Danno risarcibile e valutazione equitativa in difetto di prova conseguente a negligente manutenzione della facciata esterna e dei balconi di un condominio
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFCorte di Cassazione, Sezione 6-3, civile, Ordinanza 18 marzo 2022 n. 8941, Presidente Dott. Scoditti Enrico, Estensore Dott.ssa Gorgoni Marilena.
Massima: “La valutazione equitativa presuppone che il danno sia certo nella sua esistenza ontologica (Cass. 19/12/2011, n. 27447), cioè che “la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata” (Cass. 04/04/2017, n. 8662). Ne consegue che, ove la prova del danno non sia stata raggiunta, non può chiedersi al giudice di creare i presupposti logici e normativi per la liquidazione del danno richiesto (Cass. 04/08/2017, n. 19447). Non solo: al danneggiato si chiede di provare i parametri per una liquidazione equitativa e le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili all’illecito, rendendo il danno di difficile o impossibile quantificazione”
CASO
La (OMISSIS) S.A.S. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il Condominio (OMISSIS), ove era ubicato il locale commerciale che aveva in locazione, al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità per omessa o negligente manutenzione della facciata esterna e dei balconi dello stabile e la conseguente condanna al risarcimento del danno quantificato in Euro 412.241,00 (o nella somma giudizialmente accertata), comprensivo del danno emergente e del lucro cessante. Il Condominio, nell’opporsi alla domanda attorea, otteneva di chiamare in casa la propria compagnia assicuratrice (OMISSIS) PLC, la quale eccepiva la inoperatività della polizza, posta l’assenza di responsabilità dell’assicurato.
A seguito della condanna in primo grado[1] al pagamento di una somma pari ad euro 137.668,00 a favore della società, il Condominio presentava ricorso alla Corte d’Appello di Roma la quale accoglieva l’appello rideterminando l’ammontare della somma dovuta in euro 33.368,00, accogliendo la domanda di manleva nei confronti della (OMISSIS) PLC e regolando le spese di lite e di CTU. In motivazione la Corte territoriale esponeva come fosse stata erroneamente determinata la liquidazione in via equitativa da parte del giudice di prime cure, sostenendo che: “il danno da mancato guadagno esige la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che si sarebbe conseguita in assenza dell’evento di danno e la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità e non di mera possibilità che può essere svolto in via equitativa solo in presenza di elementi certi dai quali desumere sillogisticamente l’entità del danno”.
Tanto premesso nei fatti, la (OMISSIS) S.A.S. ricorreva per la cassazione della decisione della Corte d’Appello romana[2] affidandosi a tre motivi, resistevano sia il Condominio (OMISSIS) che l’assicurazione (OMISSIS) PLC.
SOLUZIONE
La Corte dichiarò inammissibile il ricorso, disponendo la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese di causa in favore di ciascuna parte controricorrente.
QUESTIONI
Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente lamentò l’omesso esame di un fatto decisivo per la decisione, che già fu oggetto di discussione tra le parti, in violazione dell’art.360 c.p.c., comma I, n.5.
La (OMISSIS) S.A.S. fece particolare riferimento a specifici elementi di fatto non esaminati come: a) la difficoltà di accesso dei clienti all’interno del locale commerciale, per effetto delle cadute di intonaco e di altro materiale e del transennamento per 1000 giorni da parte dei VVFF; b) le fatture di acquisto della merce in data anteriore all’evento di danno che comprovavano la regolarità dell’ attività commerciale anche nel periodo di esecuzione dei lavori sul Condominio; c) il registro dei corrispettivi, da cui emergeva una progressiva contrazione del fatturato fino ad un drastico crollo ed in seguito, alla fine dei lavori sul fabbricato, la progressiva ripresa dell’attività a partire dal settembre 2004, d) le prove testimoniali che avevano confermato lo stato di degrado delle facciate che metteva a repentaglio l’incolumità delle persone.
La Corte di Cassazione dichiarò inammissibile il motivo di ricorso in quanto la ricorrente non avrebbe prospettato il vizio motivazionale indicato in epigrafe del ricorso, ma bensì avrebbe lamentato l’erronea valutazione del materiale istruttorio.
Gli Ermellini proseguirono nella loro esposizione indicando, come ripetutamente ribadito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che il vizio di motivazione può essere dedotto in sede di legittimità solo se il ragionamento del giudice di merito, riportato nella sentenza impugnata, risulti mancante dell’esame dei punti decisivi della controversia e non quando l’apprezzamento sia difforme da quello preteso dalla parte. Infatti, l’art.360 c.p.c., n.5, non conferisce alla Cassazione la potestà per poter riesaminare e valutare il merito della causa. I giudici potranno solo controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, unico preposto a cui è concesso di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le risultanze processuali, controllarne l’attendibilità e l’aderenza al petitum e scegliere, tra le stesse, quelle ritenute più idonee per la decisione.
Venne inoltre rimarcato che nel caso concreto, oltre alle osservazioni di natura formale sopra esposte, a discapito di quanto sostenuto dalla ricorrente, la Corte d’Appello prese specificatamente in considerazione dette prove, ritenendole, tuttavia, non “utilmente valutabili” poiché “non informano in alcun modo sui molteplici e diversi fattori che incidono sulla redditualità dell’attività commerciale”. In riferimento al restante materiale istruttorio, pur mancando uno specifico riferimento in merito al suo esame, la Corte non ritenne sufficienti gli elementi prodotti dalla parte impugnante a dimostrazione dell’omessa valutazione, atteso che accertò che agli atti non risultasse “la documentazione necessaria tale da permettere… di verificare il mancato utile nel periodo considerato, sulla base dell’andamento dell’attività societaria in relazione al flusso della clientela e ai costi sostenuti”.
