Decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo in pendenza di concordato preventivo e sua opponibilità al fallimento consecutivo
di Luca Andretto, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. I, 28 febbraio 2024, n. 5279, ord. – Pres. Ferro – Rel. Vella
Parole chiave
Fallimento – Accertamento del passivo – Decreto ingiuntivo – Opponibilità – Decreto di esecutorietà – Consecuzione di procedure – Concordato preventivo – Anteriorità al fallimento – Sufficienza – Anteriorità al concordato preventivo – Necessità – Esclusione
Massima: “Qualora la domanda di concordato preventivo ‘con riserva’ ex art. 161, comma 6, LF sia stata dichiarata inammissibile ex art. 162 LF e ne sia conseguita la dichiarazione di fallimento, ai fini dell’opponibilità a quest’ultimo del decreto ingiuntivo, il visto di esecutorietà di cui all’art. 647 CPC è sufficiente sia stato apposto anteriormente alla declaratoria fallimentare, non occorrendo preceda, pur a fronte della consecutio, la domanda di concordato”. (massima ufficiale)
Riferimenti normativi
Legge Fallimentare, artt. 45, 52, 96, 98, 161, 162, 169; Codice di Procedura Civile, artt. 641, 647.
CASO
Un creditore ottiene due ingiunzioni di pagamento provvisoriamente esecutive, in forza delle quali iscrive ipoteche giudiziali sui beni immobili del debitore, titolare di un’impresa commerciale. Questi non propone opposizione nel termine stabilito, ma deposita una domanda di concordato preventivo ‘con riserva’ ai sensi dell’art. 161, comma 6, LF, che viene successivamente dichiarata inammissibile, con conseguente dichiarazione di fallimento. Nelle more della procedura concordataria, il creditore aveva conseguito i decreti di esecutorietà dei due decreti ingiuntivi ai sensi dell’art. 647 CPC, idonei ad attribuirvi l’efficacia di giudicato sostanziale.
Il creditore chiede, quindi, di essere ammesso al passivo fallimentare in via ipotecaria, ma tanto il giudice delegato in sede di verifica, quanto il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo, escludono parzialmente i crediti insinuati e negano la prelazione richiesta, ritenendo i due decreti ingiuntivi inopponibili alla massa. Il tribunale, in particolare, configura il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 CPC quale formalità necessaria per rendere opponibile gli atti ai terzi, come tale inefficace ai sensi dell’art. 45 LF se compiuta dopo la dichiarazione di fallimento; e, considerata la consecuzione rispetto alla procedura concordataria, nella quale l’art. 45 LF già risultava applicabile in forza del richiamo operato dall’art. 169 LF, ritiene nella fattispecie inefficaci i decreti di esecutorietà, in quanto conseguiti dopo la domanda di concordato preventivo.
Il creditore propone ricorso per cassazione. Con il primo motivo, sostiene che la consecuzione tra procedure concorsuali non possa far retroagire al precedente concordato preventivo – ove non è contemplata una fase di accertamento dei crediti – un presupposto per l’ammissione al passivo operante solo in sede fallimentare. Con il secondo motivo, sostiene che il decreto di esecutorietà di cui all’art. 647 CPC non possa essere assimilato alle formalità necessarie per rendere opponibili ai terzi gli atti del debitore, configurandosi, piuttosto, come accertamento giudiziale avente valenza costitutiva.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione esamina congiuntamente questi due motivi di ricorso e li accoglie, rinviando al tribunale la decisione nel merito.
