23 Novembre 2021

Divieto di frazionamento del credito e natura del giudicato che ne accerta la violazione

di Franco Stefanelli, Avvocato Scarica in PDF

Cass., Sez. II., ud. 27 gennaio 2021, 9 settembre 2021, n. 24371, Pres. D’Ascola – Est. Cosentino. 

[1] Analogia di crediti per oggetto o titolo – Domande proposte in distinti giudizi pur in presenza di relazione unitaria, anche di fatto, tra le parti – Improponibilità delle stesse – Riproponibilità in cumulo oggettivo ex art. 104 cpc – Possibilità (cod. proc. civ., artt. 100, 104; cod. civ., artt. 1375, 2909)

Le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi, ancorché diversi, si inscrivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia, a meno che l’attore non abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad esercitare l’azione solo per uno o alcuni dei predetti crediti. L’improponibilità della domanda, conseguente alla violazione di tale divieto, non preclude tuttavia al creditore la facoltà di riproporre la stessa in giudizio, in cumulo oggettivo ex art. 104 c.p.c. con tutte le altre relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti. (Nella specie la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, dando esclusivo rilievo alla riscontrata inesistenza di un unico incarico professionale – aveva escluso la parcellarizzazione del credito in un’ipotesi in cui un avvocato aveva ottenuto una pluralità di decreti ingiuntivi, tutti uguali tra loro perché fondati su identici riconoscimenti di debito, emessi a fronte dell’attività professionale svolta in maniera seriale e continuativa nell’ambito di un unico rapporto pluriennale).

[2] Cosa giudicata civile – Limiti del giudicato – Accertamento su improponibilità della domanda per violazione del divieto di frazionamento del credito – Vizio di natura processuale – Conseguenze – Efficacia preclusiva in altro giudizio – Esclusione (cod. proc. civ., art. 324; cod. civ., art. 2909)

La violazione del divieto di indebito frazionamento del credito, costituendo una statuizione su una questione processuale, dà luogo ad un giudicato meramente formale e, come tale, ha un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è pronunciata; ne consegue che è possibile la riproposizione della medesima questione in un successivo giudizio tra le stesse parti e che in quest’ultimo giudizio possa essere diversamente risolta, con la dichiarazione della proponibilità della domanda. 

CASO

In un arco temporale di circa sei mesi, l’avv. Tizio ottenne dal Giudice di Pace di Roma n. 38 decreti ingiuntivi per il pagamento di prestazioni professionali svolte in favore di una società edile.

Uno di questi decreti, per € 2.704,27, venne opposto dalla società ingiunta e l’opposizione fu accolta dal Giudice di Pace di Roma. Il Tribunale di Roma, investito dell’appello dell’avv. Tizio, riformava la sentenza del giudice di pace, rigettando l’opposizione al decreto ingiuntivo. Il tribunale, in primo luogo, disattendeva le eccezioni preliminari sollevate dalla società edile in ordine alla inammissibilità dell’appello ed alla proponibilità dell’azione monitoria dell’avv. Tizio. Quanto alla prima, escludeva che la domanda proposta in secondo grado, di accertamento del credito professionale e condanna della controparte al relativo pagamento, fosse diversa da quella azionata in via monitoria. Quanto alla seconda, escludeva che nella specie ricorresse un’ipotesi di illegittima parcellizzazione del credito; secondo il tribunale, infatti, dalla documentazione prodotta emergeva che la società aveva conferito al professionista una pluralità di incarichi diversi, facenti capo a distinti rapporti contrattuali, cosicché non poteva parlarsi di un unico rapporto obbligatorio. Nel merito, il tribunale affermava che il credito azionato in via monitoria risultava provato da un preavviso di parcella che riportava la dicitura “per presa visione e accettazione”, sottoscritto, come accertato all’esito di c.t.u. grafologica, dall’allora Presidente della società, con conseguente inversione dell’onere della prova ex art. 1998 c.c. Il tribunale altresì disattendeva l’eccezione di pagamento sollevata dalla Cooperativa, rilevando che legittimamente l’avv. Tizio aveva imputato i versamenti documentati dalla Cooperativa (per il complessivo importo di € 115.503,74) a prestazioni, diverse da quella dedotta in giudizio, riferibili alle fatture che lo stesso avv. Tizio aveva prodotto.

