Diniego di rinnovo locazione alla prima scadenza
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFMassima: “In tema di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, il meccanismo sanzionatorio predisposto dall’art. 3 della legge n. 431 del 1998 con riferimento al diniego di rinnovo alla prima scadenza è da considerarsi tale, sia per la sua automaticità sia per la sua gravità da lasciar presumere che il locatore, il quale deduca una delle intenzioni ritenute dalla suddetta meritevoli di considerazione, non invochi maliziosamente e superficialmente la particolare intenzione addotta a sostegno del formulato diniego, a meno che non emergano concreti elementi che inducano il giudice a ritenere l’intenzione dedotta irrealizzabile”.
CASO
Tizio intimava a Caio e Sempronia licenza per finita locazione per la data del 31.1.2015, in relazione ad immobile di sua proprietà concesso in locazione ad uso abitativo, giusto contratto del 23.12.2010.
Il locatore, infatti, aveva stipulato contrato di locazione della durata di quattro anni decorrenti dal 1.2.2011 e, con lettera del 13.5.2014, aveva inviato diniego di rinnovo del contratto alla prima scadenza contrattuale, in quanto desiderava adibire l’immobile ad abitazione del figlio, avvalendosi quindi dell’esercizio del diniego motivato, ex art. 3 L.431/98.
Gli intimati si opponevano alla convalida eccependo il difetto di legittimazione attiva di Tizio giacché il contratto di locazione risultava sottoscritto da Mevia, non risultando l’intimante proprietario dell’immobile locato. Oltretutto, i motivi indicati erano privi di fondamento, in quanto il figlio di Tizio risultava già proprietario di un immobile abitativo nello stesso comune.
Mutato il rito, il Tribunale di Venezia dichiarava la nullità del contratto e condannava i convenuti a rilasciare l’immobile e a corrispondere a Tizio l’importo mensile di Euro 580,00 oltre la metà delle spese di lite, compensate per la restante metà.
Secondo il giudice veneziano, infatti, il contratto era stato redatto come se fosse stato stipulato da Tizio, indicato come locatore, mentre era stato sottoscritto dalla moglie Mevia. Tuttavia nell’atto non vi era alcun elemento che rimandasse alla sussistenza di una procura o anche solo all’intento del sottoscrittore di voler firmare in rappresentanza dell’apparente contraente (data la forma scritta ad substantiam per il contratto di locazione anche la procura doveva avere la stessa forma). Stante l’insanabile contrasto fra il soggetto indicato come parte del contratto ed il soggetto sottoscrittore, unitamente alla mancanza di procura, veniva totalmente a mancare l’accordo, con conseguente nullità del contratto per cui era causa. Pertanto, il Tribunale accoglieva la domanda di rilascio ed i convenuti venivano condannati anche al pagamento di un’indennità per occupazione senza titolo, determinata nell’importo pattuito come canone.
Tutte le parti del giudizio di primo grado proponevano appello: i conduttori deducevano il vizio di ultrapetizione, difetto di legittimazione attiva in capo a Tizio nonché errore sia nell’an che nel quantum della condanna al pagamento dell’indennità di occupazione; Tizio, invece, proponeva appello incidentale deducendo la validità ed efficacia del contratto di locazione e della disdetta motivata inviata.
La Corte d’Appello accoglieva solamente l’appello incidentale, accertando la validità sia del contratto che della disdetta, dichiarando cessato il rapporto locativo alla data di scadenza dei primi quattro anni e, conseguentemente, confermando la condanna dei conduttori al rilascio dell’immobile.
I giudici di seconde cure avevano, infatti, rilevato che dal tenore complessivo del contratto si desumeva che locatore era esclusivamente Tizio, come tale ivi indicato, e che pertanto la sottoscrizione di Mevia non aveva altro senso se non quello di agire in nome e per conto del marito. Tale interpretazione, inoltre, risultava avvalorata dal fatto che il canone veniva versato proprio a Tizio e non alla moglie, oltre al fatto che anche l’agente immobiliare, che aveva partecipato alle trattative e presente alla firma del contratto, aveva testimoniato che Mevia dichiarava di sottoscrivere il contratto quale delegata del marito. Inoltre, l’eventuale mancanza di procura non avrebbe comunque provocato la nullità del contratto atteso che la mancanza di poteri rappresentativi avrebbe potuto essere eccepita solo dal soggetto falsamente rappresentato. Peraltro, ai fini della validità del contratto di locazione, non è necessario che il locatore sia anche proprietario del bene concesso in locazione, e che comunque la documentazione prodotta dimostrava che Tizio era effettivamente il proprietario del bene locato. Infine, la Corte territoriale riteneva valida ed efficace la disdetta, per essere a tal fine sufficiente la manifestata intenzione di destinare l’immobile ad uso abitativo del figlio ai sensi dell’art. 3, comma 1, L. 431/1998 senza necessità di fornirne la prova, posto che il figlio di Tizio all’epoca della disdetta non era proprietario dell’immobile indicato dai conduttori e che, in ogni caso, tale ultima situazione risultava irrilevante ai fini della validità della disdetta.
Caio proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte veneziana sulla base di tre motivi.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione rigettava il ricorso.
QUESTIONI
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, erroneità, nullità e/o carenza e/o vizio di motivazione della sentenza laddove veniva riconosciuta la legittimazione attiva in capo Tizio in quanto non proprietario dell’immobile de quo e non parte del contratto di locazione, nonché la violazione e la falsa applicazione degli artt. 75 e 182 c.p.c., poiché il giudice riteneva legittimamente esercitata l’azione proposta da Tizio in assenza di alcuna procura speciale derivante dalla proprietaria dell’immobile e come quest’ultima, in ogni caso, non era mai intervenuta in giudizio a sanare e/o ratificare l’operato del marito, né, tanto meno, sono mai stati compiute le verifiche di cui all’art. 182 c.p.c..
