Doppia condanna per responsabilità aggravata? Anche no
di Claudio Bechis Scarica in PDFTrib. Genova, 28 ottobre 2016 – G. U. Del Nevo
Responsabilità aggravata per lite temeraria – Sussistenza del danno – Prova presuntiva – Sulla base degli atti di causa – Ammissibilità – Quantificazione del danno – Riadattamento parametri per la quantificazione dell’indennizzo dovuto per l’eccessiva durata del processo – Applicabilità (C.p.c. art. 96)
Responsabilità aggravata per lite temeraria – Condanna ex art. 96, comma 1, c.p.c. – Condanna contestuale al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c. – Legittimità (C.p.c. art. 96)
[1] Il danno da responsabilità processuale aggravata può desumersi in via presuntiva dalla durata del giudizio, secondo quanto risulta dagli atti; la sua liquidazione può compiersi anche alla stregua del principio della ragionevole durata del processo e dei parametri di calcolo del relativo indennizzo.
[2] Fermo restando il comune presupposto operativo della soccombenza totale dell’obbligato, la condanna alle spese per temerarietà della lite di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c. (riguardante chi abbia agito o si sia difeso in giudizio con dolo o colpa grave) è compatibile con la contestuale condanna d’ufficio al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96, comma 3, c.p.c.; perché quest’ultima sanziona – in ossequio una duplice finalità riparatoria e dissuasiva – un più ampio fascio di condotte, caratterizzate dalla violazione dei doveri di lealtà e probità processuale.
CASO
[1, 2] La sentenza in epigrafe testimonia un utilizzo marcatamente punitivo del potere di liquidazione delle spese di lite, ai danni di due diverse società – l’una oppostasi allo sfratto per morosità, l’altra intervenuta nel conseguente processo locatizio quale cessionaria dell’azienda relativa al contratto disputato – ree di essersi difese con tesi inconsistenti (sostenendo che la comunicazione al locatore ceduto ex art. 36, l. 27 luglio 1978 n. 392 non è necessaria a fronte dell’iscrizione in CCIAA del trasferimento aziendale), di aver fatto valere crediti indimostrati e, quel che è peggio, la sola intimata, di aver clandestinamente tentato di risollevare questioni già bonariamente definite (in merito allo stato del solaio dell’immobile locato); il tutto, avanzando in via riconvenzionale domande risarcitorie rivelatesi infondate, anche a titolo di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
SOLUZIONE
[1, 2] Nel confermare l’ordinanza di rilascio pronunciata all’esito della fase sommaria del giudizio, il Tribunale ha accolto anche le domande risarcitorie avanzate dal locatore a titolo di responsabilità processuale aggravata nei riguardi di entrambe le suddette società, ritenendo – in aderenza alla più recente impostazione della Suprema Corte: cfr. Cass., 27 novembre 2007, n. 24645, in Mass. 2007, Cass., 30 aprile 2010, n. 10606, ivi, 2010 e Cass., 12 ottobre 2011, n. 20995 – di poter desumere l’ammontare dei danni imputabili all’una e all’altra sulla base della durata del giudizio risultante dagli atti, attingendo ai parametri dettati dall’art. 2 bis, l. 24 marzo 2001, n. 89, anche alla luce degli insegnamenti della giurisprudenza della Cedu (cfr. Cass., 26 gennaio 2006, n. 1630, in Mass., 2006).
Il Giudice ha quindi applicato l’importo massimo dell’indennizzo attribuibile per il disagio psicologico determinato da un intero anno di giudizio in eccesso (€ 1.500,00) ad ogni singolo mese di processo successivo alla costituzione delle due società in discorso (rispettivamente, 5 e 7 mesi), condannate a risarcire al locatore, l’intimata, la somma di € 10.500,00 e, l’intervenuta, la somma di € 7.500,00.
Il Tribunale ha inoltre chiarito che nulla osta alla congiunta applicazione delle due diverse condanne di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 96 c.p.c., perché la seconda non richiede il dolo o la colpa grave ma risponde ad una duplice ratio, compensativa e deterrente dalla trasgressione ai doveri di lealtà e probità imposti alle parti e ai loro difensori dall’art. 88 c.p.c.
