16 Luglio 2024

Differenze tra innovazioni ex art. 1120 c.c. e modificazioni della cosa comune ex art. 1102 c.c.

di Francesco Luppino, Dottore in legge e cultore della materia di diritto privato presso l'Università degli Studi di Bologna Scarica in PDF

Cassazione civile, sez. II, sentenza 10 gennaio 2024, n. 917. Presidente F. Manna – Estensore G. Fortunato

Massima: “Le innovazioni di cui all’articolo 1120 del c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’articolo 1102 del c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo. Sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso articolo 1102 del c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa. Per quanto concerne l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, ma con quello del singolo condomino, essendo volte al suo solo perseguimento. In particolare, costituisce innovazione ex articolo 1120 del c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solo quella che alteri l’entità materiale del bene, operandone la trasformazione, o ne modifichi la destinazione, ove il bene assuma, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale o sia utilizzato per fini diversi da quelli originari. Qualora la modificazione della cosa comune risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’articolo 1102 del c.c., che, sebbene dettato in materia di comunione ordinaria, è applicabile in materia di condominio degli edifici per effetto del richiamo contenuto nell’articolo 1139 del c.c..

CASO

Tizio vendeva a Caio un appartamento sito nel condominio Alfa in Milano, comprendente anche due terrazze che l’alienante aveva realizzato senza autorizzazione assembleare. Tizio si era altresì obbligato di farsi carico di qualunque richiesta formulata dagli altri condomini dello stabile e di ogni conseguenza derivante dalla mancanza dell’autorizzazione condominiale, con espresso esonero da ogni responsabilità per gli acquirenti anche con riferimento ad eventuali pretese dei condomini ad una indennità per il rialzo attuato dal venditore.

Caio adiva il Tribunale di Milano chiedendo di sentire condannare il proprio dante causa Tizio al rifacimento del tetto, eliminando le terrazze che ivi aveva ricavato, e a risarcire i danni per il deprezzamento dell’immobile nonché per lamentate infiltrazioni d’acqua, oltre al rimborso di tutte le spese sostenute. Infatti, Caio esponeva i seguenti inadempimenti di Tizio: non aver provveduto alla regolarizzazione delle opere eseguite senza approvazione assembleare, non aver eseguito gli interventi di manutenzione cui si era obbligato in un’assemblea condominiale, lamentando inoltre copiose infiltrazioni provenienti dalle porte vetrate di accesso ai terrazzi e dal soffitto, oltre vizi agli impianti del gas.

Inoltre, Caio, limitatamente ai danni da infiltrazioni, chiedeva di estendere al condominio Alfa la condanna a risarcire i danni cagionati dall’omessa manutenzione del lastrico, instando, in subordine, per la riduzione del prezzo di vendita e la restituzione di quanto versato in eccedenza.

Di contro, il condominio Alfa svolgeva riconvenzionale per la condanna alla ricostruzione della copertura condominiale, mentre il venditore Tizio si difendeva sostenendo di aver realizzato le suddette opere con l’autorizzazione assembleare.

Il Tribunale condannava Tizio, nei confronti del condominio Alfa, alla rimessione in pristino del tetto dell’edificio e, nei confronti di parte attrice, a risarcire i danni da infiltrazioni, mentre veniva respinta ogni altra domanda.

La sentenza veniva parzialmente riformata in appello, in quanto la Corte territoriale estendeva la condanna al ripristino del tetto anche all’acquirente dell’immobile, confermando l’illiceità delle terrazze ai sensi dell’art. 1120 c.c., mentre, in accoglimento del gravame proposto dall’acquirente Caio, condannava il venditore al pagamento di una somma di denaro corrispondente al minor valore dell’immobile, condannava il direttore dei lavori disposti dal venditore Tizio a risarcire i danni cagionati dalle infiltrazioni alla proprietà esclusiva, negando la responsabilità del dante causa e del condominio Alfa per i danni da infiltrazioni e per i vizi della copertura dell’appartamento.

La sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello milanese veniva impugnata da Tizio che ne chiedeva la cassazione cui resisteva con controricorso e ricorso incidentale il suo avente causa Caio; si costituiva anche il condominio Alfa.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con sentenza 10 gennaio 2024, n. 917, in relazione al ricorso principale ha ammesso e accolto il primo motivo, mentre del ricorso incidentale ha accolto il secondo e il quinto, con assorbimento di ogni altra censura. Per l’effetto, gli Ermellini hanno cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’Appello di Milano che, in diversa composizione, dovrà esaminare nuovamente la causa uniformandosi ai principi di diritto sanciti dalla Suprema Corte in merito alla distinzione tra innovazioni e modifiche della cosa comune ex art. 1102, provvedendo anche a liquidare le spese del giudizio di cassazione.

QUESTIONI

Per la complessità e il numero dei motivi a sostegno rispettivamente del ricorso principale presentato dal venditore Tizio e del ricorso incidentale presentato dal suo avente causa Caio ci soffermeremo unicamente sui profili di maggiore interesse legati ai motivi che la Suprema Corte ha ritenuto fondati.

Pertanto, con il primo motivo del ricorso principale Tizio ha censurato la sentenza impugnata per aver la Corte territoriale ritenuto che la sostituzione di parte del tetto dello stabile con due terrazzi costituisse una innovazione illecita in mancanza di preventiva autorizzazione assembleare. Secondo il ricorrente, un siffatto intervento sarebbe annoverabile come modifica della cosa comune e, pertanto, rientrerebbe nella disciplina dell’art. 1102 c.c., poiché era stata demolita una limitata porzione del tetto condominiale e la creazione delle terrazze non aveva alterato l’originaria funzione di copertura, non potendosi altresì trascurare la circostanza per cui gli altri condomini non avevano alcuna possibilità di utilizzazione particolare del tetto.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale anche Caio ha censurato la sentenza impugnata sotto il profilo della violazione degli artt. 1102 e 1120 c.c., sostenendo che la parziale rimozione del tetto condominiale e la realizzazione delle due terrazze non integravano una innovazione vietata, bensì, piuttosto, un uso più intenso della cosa comune rispettoso del disposto di cui all’art. 1102 c.c., poiché la modifica aveva interessato una superficie molto ridotta ed era stata mantenuta la funzione di copertura svolta dal tetto, senza lesione alcuna del diritto degli altri condomini, non essendoci, da parte loro, alcuna possibilità di un uso particolare della copertura.

Infine, con il quinto motivo del ricorso incidentale Caio ha censurato la sentenza oggetto di gravame, in quanto, a suo avviso, la Corte territoriale ha escluso la responsabilità pe i danni da infiltrazioni d’acqua, ritenendo indimostrata una condotta dannosa, di tipo commissivo od omissivo ascrivibile al condominio Alfa, trascurando, però, che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, basandosi sul mero rapporto di custodia con la cosa comune, prescindendo da una condotta dolosa o colposa, salvo la prova della dipendenza dal caso fortuito.

In relazione all’accoglimento del primo motivo di ricorso principale e del secondo motivo del ricorso incidentale, il Supremo Collegio ha avuto modo di esaminare la disciplina dettata in tema di innovazioni e uso della cosa comune da parte dei comunisti, focalizzandosi, in particolare, sul rapporto intercorrente tra l’art. 1120 c.c. e l’art. 1102 c.c..

Orbene, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. e le modifiche alla cosa comune consentite ex art. 1102 c.c. si distinguono sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo le innovazioni consistono in opere di trasformazione che incidono sull’essenza stessa della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le modifiche ammesse ex art. 1102 c.c. consistono in tutte quelle facoltà riconosciute al singolo condomino volte a ottenere “la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa”, ammesse se esercitate entro i limiti prescritti dall’art. 1102 c.c. (non deve essere alterata la destinazione della cosa comune e non deve essere impedito agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto).

Dal punto di vista soggettivo le innovazioni si caratterizzano per essere il frutto dell’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con un’apposita deliberazione assembleare (cfr. art. 1120 c.c.), mentre, al contrario, le modificazioni consentite ex art. 1102 c.c. non rispecchiano un interesse generale, perché rispondono all’interesse del singolo condomino e sono strumentali al suo unico soddisfacimento[1].