La società edile ha richiesto la cassazione della sentenza del tribunale sulla scorta di tredici motivi e l’avv. Tizio ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

SOLUZIONE

[1] La seconda sezione della Corte di cassazione, riprendendo, con alcune precisazioni, il principio già espresso da Cass. SS.UU. n. 4090/2017 ha affermato che le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo, in quanto fondati su analoghi, seppur diversi, fatti costitutivi, non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi si inserivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia; tale divieto processuale, tuttavia, non opera quando l’attore abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad azionare in giudizio solo uno, o solo alcuni, dei crediti sorti nell’ambito della suddetta relazione unitaria le parti. La violazione dell’enunciato divieto processuale è sanzionata con l’improponibilità della domanda, ma resta ferma la possibilità di riproporre in giudizio la domanda medesima, in cumulo oggettivo, ai sensi dell’art. 104 c.p.c., con tutte le altre domande relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti.

[2] La natura squisitamente processuale del vizio conseguente alla violazione del divieto di indebito frazionamento del credito, vale a dire l’improponibilità della domanda, esclude che la statuizione che ne abbia affermato la sussistenza, contenuta in una sentenza pronunciata in altro giudizio tra le stesse parti e passata in giudicato, possa esplicare efficacia preclusiva di una sua differente soluzione in altro giudizio, pendente tra le stesse parti, in cui La medesima questione sia stata dedotta o comunque rilevata. Infatti, la statuizione su una questione processuale dà luogo ad un giudicato meramente formale ed ha, come tale, un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è stata pronunciata (cfr. Cass. n. 23130/2020; n. 10641/2019; Cass. n. 7303/2012; Cass. n. 22212/2004; Cass. n. 17248/2003), ma non impedisce né che la medesima questione sia riproposta in un successivo giudizio tra le stesse parti, né a fortiori che, in quest’ultimo giudizio, la predetta questione sia diversamente risolta, dichiarando, cioè, la proponibilità della domanda.

QUESTIONI

[1] Con il secondo motivo di ricorso, fondato nei termini che seguiranno, riferito all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 la società edile denunciava la violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e 111 Cost., degli artt. 1175 e 1375 c.c. e dell’art. 115 c.p.c.; lamentava, ancora, l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione su punti decisivi della controversia; la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2909 c.c. Nel motivo, la ricorrente censurava la statuizione dell’impugnata sentenza secondo cui, nella specie, non si trattava di un unico rapporto obbligatorio – artificiosamente frazionato in una pluralità di richieste giudiziali di adempimento – bensì di una pluralità di autonomi e distinti rapporti d’opera professionale. Al contrario, argomentava la ricorrente, essa aveva intrattenuto con l’avv. Tizio un pluriennale rapporto di mandato professionale, protrattosi per oltre quattro anni e mezzo, in esecuzione del quale il professionista aveva ricevuto ed eseguito una pluralità di incarichi. Nel mezzo di impugnazione si sottolineava, ancora, come il decreto ingiuntivo emesso fosse soltanto uno dei trentotto decreti ingiuntivi ottenuti dall’odierno resistente azionando altrettanti preavvisi di parcella, tutti uguali tra loro perché fondati su identici riconoscimenti di debito, emessi a fronte dell’attività professionale svolta dall’avvocato in maniera seriale e continuativa nell’ambito del suddetto unico rapporto pluriennale. Nel motivo, si faceva altresì un fugace riferimento (compiutamente sviluppato nel terzo mezzo di ricorso) all’accertamento della unicità del rapporto contenuto in una sentenza del Giudice di pace di Roma (passata in giudicato e prodotta in secondo grado). Da ultimo la ricorrente argomentava come l’unitarietà del mandato di assistenza legale intercorso tra la società e l’avv. Tizio sarebbe risultato con certezza da numerose risultanze processuali che il tribunale aveva omesso di esaminare.