Con la seconda doglianza il ricorrente denunciava l’errata interpretazione ed applicazione della L. 9 dicembre 1998, n. 431, all’art. 3.
Secondo Caio la decisione della Corte veneziana errava nella parte in cui il giudice di merito non effettuava un esame sulla sussistenza in concreto del motivo addotto, in relazione anche ad altri fattori esterni, quali le condizioni del conduttore, effettuando un equo contemperamento degli interessi delle parti.
Sostiene che, a tal fine, nel caso di specie, il giudice d’appello avrebbe dovuto tener conto del fatto che il figlio di Tizio fosse proprietario di un immobile sito nello stesso comune che, però, al momento della disdetta appariva singolarmente e stranamente condotto in locazione da soggetto terzo nonché del fatto che l’odierno ricorrente era gravemente malato e, dunque, portatore di un interesse ben più attuale e concreto di quello manifestato dal locatore.
Con il terzo motivo il ricorrente rilevava l’erroneità e l’illogicità della condanna alla rifusione a favore di Tizio dell’indennità di occupazione senza titolo, poiché quest’ultimo non era legittimato ad azionare un contratto del quale lo stesso non era nemmeno parte oltre a non essere nemmeno proprietario dell’immobile. Tali motivi avrebbero dovuto, se non anche, indurre la Corte d’Appello a compensare le spese di lite, in virtù della particolarità delle questioni e del comportamento processuale di Tizio.
Il primo motivo secondo la Suprema Corte era inammissibile, giacché non avendo preso in considerazione parte della motivazione della sentenza impugnata lo stesso risultava inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.
Ad ogni modo, i giudici di legittimità sul punto si limitavano a riprendere le deduzioni svolte dal giudice del gravame, ribadendo che il contratto di locazione era valido perché Tizio era parte del contratto quale vero ed effettivo locatore, la sottoscrizione della moglie poteva considerarsi apposta nella veste di procuratrice del marito e comunque il suo operato doveva considerarsi da quest’ultimo ratificato ed infine poiché non era necessario che Tizio fosse anche proprietario dell’immobile, il quale, in ogni caso, lo era, vertendosi in materia di diritti personali di godimento.
Il secondo motivo risultava, invece, a parere della Corte di Cassazione, come manifestamente infondato.
Secondo consolidata interpretazione, invero, il diniego di rinnovo di cui alla L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 3, lettera a), al pari dell’analogo istituto previsto dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 27, per le locazioni di immobili ad uso diverso da abitazione, presuppone l’intenzione ma non anche la necessità del locatore di disporre dell’immobile per uno degli usi previsti dalla norma. L’intenzione deve essere seria, cioè realizzabile giuridicamente e tecnicamente, ma non è sindacabile nel suo contenuto di merito, non potendo il giudice interferire sull’utilità o sulla convenienza della destinazione per il locatore.
Ad ogni modo, in tema di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, nella comunicazione del locatore del diniego di rinnovo del contratto, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 431 del 1998, deve essere specificato, a pena di nullità, il motivo, tra quelli tassativamente indicati dalla stessa norma, sul quale la disdetta è fondata, in modo da consentire, in caso di controversia, la verifica “ex ante” della serietà e della realizzabilità dell’intenzione dedotta in giudizio e, comunque, il controllo, dopo l’avvenuto rilascio, circa l’effettiva destinazione dell’immobile all’uso indicato nell’ipotesi in cui il conduttore estromesso reclami l’applicazione delle sanzioni ivi previste a carico del locatore[1].
Pertanto, affinché il locatore possa legittimamente negare il rinnovo del contratto alla prima scadenza non è necessario che fornisca la prova dell’effettiva necessità di destinare l’immobile ad abitazione propria o di un proprio familiare, ma è sufficiente una semplice manifestazione di volontà in tal senso, fermo restando il diritto dell’inquilino al ripristino del rapporto alle stesse condizioni di cui al contratto disdettato o al risarcimento se il proprietario non abbia adibito l’alloggio al fine dichiarato, nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità[2].
I giudici di Piazza Cavour, pertanto, rilevavano come le considerazioni svolte a fondamento del ricorso, circa il potere/dovere del giudice di operare un equo contemperamento degli interessi delle parti al fine di verificare la validità della disdetta non hanno, dunque, nessun fondamento giuridico.
Il terzo motivo è inammissibile con riferimento ad entrambe le censure.
La prima riguarda, infatti, la condanna al pagamento di somme a titolo di indennizzo per occupazione sine titulo che non si rinviene nella sentenza d’appello, la quale si è limitata a confermare della sentenza di primo grado contenente la condanna al rilascio dell’immobile.
La Corte d’Appello avrebbe dovuto occuparsi della statuizione di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione per dichiararne la caducazione ma, non avendolo fatto, la Corte di merito, probabilmente, incorreva in una omissione di pronuncia, di cui si doveva però lamentare la controparte.
La seconda doglianza, invece, presupponeva il sindacato da parte della Corte di legittimità sulla mancata compensazione delle spese processuali, facoltà in capo al giudice di merito il quale non è tenuto a darne motivazione in caso non dovesse disporla, facendo sì che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione. La decisione sulle spese può, infatti, essere sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, ex art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea.
[1] Cfr. ex multis Cass. civ., Ord. n. 3938/2023.
[2] Cfr. ex multis Cass. civ., Sent. n. 18947/2019.
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