Sulla base di tali premesse – a causa del silente tentativo di riproporre doglianze transatte – l’intimata è stata altresì condannata a corrispondere al locatore l’ulteriore importo equitativamente determinato di € 10.500,00 oltre interessi e rivalutazione a far data dalla propria costituzione, a fronte di una condanna alle spese ex art. 91 c.p.c. all’incirca equivalente e di una morosità complessiva da sanare pressoché pari ad € 20.000,00.
QUESTIONI
[1, 2] La pronuncia in epigrafe pone e risolve positivamente il quesito – per quanto consta, inedito – della possibilità di dar corso ad una doppia condanna ai sensi dei commi 1° e 3° dell’art. 96 c.p.c.
Come noto, l’ultimo capoverso della citata norma è stato introdotto dall’art. 45, comma 12, l. 18 giugno 2009, n. 69 – con il conseguente assorbimento tra le disposizioni generali del codice dell’analogo istituto già riservato al giudizio di legittimità dall’art. 385, comma 4, c.p.c. (contestualmente abrogato) – al fine di rivitalizzare in ottica deflattiva (cfr. scheda di lettura dell’Ufficio studi del Senato al d.d.l. S1082, in www.senato.it) la condanna aggravata alle spese ex art. 96 c.p.c., approdata ad un sostanziale fallimento operativo a causa della probatio diabolica del danno derivato dalla condotta processuale dolosa o gravemente colposa della controparte (imposta dalla configurazione dogmatica della relativa responsabilità quale species del genus aquiliano ex art. 2043 c.c., da cui deriva l’impossibilità di farla valere in altro apposito processo, anche a fronte di colpa lieve e a prescindere dalla soccombenza totale dell’obbligato: cfr. Gasperini, Domanda cautelare e responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., in Riv. Dir. Proc., 1996, 885 ss).
La scarsità delle indicazioni positive conferisce al nuovo istituto ampie potenzialità applicative, dalle quali pone in guardia non solo la previsione, in un contesto processuale dominato dal principio dispositivo, dell’iniziativa officiosa del giudice (in assenza di alcun corrispondente diritto delle parti: cfr. Cass. 11 febbraio 2014, n. 3003, in Mass., 2014), ma anche la mancata indicazione ex lege di limiti quantitativi al potere equitativo in analisi (diversamente da quanto rilevabile con riferimento all’espunto comma 4 dell’art. 385 c.p.c., che fissava il tetto del doppio dei massimi tariffari); dato, quest’ultimo, che non ha mancato di dare luogo a considerevoli ricadute concrete (cfr. Trib. Milano, 12 gennaio 2012, in Danno e resp., 2012, 661 ss, con nota di Brenda, L’art. 96, co. 3 c.p.c. ed i punitive damages. Considerazioni in margine ad un caso giudiziario, per una condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. superiore a sei milioni di euro).
Va da sé che – nonostante il condivisibile sforzo della magistratura di individuare criteri di quantificazione prevedibili e razionali (cfr. Cass., 30 novembre 2012, n. 21570, secondo cui “la responsabilità della parte in malafede ben può essere – anche – calibrata sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, sempre con il limite della ragionevolezza”, ravvisato da Cass., 22 ottobre 2014, n. 22465, in Mass., 2014, nell’ammontare delle spese di lite moltiplicato per dieci), anche in aderenza ai suggerimenti offerti dall’art. 2 bis, commi 2 e 3, l n. 89/2001 cit. (cfr. Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010, in Giur. Merito, 2011, 2700 ss, con nota di Barreca, La responsabilità processuale aggravata: presupposti della nuova disciplina e criteri di determinazione della somma oggetto di condanna, nel guardare al grado di gravità della colpa, alla durata del processo nonché al valore, alla natura e all’oggetto della causa) – resta palpabile il pericolo della lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost. (cfr. Scarselli, Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso, in www.judicium.it, passim e par. 3, nello scoraggiare possibili esegesi pubblicistico-autoritarie).
