più applicabile nei rapporti tra avvocato e cliente, manteneva la propria efficacia quando il giudice doveva condannare il soccombente alle spese e procedere alla loro liquidazione (in questo senso, cfr. Cass., 10 maggio 2013, n. 11232).

Le cose cambiano con l’entrata in vigore della l. n. 27 del 2012 che ha abrogato le tariffe professionali, con la conseguente introduzione dei c.d. parametri.

Il d.m. n. 140 del 2012 ha stabilito, infatti, che “in nessun caso le soglie numeriche indicate… sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa” (art. 1 co 7).

Per un’applicazione giurisprudenziale del citato regolamento ministeriale, cfr. Cass., 16 settembre 2015, n. 18167.

L’approvazione della legge di riforma della professione forense n. 247 del 2012, cui segue l’introduzione dei nuovi ed attuali parametri di cui al d.m. n. 55 del 2014 segna una, molto parziale, restaurazione dello status quo ante.

L’art. 4 co 1 del citato regolamento ministeriale, infatti, prevede che il giudice, nella liquidazione delle spese processuali, debba tenere conto dei valori medi di cui alle tabelle.

Valori medi che, tuttavia, “possono essere aumentati, di regola, fino all’80%, o diminuiti fino al 50%” (per la fase istruttoria fino a + 100% e a – 70%).

L’espressione “di regola”, peraltro, sembra ribadire la discrezionalità del giudice nel derogare i valori tabellari, andando quindi oltre le percentuali di aumento, ma anche di riduzione previste dal d.m. n. 55 del 2014 (cfr., sul punto, Cass., 31 gennaio 2017, n. 2386; Cass., 30 settembre 2016, n. 44342).

Resta fermo che l’ulteriore riduzione deve essere adeguatamente motivata, in conformità con il disposto dell’art. 111 Cost. (cfr. sul punto, Cass., 12 gennaio 2016, n. 253; Cass. 12 febbraio 2014, n. 14335), mentre, al contrario, l’adozione dei valori medi (o, comunque, di valori compresi tra le soglie minime e massime) non richiede alcuna particolare motivazione.

Tuttavia, l’assenza di una copertura minima mette quantomeno in discussione non solo il diritto dell’avvocato ad un equo compenso, ma anche il principio chiovendiano secondo il quale il processo civile non deve tornare a danno di chi ha ragione.

Il problema è ancora più scottante con riferimento alla prestazioni professionali prestate dall’avvocato in regime di patrocinio a spese dello Stato.

Non vi è chi non veda, infatti, che qui liquidazioni non proporzionate alla qualità e alla quantità dell’attività prestata dall’avvocato nel corso del processo, magari giustificate dall’esigenza di ridurre gli oneri a carico della finanza pubblica, non restano prive di ricadute sul piano dell’effettività della tutela dei cittadini meno abbienti.