Doveri processuali del ricorrente per revocazione
di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDFCass., sez. VI, 27 settembre 2021, n. 26161, Pres. Lombardo – Est. Varrone
[1] Doveri processuali del ricorrente per revocazione – Onere della chiarezza e della sintesi espositiva – Mancato rispetto – Possibili conseguenze – Declaratoria di inammissibilità del ricorso – Fondamento (artt. 366, 395 c.p.c.)
Il ricorso per revocazione è soggetto al disposto dell’art. 366 c.p.c., secondo cui la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intellegibile del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c.; ne consegue che il mancato rispetto di tali requisiti espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, non consentendo la valorizzazione dello scopo del processo, volto, da un lato, ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nell’ambito dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU e, dall’altro, ad evitare di gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.
CASO
[1] Contro una sentenza della Corte di Cassazione, di rigetto del ricorso presentato avverso una sentenza della Corte d’Appello di Lecce, dichiarativa dell’estinzione del giudizio di appello, veniva proposto ricorso per revocazione per errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4), c.p.c.
Come risulta dal testo del provvedimento in commento, il ricorrente non avrebbe sviluppato le proprie censure formulando uno specifico motivo, essendosi limitato a ripercorrere le vicende sostanziali e processuali, senza tuttavia individuare uno specifico vizio revocatorio proprio della sola sentenza impugnata.
Ciò rilevato, il relatore ha formulato la proposta di dichiarare l’inammissibilità e la manifesta infondatezza del ricorso per revocazione presentato.
SOLUZIONE
[1] Il collegio, pur condividendo la proposta del relatore, in via preliminare ritiene inammissibile il ricorso proposto, in quanto privo dell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intelligibile del fatto che si assume essere oggetto dell’errore, nonché dell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395, n. 4), c.p.c.
Il ricorso per revocazione, infatti, risulta assoggettato al disposto dell’art. 366 c.p.c., il quale prevede, per l’appunto, che la formulazione del motivo debba avvenire nel rispetto delle regole appena ricordate (in tal senso, Cass., 14 gennaio 2011, n. 862, in motivazione).
Nella caso di specie, il ricorrente avrebbe omesso del tutto di compiere una doverosa sintesi dei fatti processuali, limitandosi a riportare stralci integrali del proprio ricorso per cassazione e delle successive memorie e, in tal modo, non avrebbe assolto l’onere di offrire una chiara e sintetica esposizione dei fatti della causa: questi ultimi, in altri termini, non sono stati sommariamente e sinteticamente esposti dal ricorrente, ma sono stati ricostruiti attraverso l’allegazione, nel corpo del ricorso, della trascrizione di brani degli atti del giudizio di appello e del giudizio di cassazione.
Tale tecnica redazionale non è ritenuta compatibile con i principi esposti, che definiscono le modalità di introduzione del giudizio di legittimità sulla base del disposto dell’art. 366 c.p.c. come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità.
Il ricorso, come anticipato, è stato dunque dichiarato inammissibile.
QUESTIONI
[1] La pronuncia in commento interviene su un tema di sicuro interesse per la realtà applicativa, chiarendo i requisiti di corretta redazione del ricorso per revocazione per errore di fatto ex art. 395, n. 4), c.p.c.
Ai sensi di tale norma, come noto, ricorre errore di fatto quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.
Tale tipologia di errore, in virtù dell’art. 391-bis c.p.c., può essere fatto valere anche contro le sentenze o le ordinanze della Cassazione; la legge prescrive, poi, che il rimedio debba essere esperito con ricorso, ai sensi degli artt. 365 ss. c.p.c., ossia le norme che disciplinano la forma di redazione del ricorso per cassazione.
Tra di esse, vi è l’art. 366 c.p.c., che descrive dettagliatamente il contenuto del ricorso. Di particolare rilevanza, ai fini dell’interpretazione della vicenda giudiziaria in commento, sono i requisiti prescritti ai nn. 3) e 4), dove è previsto, rispettivamente, che il ricorso debba contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti della causa e i motivi per i quali si richiede la revocazione.
Il requisito di cui al n. 3), che deve avere ad oggetto sia i fatti sostanziali che i fatti processuali necessari alla comprensione dei motivi, è posto non tanto nell’interesse della controparte, quanto in funzione del sindacato che la Corte di cassazione è chiamata a esercitare e, quindi, della verifica della fondatezza delle censure proposte. Da tale riflessione emerge l’esistenza di un rapporto di complementarità tra detto requisito e quello, successivo, della esposizione dei motivi per i quali si chiede la revocazione della sentenza, essendo l’esposizione sommaria dei fatti funzionale a rendere intellegibili, da parte della Corte, i motivi di ricorso formulati.
In altri termini, secondo il modello legale apprestato dall’art. 366 c.p.c., la Corte di cassazione, prima di esaminare i motivi, dev’essere posta in grado, attraverso una riassuntiva esposizione dei fatti, di avere contezza sia del rapporto giuridico sostanziale originario da cui è scaturita la controversia, sia dello sviluppo della vicenda processuale, in modo da poter procedere poi allo scrutinio dei motivi di revocazione munita delle conoscenze necessarie per valutare se essi siano deducibili e pertinenti; valutazione – questa – che è possibile solo se chi esamina i motivi sia stato previamente posto a conoscenza della vicenda sostanziale e processuale in modo complessivo e sommario, mediante una sintesi dei fatti che si fondi sulla selezione dei dati rilevanti e sullo scarto di quelli inutili.
Perciò – e questo è il punto di immediato interesse ai fini dell’illustrazione del principio di diritto affermato -, il difensore chiamato a redigere il ricorso deve procedere a elaborare autonomamente una sintesi della vicenda fattuale e processuale, selezionando i dati di fatto sostanziali e processuali rilevanti in funzione dei motivi di ricorso che intende formulare, in modo da consentire alla Corte di procedere poi allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, che le consenta di cogliere agevolmente il significato delle censure, la loro ammissibilità e la loro pertinenza rispetto all’ipotizzato errore percettivo compiuto.
L’esposizione sommaria dei fatti della causa, per essere funzionale alla comprensione dei motivi, dev’essere sintetica: requisito, questo, che assurge oggi a vero e proprio valore, in relazione alle modalità di redazione degli atti processuali.
Come affermato da Cass., 6 agosto 2014, n. 17698, il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per revocazione al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto contrastante con gli obiettivi di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. – nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, 2°co., Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU -, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui. Detta violazione, infatti, pregiudica la intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridonda nella violazione delle prescrizioni assistite dalla sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3) e 4) dell’art. 366 c.p.c.
L’esigenza di chiarezza espositiva è ancora più rilevante nel ricorso per revocazione che richiede, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395, n. 4), c.p.c., che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato.
L’errore in questione, pertanto, presuppone, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione.
L’errore di percezione, dunque, deve essere indicato con chiarezza e deve essere di immediato riscontro: nel ricorso che, nel caso di specie, è giusto all’attenzione della Suprema Corte, non era invece possibile comprende quale fosse l’errore percettivo concretamente lamentato dal ricorrente.
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