Il tribunale aveva ritenuto che il credito azionato dall’avv. Tizio con il ricorso per decreto ingiuntivo non derivasse, rispetto alle pretese fatte valere con gli altri ricorsi monitori, da un unico rapporto obbligatorio, vale a dire da un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. Tizio. In particolare, valorizzando la dichiarazione di revoca “di tutti gli incarichi a suo tempo conferiti” formulata dalla stessa società, ha ritenuto che l’attività professionale svolta dall’avv. Tizio nel corso degli anni in favore della società ingiunta non configurasse un unico rapporto contrattuale di consulenza e di assistenza legale e, in forza di tale apprezzamento, ha escluso che il tribunale avesse violato il divieto di parcellizzazione del credito.

Tale conclusione non è, tuttavia, ritenuta giuridicamente corretta dalla Corte di cassazione investita del ricorso.

Infatti, come noto, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato il principio per cui non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di proporre plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo. La scissione del contenuto dell’obbligazione, così operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone infatti in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007). E così, sulla scorta di tale intervento nomofilattico delle Sezioni Unite è stato, di recente, affermato che “… non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale” (Cass. n. 19898/2018; conf. Cass. n. 15398/2019; Cass. n. 26089/2019; Cass. n. 9398/2017 e Cass. n. 17019/2018).

Si è posto, tuttavia, il problema se il principio così affermato, secondo il quale è vietato l’indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un “unico rapporto obbligatorio”, debba, o meno, trovare applicazione (ed, eventualmente, in quali limiti) nella diversa ipotesi in cui siano state proposte distinte domande per far valere pretese creditorie diverse, ma derivanti da un medesimo rapporto contrattuale, quale fonte unitaria di obblighi e doveri per le parti e produttivo di crediti collegabili unitariamente alla loro genesi, e cioè la volontà delle parti di stipulare un contratto, specie quando si tratta di controversie (recuperatorie di crediti) promosse a rapporto concluso, quando, cioè, il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto è ormai noto e consolidato. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4090/2017, si sono pronunciate sul punto ed hanno affermato che, in linea di principio, le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Tuttavia, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale, le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (conf., in seguito, Cass. n. 17893/2018; Cass. n. 6591/2019).

La sentenza n. 4090/2017 ha evidenziato che il principio dell’infrazionabilità del singolo diritto di credito affermato dalla sentenza n. 23726/2007 (“decisamente condivisibile, nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell’oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l’estensione considerata dall’ordinamento”) non comporta inevitabilmente che il creditore debba agire nello stesso processo per far valere “diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso” intercorrente tra le medesime parti.

D’altra parte, hanno ulteriormente osservato le Sezioni Unite del 2017, il creditore può, finanche in relazione ad un singolo, unico credito, agire con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua senza per questo incorrere in un abuso dello strumento processuale per frazionamento del credito. Invero, “l’onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero essere maturati in tempi diversi, avere diversa natura (ad esempio – come frequentemente accade in relazione ad un rapporto di lavoro retributiva e risarcitoria), essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettivamente complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore, traducendosi quasi sempre – non in un alleggerimento bensì – in un allungamento dei tempi del processo, dovendo l’istruttoria svilupparsi contemporaneamente in relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro distanti nel tempo. È verosimile che per questa via il processo (lungi dal costituire un agile strumento di realizzazione del credito) finisca per divenire un contenitore eterogeneo smarrendo ogni duttilità, in violazione del principio di economia processuale, inteso come principio di proporzionalità nell’uso della giurisdizione”.