Conformandosi ai più recenti arresti di legittimità, la Corte limita l’applicazione della consecutio procedurarum alle sole ipotesi in cui risulti specificamente prevista dal legislatore l’estensione retroattiva degli effetti della dichiarazione di fallimento a far data dall’apertura della precedente procedura minore. Così non è per l’accertamento del passivo fallimentare, giacché l’art. 96, comma 3, n. 3, LF impone di considerare, ai fini dell’opponibilità delle sentenze nei confronti della massa, la data della dichiarazione di fallimento e non quella della precedente domanda di accesso a una procedura minore. Quando, dunque, l’accertamento giudiziale di un credito intervenga durante la procedura minore, tale pronuncia è sempre opponibile al fallimento consecutivo e, se passata in giudicato, costituisce titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo. Analoga conclusione – afferma la Corte – “vale anche nel caso, oggetto di esame, di decreto ingiuntivo divenuto definitivo nelle more della procedura concordataria”.
Completando il ragionamento, la Corte chiarisce che l’art. 45 LF non assume rilievanza, giacché il decreto di esecutorietà del decreto ingiuntivo non si configura quale formalità volta a rendere opponibile ai terzi un atto dispositivo del debitore, ma costituisce il “completamento di un iter giurisdizionale di accertamento del credito”. Mentre questo iter giurisdizionale resta pienamente accessibile ai creditori e al debitore durante il concordato preventivo, nel fallimento esso s’interrompe in ragione del principio di esclusività dell’accertamento del passivo secondo il rito fallimentare, ai sensi dell’art. 52, comma 2, LF. È, perciò, necessario e sufficiente che l’ingiunzione di pagamento venga dichiarata esecutiva prima della dichiarazione di fallimento, quand’anche la procedura fallimentare si saldi per continuità causale a una precedente procedura minore.
QUESTIONI APPLICATE NELLA PRATICA
I passaggi più interessanti della pronuncia in commento sono quelli dedicati al fenomeno della consecuzione di procedure concorsuali. Una risalente elaborazione giurisprudenziale lo aveva efficacemente qualificato come “fenomeno di unificazione delle procedure che, sulla base degli stessi presupposti soggettivi e oggettivi, consent[e] l’applicazione per interpretazione estensiva della disciplina dell’ultimo procedimento della serie, alle situazioni anteriori”, fondato “sulla costanza di una correlazione logica tra le varie situazioni e sulla costanza dei due presupposti essenziali dei vari procedimenti: identità di qualificazione imprenditoriale; identità di situazione di crisi qualificabile come insolvenza” (Cass. civ., sez. I, 26 giugno 1992, n. 8013, in Fallimento, 1992, 1027, richiamata da Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2018, n. 9290, ord., in www.ilcaso.it).
Ancora pochi anni or sono, la giurisprudenza di legittimità qualificava la consecutio procedurarum come “fenomeno generalissimo consistente nel collegamento sequenziale fra procedure concorsuali di qualsiasi tipo volte a regolare una coincidente situazione di dissesto dell’impresa […] avvinte da un rapporto di continuità causale e unità concettuale” (Cass. civ., sez. I, 19 settembre 2021, n. 24632, in www.ilcaso.it; Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2019, n. 15724, in www.eclegal.it). Trattandosi di ‘fenomeno generalissimo’, si reputava che i suoi risvolti applicativi prescindessero da specifiche previsioni di legge e che il recepimento talora operato dal legislatore (segnatamente con l’art. 69-bis, comma 2, LF, ora art. 170, comma 2, CCII; con l’art. 67, comma 3, lett. e, LF, ora art. 166, comma 3, lett. e, CCII; e con l’art. 111, comma 2, LF, ora art. 6 CCII) non ne esaurisse la portata.