Gli Ermellini, inoltre, hanno chiarito cosa debba intendersi per innovazione ex art. 1120 c.c., essendo tale “non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solo quella che alteri l’entità materiale del bene, operandone la trasformazione, o ne modifichi la destinazione, ove il bene assuma, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale o sia utilizzato per fini diversi da quelli originari”. Dunque, gli elementi caratterizzanti le innovazioni sono fondamentalmente due e alternativi tra loro: dalle modifiche alla cosa comune deve derivare la trasformazione della stessa, intesa quale diversa consistenza materiale, oppure tale trasformazione deve modificare la destinazione della cosa comune, la quale dovrà essere impiegata per fini nuovi che nulla hanno a che vedere con la funzione inizialmente rivestita.

Invece, per quanto attiene all’interesse sotteso alla modifica della cosa comune, il Supremo Collegio ha specificato che: “qualora la modificazione della cosa comune risponda allo scopo di un uso più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’art. 1102, che, sebbene dettato in materia di comunione ordinaria, è applicabile in materia di condominio degli edifici per effetto del richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c.”.

È stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità che la disposizione di cui all’art. 1102 c.c. consente a ciascun titolare della proprietà solitaria di fare un uso più intenso della cosa comune a condizione che non sia alterata la funzione del bene e, al contempo, non sia impedito il pari uso agli altri comunisti. Di converso, si ricadrebbe nell’ambito delle innovazioni disciplinate dall’art. 1120 c.c. nel caso in cui si verifichi una effettiva alterazione della funzione del bene e non una semplice modificazione materiale.

D’altra parte, in relazione al caso in esame, gli Ermellini hanno evidenziato come la giurisprudenza di legittimità abbia già più volte affermato che: “il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene in rapporto alla sua estensione e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio mediante idonei materiali (Cass. 14107/2012; Cass. 2126/2021)”.

In conclusione, secondo il Supremo Collegio le opere realizzate dall’alienante Tizio non costituivano innovazioni subordinate all’autorizzazione assembleare ai sensi dell’art. 1120 c.c., norme che, rammentano gli Ermellini, “riguarda non le opere intraprese dal singolo per realizzare un miglior uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., ma quelle volute dall’assemblea condominiale con la maggioranza prescritta”.

Nella pronuncia in commento, i giudici di Piazza Cavour hanno operato un collegamento tra l’art. 1120 e l’art. 1102[2], in quanto l’art. 1120, comma 2, c.c., nel vietare le innovazioni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato ovvero che ne alterino il decoro architettonico, risulta astrattamente applicabile anche agli interventi eseguiti con le finalità di cui all’art. 1102 (conseguire un uso più intenso e razionale della cosa comune). Pertanto, nel caso di modificazioni della cosa comune si deve accertare in concreto: i) la compatibilità dell’intervento modificativo con i limiti sanciti dall’art. 1102 c.c.; ii) il rispetto dei limiti prescritti dall’art. 1120, ult. comma, c.c., ossia il divieto di modifiche (innovazioni) che inficiano la stabilità o la sicurezza del fabbricato ovvero che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino.

Infine, in relazione all’accoglimento del quinto motivo del ricorso incidentale gli Ermellini hanno ribadito quanto già costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità per infiltrazioni nella proprietà esclusiva provenienti dalle parti condominiali. In tal caso “non viene in considerazione una condotta illecita, commissiva o omissiva, imputabile al condominio”. Infatti, il condominio è custode dei beni e dei servizi comuni, pertanto, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie per non recare pregiudizi a terzi, dovendo, altrimenti, rispondere ex art. 2051 c.c, dei danni cagionati dalle suddette res alla porzione di proprietà solitaria del singolo condomino o di terzi.

Come è noto, la responsabilità delineata dall’art. 2051 c.c. è di tipo oggettivo e non integra una presunzione di colpa in capo al danneggiante, essendo sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo. Il responsabile è esonerato solo nel caso in cui riesca a dimostrare il caso fortuito ovvero che un fattore esterno, non riconducibile al comportamento del custode né alla cosa oggetto di custodia, ha determinato l’evento lesivo.

[1] Così anche Cassazione civile, sez. II, sentenza 29 gennaio 2021, n. 2126 e, in senso conforme, Cassazione civile, sez. II, sentenza 03 agosto 2012, n. 14107.

[2] In particolare, il Supremo Collegio si è espresso in termini di un “necessario coordinamento normativo che deve farsi tra l’art. 1102, l’art. 1120 e, ove si tratti di interventi sulle parti esclusive, con l’art. 1122 c.c.”.

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