Del resto, “l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia. Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese (consulenza, assicurazione, locazione, finanziamento, leasing), l’idea che essi debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati – pena la perdita della possibilità di farli valere in giudizio – in un unico processo monstre (meno “spedito” dei processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un sistema inteso a garantire l’agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la circolazione del danaro e ad incentivare gli scambi e gli investimenti”.

Tuttavia, hanno aggiunto le Sezioni Unite del 2017, “se è vero… che la citata disciplina ipotizza la proponibilità delle pretese creditorie suddette in processi (e tempi) diversi, è anche vero che essa è univocamente intesa a consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei suddetti processi e comunque ad attenuare o elidere gli inconvenienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi” […] “nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda “esistenziale”, sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide negativamente sulla “giustizia” sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata), sulla durata ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale) nonché, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione al rischio di giudicati contrastanti)”.

Le Sezioni Unite del 2017, quindi, hanno affermato che – se domande relative a singoli crediti distinti, pur se riferibili al medesimo rapporto di durata, sono proponibili separatamente – le pretese inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato (che, pertanto, possano ritenersi già in esso deducibili o rilevabili), nonché, ed in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo, possono tuttavia proporsi separatamente solo se l’attore risulti in ciò “assistito” da un oggettivo interesse al frazionamento. Interesse la cui carenza può essere rilevata d’ufficio dal giudice il quale, però, è tenuto ad indicare alle parti la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, assegnare alle stesse il termine previsto dall’art. 101 c.p.c., comma 2 (per l’applicazione di tali principi, cfr., in seguito, Cass. n. 31012/2017 e n. 17893/2018; viceversa, per l’applicazione del principio del divieto di frazionamento in caso di unico rapporto contrattuale senza ulteriori distinzioni, v. Cass. n. 4016/2016, la quale ha sostenuto che sussiste indebito frazionamento di pretese, dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio, anche nel caso di unico rapporto di lavoro, fonte di crediti di natura contrattuale e legale, specie se i giudizi siano promossi quando le obbligazioni sono note e consolidate per essersi il suddetto rapporto già concluso, con conseguente necessità di evitare l’aggravamento della posizione del debitore nel rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede contrattuali e in coerenza con il principio anche sovranazionale del giusto processo, volto alla razionalizzazione del sistema giudiziario, che non tollera frammentazioni del contenzioso con pericolo di giudicati contrastanti).

Il principio della proponibilità in separati processi di domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito soffre dunque di due possibili eccezioni, tra loro alternative, che operano nel caso in cui i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche riconducibili al “medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato” ovvero siano “fondati sul medesimo fatto costitutivo”. Nell’una e nell’altra ipotesi, infatti – poiché le distinte pretese creditorie non possono essere accertate in altrettanti distinti giudizi se non a costo di una duplicazione dell’attività istruttoria e di una conseguente dispersione di conoscenza dell’identica “vicenda sostanziale” (“sia pure connotata da aspetti in parte dissimili”) che è stata dedotta, in ragione dei differenti diritti di credito azionati, nell’uno e nell’altro giudizio – le domande giudiziali relative a tali pretese non possono essere proposte separatamente, a meno che, ed è questo un dato imprescindibile, risulti dagli atti di causa che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla loro tutela processuale separata.

La prima ipotesi (che la sentenza delle Sezioni Unite tratta espressamente) si configura, come detto, nel caso in cui le distinte pretese creditorie conseguenti al medesimo rapporto contrattuale tra le parti “sono in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato” perché hanno in comune le questioni relative all’esistenza del rapporto stesso ovvero alla validità o all’efficacia del relativo titolo. La giurisprudenza di questa Corte, in effetti, ritiene che, in caso di rapporti contrattuali complessi, il giudicato – che pure ha per oggetto esclusivo la singola situazione giuridica soggettiva azionata (che segna, quindi, i suoi limiti oggettivi) e non produce quindi alcun effetto preclusivo in ordine agli altri diritti derivanti dal medesimo rapporto né ai diritti maturati in relazione a differenti segmenti o frazioni dello stesso, copre, tuttavia, in quanto necessariamente compreso nell’ambito oggettivo della prima domanda, anche l’accertamento già compiuto in ordine alle questioni di fatto e di diritto comuni ad entrambe le domande (come l’esistenza del rapporto stesso dal quale lo stesso trae origine oppure la validità e l’efficacia del relativo titolo), quale necessario presupposto logico-giuridico del diritto fatto valere (cfr., in tal senso, Cass. SS.UU. n. 15896/2006; Cass. SS.UU. n. 13916/2006; di recente, Cass. n. 5486/2019; Cass. n. 13152/2019; Cass. n. 28318/2017; in materia di lavoro, in particolare, Cass. n. 9317/2013, in motiv., Cass. n. 4282/2012, in motiv.).