Di recente, invece, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover limitare l’applicazione della consecutio alle “sole zone concorsuali per le quali è stata espressamente dettata”, in dipendenza di “singoli rimandi di effetti quali precisamente fissati nella legge fallimentare” (Cass. civ., sez. Unite, 31 dicembre 2021, n. 42093, in www.ilcaso.it). I successivi arresti di legittimità hanno insistito nel senso che, alla luce del solo parziale recepimento normativo, “risulta manifesta l’intenzione del legislatore di regolare autonomamente, in vista di peculiari finalità, i singoli effetti giuridici prodotti dalla presentazione della domanda di concordato sul fallimento consecutivo, sì che, al di fuori di tali effetti tipici, nessun effetto ulteriore risulta predicabile in via interpretativa” (Cass. civ., sez. I, 8 luglio 2022, n. 21758, in www.ilcaso.it; Cass. civ., sez. I, 16 febbraio 2022, n. 5090, in www.ilcaso.it). A questo più restrittivo orientamento ha dato seguito la pronuncia in commento, con l’ulteriore precisazione che “non è sufficiente il dato oggettivo della consecuzione per ritenere che le disposizioni dell’una procedura si applichino automaticamente all’altra, mancando nell’ordinamento positivo una disposizione normativa che riconosca, in via generale, il permanere degli effetti propri della procedura di concordato preventivo nel fallimento e, viceversa, la retrodatazione degli effetti propri del fallimento a partire dall’inizio del concordato”.
Sulla base di questa rilettura della consecutio procedurarum, la Corte di Cassazione aveva già considerato opponibile, ai fini dell’accertamento del passivo fallimentare, una sentenza di condanna intervenuta nel periodo intercorrente tra la domanda di concordato preventivo e la consecutiva dichiarazione di fallimento. L’art. 96, comma 3, n. 3, LF (ora art. 204, comma 2, lett. c, CCII), infatti, impone l’ammissione con riserva dei crediti accertati con sentenza “pronunciata prima della dichiarazione di fallimento” (ora “pronunciata prima della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale”); e la Corte aveva puntualizzato che, dunque, “la data da considerare a fini della opponibilità della sentenza nei confronti della massa è quella della dichiarazione di fallimento e non quella di pubblicazione della domanda di ammissione al concordato preventivo” (Cass. civ., sez. I, 16 febbraio 2022, n. 5090, cit.; cfr. altresì Trib. Santa Maria Capua Vetere, 13 luglio 2023, decr., in www.dirittodellacrisi.it). Questa conclusione trova espressa conferma nella pronuncia in commento, con l’ulteriore precisazione “che, a maggior ragione, l’accertamento del credito contenuto nella sentenza anteriore alla dichiarazione di fallimento, passata in giudicato nelle more della procedura concordataria, è opponibile alla massa fallimentare”.
Se un appunto può muoversi al nuovo filone giurisprudenziale, è che al medesimo esito poteva pervenirsi senza mettere necessariamente in discussione l’esegesi tradizionale. Sarebbe, in effetti, bastato richiamare la risalente giurisprudenza sulla consecutio¸ secondo cui “l’estensione alle precedenti degli effetti principali caratterizzanti la procedura che conclude la sequenza” postulava che “la disciplina prevista per il fallimento sia conciliabile con quella relativa alle precedenti procedure e riguardi situazioni che, nell’ambito delle stesse procedure, non trovino espressa e chiara regolamentazione” (Cass. civ., sez. I, 30 maggio 1994, n. 5284, in Fallimento, 1995, 138). Si richiedeva, inoltre, “l’individuazione di una eadem ratio giustificativa tra la disciplina espressa e la situazione non regolata, cui detta disciplina si voglia estendere”, nel senso che “possono farsi risalire alla prima procedura solo gli effetti […] che siano in armonia ed in coerenza con la disciplina” della procedura minore “e che non ledano diritti sussistenti in base alla disciplina” medesima (Cass. civ., sez. I, 18 luglio 1990, n. 7339, in Fallimento, 1990, 1217).