In particolare, l’incipit della norma (“in ogni caso”), alla stregua di quanto supposto dall’annotata pronuncia, potrebbe indurre a ritenere che l’istituto in analisi risulti sganciato, oltre che dal presupposto oggettivo dell’esistenza di un danno risarcibile, anche dai tradizionali requisiti soggettivi della responsabilità aggravata, attribuendo altresì rilevanza alla mera colpa lieve ex art. 88 c.p.c. (sull’inammissibilità di soluzioni prossime alla responsabilità oggettiva, cfr. Russo, Sui presupposti della responsabilità processuale prevista dal nuovo comma 3 dell’art. 96 c.p.c., in Giur. it., 2011, 157 ss e Barreca, cit., par. 3).
Invero, già allo stato si registra il consolidarsi di un orientamento della Suprema Corte teso a contenere l’utilizzo dello strumento in analisi – teleologicamente inteso in ottica non solo riparatoria, ma anche sanzionatoria (cfr. C. Cost., 23 giugno 2016, n. 152, in Foro it., 2016, 2639 ss, con nota di D’Alessandro) – il quale, per quanto svincolato dalla sussistenza (e dunque dalla prova) di un danno effettivo, risulta comunque inquadrato nell’ambito dell’art. 96 c.p.c. e dunque pur sempre ancorato allo standard minimo di imputabilità della colpa grave (cfr. Cass. 30 novembre 2012, n. 21570, in Mass., 2012 e Cass. 18 novembre 2014, n. 24546, in Mass., 2014, nel ricordare che “agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile”), da apprezzarsi essenzialmente in funzione dell’inconsistenza delle difese avanzate (cfr., con particolare riferimento al giudizio di appello, Cass. 21 gennaio 2016, n. 1115, in Mass., 2016 e Cass. 19 aprile 2016, n. 7726, ibidem, la quale precisa come tale valutazione debba riguardare “l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa”), sulla base di un accertamento incensurabile in sede di legittimità purché adeguatamente motivato (cfr. Cass. 12 gennaio 2010, n. 327, in Mass., 2010 e Cass. 22 ottobre 2014, n. 22465, cit. e Cass. 30 ottobre 2015, n. 22289, ivi, 2015). Tale orientamento è poi incompatibile con la seconda massima, poiché la natura comune alle due previsioni impedisce due condanne cumulative ai sensi del 1° e del 3° comma dell’art. 96 c.p.c.
La sentenza in epigrafe si colloca nel solco di quella giurisprudenza di merito che ha voluto valorizzare l’indole repressiva dell’istituto in questione, espressamente accostato ai c.d. punitive damages dei sistemi di common law (cfr. Trib. Piacenza, 7 dicembre 2010, cit.), i quali, solo dieci anni or sono, sono stati ritenuti contrari all’ordine pubblico interno dalla Corte di cassazione (poiché contrastanti con la finalità squisitamente ripristinatoria della nostra responsabilità civile: v. Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in Giur, it., 2008, 395 ss, con nota di Giussani, Resistenze al riconoscimento delle condanne al pagamento dei punitive damages: antichi dogmi e nuove realtà).
Tenuto conto delle rimarcate criticità e dei valori costituzionali in gioco, la tesi “della responsabilità doppiamente aggravata” non appare condivisibile, non solo perché idonea a dar luogo a duplicazioni risarcitorie e quindi ad ingiustificati arricchimenti, ma anche perché probabilmente in contrasto con la stessa littera legis (posto che l’avverbio “altresì” di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c. si direbbe riferirsi esclusivamente alla sola condanna alle spese ex art. 91 c.p.c. ivi richiamata).
Del resto, la stessa introduzione della disposizione in esame quale reazione all’inefficienza del previgente art. 96 c.p.c. induce a confinarne l’operatività in un ambito residuale rispetto al raggio d’azione dei primi due commi della norma (per l’appunto, quale rimedio al difetto della prova del danno); ferma restando peraltro la tendenziale opportunità di non assecondare tendenze normative che mirano a scoraggiare l’esercizio del diritto d’azione attraverso l’incremento eccessivo del rischio di causa (cfr. artt. 91, comma 1, secondo periodo, nuovo 92, comma 2 e 283, comma 2, c.p.c. nonché art. 13, comma 1 quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115).