In tali situazioni, quindi, secondo le Sezioni Unite, onde evitare il rischio di giudicati contrastanti e la duplicazione dell’attività istruttoria, ma anche per favorire la giustizia sostanziale delle decisioni e la rapida definizione della controversia tra le parti, la domanda che abbia ad oggetto una delle pretese scaturenti dal rapporto contrattuale non può essere proposta separatamente da quella che abbia ad oggetto una distinta pretesa derivante dal medesimo rapporto contrattuale quando, sia pur soltanto nei limiti delle questioni di fatto e di diritto comune ad entrambe le domande (quali l’esistenza, la validità e l’efficacia del rapporto stesso), la seconda sia già compresa nell’ambito oggettivo del primo giudizio (“l’ordinamento guarda con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo “ambito” oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di “preclusione” dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall’esigenza di evitare, ove possibile, la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale”), con salvezza, naturalmente, del caso in cui il creditore sia portatore di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela frazionata delle pretese.

L’altra ipotesi (che non è specificamente trattata dalle Sezioni Unite del 2017, se non in sede di decisione sul ricorso, che ha rigettato sul rilievo che, essendo stati azionati crediti non solo tra loro distinti ma anche fondati su una differente fonte, una contrattuale ed una legale, non si poneva alcuna necessità di verificare la sussistenza di un apprezzabile interesse del creditore per giustificare la tutela frazionata) si riferisce al caso in cui le pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche fondate sul “medesimo fatto costitutivo”: dovendosi, evidentemente, ritenere come tale, onde evitare la contraddizione che non lo consente, non già il medesimo fatto storico costitutivo del diritto ai sensi dell’art. 1173 c.c., poiché in tal caso si configurerebbe in realtà l’ipotesi del “medesimo diritto” di credito (per il quale, come detto, il divieto di tutela giudiziale frazionata era stato già sancito dalle SS.UU. con la sentenza n. 23726/2007: si pensi, ad esempio, al credito relativo al prezzo dovuto per una singola fornitura o al compenso spettante per un singolo incarico professionale), ma come fatto (sia pur storicamente diverso ma) della stessa natura di quello che, nell’ambito del medesimo rapporto tra le parti, è stato già dedotto in giudizio: l’uno e l’altro, quindi, costitutivi di più crediti ontologicamente distinti (pur se riconducibili allo stesso rapporto tra le parti), ma tra loro giuridicamente simili (come, ad esempio, i corrispettivi dovuti in conseguenza di distinte forniture rese in esecuzione del medesimo contratto quadro, i compensi dovuti per l’esecuzione di differenti incarichi resi nell’ambito del medesimo contratto di consulenza professionale, ecc.).

Nelle suddette situazioni il creditore che ha maturato pretese che – pur tra loro distinte (per i differenti fatti storici da cui hanno avuto origine), e, come tali, insuscettibili di essere coperte, salvo che per le questioni comuni, dal giudicato formatosi sul diritto relativamente ad un diverso periodo dello stesso rapporto di durata tra le parti (Cass. n. 4282/2012, in motiv., in cui è ripetuto che nei rapporti di durata i singoli periodi individuano titoli differenti pertanto insuscettibili, comunque, di essere “forzosamente” coperti dal giudicato unitario; conf. Cass. n. 9317/2013, in motiv.) – risultino tuttavia (oltre che riconducibili al medesimo rapporto, anche) fondate su fatti costitutivi tra loro simili o analoghi (pur se storicamente distinti), non può agire per la loro tutela processuale proponendo distinte domande giudiziali (a meno che non abbia un interesse apprezzabile alla separazione dei relativi processi).