Riagganciandosi a queste statuizioni, ci si sarebbe potuti limitare ad evidenziare che la disciplina sull’accertamento giurisdizionale del passivo in sede fallimentare non è conciliabile con alcuna fase della procedura di concordato preventivo, ove la verifica dei crediti assume le forme di un’indagine amministrativa con valenza endoprocedimentale, ai soli fini del voto e del computo delle maggioranze (cfr. art. 176 LF, ora art. 108 CCII). In pendenza di concordato preventivo, eventuali contestazioni su sussistenza, ammontare o natura dei crediti vanno risolte mediante autonomi giudizi di cognizione, mentre nel fallimento l’accertamento del passivo segue le forme obbligatorie del rito prescritto dall’art. 52, comma 2, LF (ora, nella liquidazione giudiziale, art. 151, comma 2, CCII). Si tratta, insomma, di discipline fra loro inconciliabili, le cui divergenze già di per sé ostavano all’applicazione retroattiva delle norme dettate per la procedura fallimentare, ivi incluso l’art. 93, comma 3, n. 3, LF (ora delle norme dettate per la liquidazione giudiziale, ivi incluso l’art. 204, comma 2, lett. c, CCII).
Sull’iter logico qui ripercorso s’innesta, infine, il consolidato orientamento – ribadito dalla pronuncia in commento – secondo cui il decreto ingiuntivo non opposto nel termine stabilito diviene definitivo ed acquisisce l’efficacia di giudicato sostanziale solo una volta dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 CPC: qualora ciò non avvenga prima della dichiarazione di fallimento, esso resta inopponibile alla massa. Le verifiche imposte onde emettere il decreto di esecutorietà, infatti, costituiscono “il compimento di una attività giurisdizionale avente ad oggetto la verifica del contraddittorio, che […] nel processo a cognizione ordinaria ha luogo come primo atto del giudice e nel processo d’ingiunzione, ove non sia stata proposta opposizione, ha luogo come ultimo atto del giudice. La conoscenza del decreto da parte dell’ingiunto non rappresenta perciò una condicio juris che può essere accertata al di fuori del processo d’ingiunzione, eventualmente anche dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo, ma costituisce l’oggetto di una verifica giurisdizionale che si pone all’interno del procedimento di ingiunzione e che conclude l’attività in esso riservata al giudice in caso di mancata opposizione” (Cass. civ., sez. I, 27 gennaio 2014, n. 1650, in www.ilcaso.it; cfr. altresì, da ultimo, Cass. civ., sez. I, 27 marzo 2024, n. 8260, ord., in www.ilcaso.it).
A fronte di una domanda giudiziale di accertamento del credito o di condanna al pagamento che sia stata proposta nelle forme ordinarie o, comunque, con rito diverso da quello prescritto dall’art. 52, comma 2, LF (ora art. 151, comma 2, CCII), la dichiarazione di fallimento (ora l’apertura della liquidazione giudiziale) comporta “l’inammissibilità o l’improcedibilità” della stessa, “a seconda che il fallimento sia stato dichiarato prima della proposizione della domanda o nel corso del giudizio, trattandosi di una questione litis ingressus impediens” (Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2023, n. 11021, ord., in www.ilcaso.it). La medesima sorte spetta alla domanda introdotta con ricorso per ingiunzione di pagamento, sempre che il procedimento monitorio non si sia già definitivamente concluso con l’emissione del decreto di esecutorietà. In pendenza di concordato preventivo, invece, non essendo accessibile il rito prescritto dall’art. 52, comma 2, LF, la domanda introdotta con ricorso per ingiunzione di pagamento resta senz’altro ammissibile e procedibile.
Deve, in conclusione, convenirsi con quanto statuito dalla pronuncia in commento, secondo cui il decreto ingiuntivo divenuto definitivo nelle more della procedura concordataria, al pari della sentenza pronunciata nelle more della procedura concordataria e passata in giudicato, è opponibile al consecutivo fallimento (o alla consecutiva liquidazione giudiziale) e costituisce titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo. Se, dunque, in forza di tale decreto ingiuntivo era stata iscritta ipoteca giudiziale sui beni immobili del debitore, il credito non può che essere ammesso con riconoscimento della relativa prelazione ipotecaria.
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