La Corte di Cassazione, con la pronuncia qui annotata, ha ritenuto che tale soluzione debba trovare necessariamente applicazione, per l’evidente comunanza di ratio, non soltanto al caso (del quale le Sezioni Unite si sono occupate) del creditore (asseritamente) titolare di distinte pretese creditorie, ma riconducibili a distinti (ma simili) fatti costitutivi che si sono verificati nell’ambito del medesimo rapporto contrattuale, come quello di lavoro subordinato, che ne abbia disciplinato il compimento (le prestazioni lavorative) e gli effetti (il credito alle conseguenti retribuzioni), ma anche al caso in cui le pretese creditorie separatamente azionate siano riconducibili a fatti costitutivi storicamente distinti che si sono verificati nel contesto di un rapporto di durata tra le parti che non ha avuto origine nella stipulazione di un contratto che ne regolasse gli effetti (quanto meno) tutte le volte in cui si tratti di fatti che, seppur distinti, sono tra loro simili (come l’esecuzione di distinti incarichi professionali ovvero di distinte forniture: che è, a bene vedere, proprio il caso deciso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 23726/2007, relativa, appunto, ad una vicenda in cui una società aveva chiesto e ottenuto “un distinto decreto ingiuntivo per ogni fattura (o gruppo di fatture) non pagata”) ed, in quanto tali, idonei a costituire, tra le stesse parti, diritti di credito giuridicamente eguali, come i crediti ai corrispettivi dovuti per le distinte forniture ovvero dei compensi dovuti per l’esecuzione di differenti incarichi professionali (cfr., in tal senso, in motivazione Cass. n. 31308/2019, relativa a credito professionale e Cass. n. 24130/2020). In tali (e in altre simili) ipotesi, infatti, la contemporanea sussistenza di crediti giuridicamente eguali, che siano riconducibili (come pretendono le Sezioni Unite) nell’ambito di un “rapporto” che, nel corso del tempo, si sia venuto a determinare (pur se in via di mero fatto) tra le stesse parti, ne impone la deduzione (ove esigibili) nello stesso giudizio (salvo che l’attore non abbia, e da ciò non può prescindersi, un oggettivo interesse alla loro tutela frazionata). Ciò in ragione dei doveri inderogabili di correttezza e buona fede che derivano dal più ampio “contatto sociale” tra esse così formatosi e che devono improntare, in termini di salvaguardia e di protezione dell’altrui interesse (art. 2 Cost.), i comportamenti delle parti, oltre che durante l’esecuzione dei singoli contratti, anche nella fase della tutela giudiziale dei relativi diritti di credito (cfr. Cass. SS.UU. n. 23726/2007; Cass. n. 9317/2013, in motiv.), evitando di aggravare (si pensi, ad esempio, alla moltiplicazione degli oneri conseguenti alle spese processuali), con plurime iniziative giudiziarie, la posizione della controparte.

Quanto detto rileva nei casi in cui l’interesse sostanziale del creditore poteva essere adeguatamente tutelato anche con una domanda unitaria, trattandosi, a ben vedere, di pretese sì distinte sul piano giuridico ma, in definitiva, concernenti pur sempre la medesima vicenda “esistenziale” e “sostanziale” (sia pure connotata da aspetti in parte dissimili): la cui trattazione dinanzi a giudici diversi, come le Sezioni Unite hanno espressamente evidenziato, incide negativamente non solo sulla “giustizia” sostanziale della decisione, che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata, ma anche sulla durata ragionevole dei relativi processi, in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale su vicende fattualmente distinte ma tra loro simili e, spesso, connotate dall’esecuzione di prestazioni analoghe in contesti temporali ristretti (si pensi alle diverse consegne dei beni forniti all’acquirente ad opera dello stesso vettore che sia chiamato a rendere le relative testimonianze) nonché, infine, sulla stabilità dei rapporti, in relazione al rischio di giudicati contrastanti.

Si pensi, in particolare, all’eccezione (sollevata dalla società ricorrente proprio nel giudizio all’esito del quale è stata emessa la pronuncia qui annotata) di imputazione dei pagamenti eseguiti dalla parte convenuta nel corso del tempo, la quale, evidentemente, può essere senz’altro meglio apprezzata dal giudice di merito se tutte le domande relative ai crediti eventualmente residui siano state proposte nello stesso giudizio, onde evitare il rischio (che in caso di proposizione separata delle relative domande può riverberarsi tanto ai danni del creditore che agisce per il loro pagamento, quanto ai danni del debitore che eccepisce di averne eseguito il pagamento) che i pagamenti eseguiti siano ritenuti, da alcuni giudici, estintivi del singolo credito azionato, pur essendo imputabili a crediti che hanno costituito l’oggetto di domande proposte in distinti processi, e, da altri giudici, invece, imputati ai crediti azionati con altre domande (o, addirittura, a crediti non azionati) pur avendo, in realtà, estinto proprio il credito vantato in quel giudizio.

Di tali esigenze, del resto, si è fatta carico la giurisprudenza delle Sezioni Unite anche in altre decisioni, come è accaduto, in particolare, con la sentenza n. 12310/2015 in materia di modificabilità della domanda ai sensi dell’art. 183 c.p.c.. Tale sentenza, in effetti, ha ribadito l’esigenza “di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione o di riunione di procedimenti)”, e, quindi, di evitare che, una volta proposta una domanda innanzi ad un giudice, sia, poi, proposta una nuova domanda (con indubbio spreco di attività e risorse) dinanzi ad un altro giudice che sia chiamato a conoscere della medesima vicenda, sia pure sotto aspetti in parte dissimili, con effetti incidenti negativamente, oltre che sui principi già enunciati anche sulla ragionevole durata dei processi, valore costituzionale da perseguire anche nell’attività di interpretazione delle norme processuali da parte del giudice. In quest’ultimo senso, del resto, si erano già pronunciate le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 23726/2007 “per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata”.

Le Sezioni Unite, d’altra parte, in tema di responsabilità disciplinare a carico degli avvocati, hanno affermato che costituisce violazione dell’art. 49 del codice deontologico forense l’intraprendere contro la stessa parte assistita iniziative giudiziarie plurime e non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale, a tutela delle proprie ragioni economiche relative ad un rapporto professionale svoltosi continuativamente per un lungo periodo di tempo, così da aggravare la posizione della controparte, costretta a sostenere il cumulo delle spese giudiziali, invece di procedere ad un accorpamento delle posizioni in contestazione (Cass. SS.UU. n. 14374/2012, che si è pronunciata, riconoscendo la responsabilità disciplinare dell’avvocato, in una vicenda nella quale l’incolpato era stato accusato di avere promosso contro il suo cliente “una pluralità di azioni giudiziarie per recuperare i crediti… per compensi professionali, così aggravando la posizione della debitrice, senza che ciò corrispondesse ad effettive ragioni di tutela dei crediti”). Le Sezioni Unite hanno colà evidenziato che: “il rapporto professionale, svoltosi continuativamente per un lungo periodo temporale fra le parti, avrebbe dovuto, anche sul piano della richiesta dei compensi, sfociare, quantomeno, in un accorpamento delle posizioni in contestazione, per un loro esame globale e complessivo. L’avere, viceversa, con iniziative plurime, e non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale, aggravato la posizione della controparte, costretta a sostenere il cumulo delle spese giudiziali a suo carico, conduce, quindi, a ritenere sussistere la violazione deontologica contestata”; “i principi di buona fede oggettiva e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all’inderogabile dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., costituiscono un autonomo dovere giuridico ed una clausola generale, che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili; e che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale, volto anche alla salvaguardia dell’utilità altrui, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (v. anche S.U. 23.12.2009, n. 27214; Cass. 22.12.2011, n. 28286). Principio, questo ripreso anche dall’art. 88 c.p.c. per il quale le parti e i loro difensori devono comportarsi in giudizio con lealtà e probità; applicabile, quindi, anche con riferimento ai doveri deontologici”.

In definitiva, il principio enunciato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 4090/2017 – alla cui stregua non possono essere azionati in separati giudizi (a meno che il creditore non risulti titolare di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata) i diritti i quali, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, “fondati” sul medesimo fatto costitutivo – va inteso con la duplice specificazione che:

a) l’espressione “medesimo rapporto di durata” deve essere letta in senso storico/fenomenologico: alla parola “rapporto” va, cioè, assegnato non il significato tecnico-giuridico di coppia diritto/obbligazione derivante da una delle cause elencate nell’art. 1173 c.c., bensì il significato di relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia;

b) nell’espressione “medesimo fatto costitutivo”, l’aggettivo “medesimo” va letto con riferimento non all’identità ma alla qualità, e quindi non come sinonimo di “identico” ma come sinonimo di “analogo”.

La Corte di cassazione, alla luce di quanto sopra, ha conseguentemente affermato il seguente principio di diritto: «le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo, in quanto fondati su analoghi, seppur diversi, fatti costitutivi, non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi si inserivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia. Tale divieto processuale non opera quando l’attore abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad azionare in giudizio solo uno, o solo alcuni, dei crediti sorti nell’ambito della suddetta relazione unitaria le parti. La violazione dell’enunciato divieto processuale è sanzionata con l’improponibilità della domanda, ferma restando la possibilità di riproporre in giudizio la domanda medesima, in cumulo oggettivo, ai sensi dell’art. 104 c.p.c., con tutte le altre domande relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti».

La sentenza del Tribunale di Roma, avendo dato esclusivo rilievo alla riscontrata inesistenza, in punto di fatto, di un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. Tizio, non si è attenuta ai principi precedentemente esposti, ragion per cui il ricorso è stato accolto.

[2] Con il terzo motivo di impugnazione, la ricorrente, riprendendo un accenno al giudicato già svolto nel precedente motivo, lamentava la violazione del disposto degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., sul presupposto che il tribunale non avesse tenuto conto del giudicato formatosi sulla questione dell’accertamento dell’unicità del rapporto professionale e della conseguente improponibilità della domanda presentata per una frazione del credito derivante da tale rapporto, in dipendenza di una sentenza resa dal Giudice di pace di Roma tra le medesime parti, divenuta irrevocabile.

La natura meramente processuale del vizio conseguente alla violazione del divieto di indebito frazionamento del credito, vale a dire l’improponibilità della domanda, esclude, invero, che la statuizione che ne abbia affermato la sussistenza, contenuta in una sentenza pronunciata in altro giudizio tra le stesse parti e passata in giudicato, possa esplicare efficacia preclusiva di una sua differente soluzione in altro giudizio, pendente tra le stesse parti, in cui, come in quello in esame, la medesima questione sia stata dedotta o comunque rilevata. La statuizione su una questione processuale dà luogo, in effetti, ad un giudicato meramente formale ed ha, come tale, un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è stata pronunciata (cfr. Cass. n. 23130/2020; n. 10641/2019; Cass. n. 7303/2012; Cass. n. 22212/2004; Cass. n. 17248/2003), ma non impedisce né che la medesima questione sia riproposta in un successivo giudizio tra le stesse parti, né a fortiori che, in quest’ultimo giudizio, la predetta questione sia, com’è accaduto nel caso in esame, diversamente risolta, dichiarando, cioè, la proponibilità della domanda.

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