Con gli altri due motivi allegati al ricorso, esaminati congiuntamente dalla Corte poiché attinenti alla medesima questione, la ricorrente lamentò l’illegittimità della sentenza di secondo grado per la violazione o falsa applicazione dell’art.1126 c.c..
Più specificatamente, il secondo motivo, in riferimento a quanto disposto dall’art.360 c.p.c., comma I, n.3, pose l’attenzione sul fatto che la sentenza impugnata, in presenza di un danno certo o verosimile ma non quantificabile, non abbia fatto ricorso alla valutazione equitativa affermando, erroneamente, che sarebbe stato necessario dare prova dei parametri su cui fondare la richiesta di risarcimento. Il terzo motivo, invece, ponendosi in continuità con il precedente, dedusse l’illegittimità della sentenza “per avere la Corte d’Appello ritenuto pari a zero il lucro cessante, per non avere spiegato il processo logico che l’aveva indotta ad assumere tale decisione e per non avere indicato in modo specifico i criteri assunti a base del diverso procedimento valutativo adottato al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità”.
Entrambi i motivi sopra esposti furono rigettati dalla Cassazione in quanto non supportati da sufficienti elementi di prova della sussistenza del danno.
Infatti, spiegarono gli Ermellini, la Corte romana diede atto che il danno da lucro cessante può essere provato, anche presuntivamente, dimostrando l’utilità patrimoniale che il danneggiato avrebbe conseguito laddove non si fosse verificato l’illecito e, una volta accertatane la ricorrenza, la liquidazione del medesimo può avvenire per via equitativa nel momento in cui ricorrano sufficienti elementi certi dai quali desumere l’entità del danno. Tanto premesso, la reiezione della richiesta risarcitoria dipese dall’assenza di elementi sufficienti a fondare “l’illazione presuntiva surrichiamata”, pertanto apparì quanto meno fuori luogo ai giudici della Cassazione la censura riguardante la mancata liquidazione equitativa del danno richiesto.
La Corte aggiunse inoltre che a fondamento della valutazione equitativa del danno sia necessario che “la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata”[3], comportando che, nel momento in cui la prova del danno non sia stata raggiunta, non è possibile per il danneggiato richiedere al giudice di creare i presupposti logici e giuridici per consentire la liquidazione del danno richiesto[4].
Tale ragionamento giurisprudenziale dell’istituto comporta, pertanto, che al danneggiato si richieda di provare i parametri per una liquidazione equitativa e le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili all’illecito, rendendo il danno di difficile o impossibile quantificazione. La ratio sottesa è dunque quella di riservare al giudice il potere-dovere di sopperire alle eventuali difficoltà del danneggiato di fornire una precisa quantificazione della lesione, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria[5] e la ricerca dell’omogeneità tra risarcimento concordato e danno subito. Tuttavia, la libertà offerta al giudice di prevaricare le eventuali deficienze probatorie del caso non potrà mai sostituirsi alla effettiva prova della sussistenza dell’illecito, né può pensarsi di utilizzarla per sopperire alla difficoltà di dimostrazione del nesso causale tra l’inadempimento o altra condotta illecita e il danno[6].
Proseguendo nell’esame del ricorso presentato dalla (OMISSIS) S.A.S., la Corte segnalò come il ricorrente non avesse lamentato l’erronea applicazione del ragionamento presuntivo ma solo che “le deduzioni della Corte d’Appello, nella parte in cui continua a dedurre che fosse onere della (OMISSIS) S.A.S. dare prova dei parametri su cui fondare il risarcimento del danno avvenuto in via equitativa, sono del tutto errate, perché onere dell’attrice era “solo” quello di provare il fatto/illecito. Diversamente, se così fosse, la natura di una condanna in via equitativa non avrebbe mai ragioni di essere”. La Corte indicò come “la ricorrente avrebbe potuto denunciare che il giudice di merito, pur in presenza di circostanze gravi, precise e concordanti, non aveva ritenuto ricorrente il danno da fermo tecnico aziendale e da contrazione di guadagno (Cass., Sez. Un., 24/01/2018, n. 178), perché’, invece, una censura di contenuto diverso e/o diversamente argomentata, come in questo caso, si risolve in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio, collocando la censura su un terreno che non è quello dell’articolo 360 c.p.c., n. 3”.
Venne inoltre indicato come persino la premessa in iure del ragionamento della ricorrente fosse errata, infatti, la stessa giurisprudenza della Cassazione[7] ha chiarito che l’art. 1218 c.c., solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta, o non esattamente adempiuta, dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non anche da quello di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. Tale deduzione deve essere poi precisata per il fatto che, sebbene il nesso di causa e l’imputazione della responsabilità non siano teoricamente coincidenti[8], nel caso di responsabilità ex art.1218, l’inadempimento si sostanzia nel mancato soddisfacimento dell’interesse dedotto in obbligazione sicché’ il giudizio di causalità materiale non è distinguibile praticamente da quello relativo all’inadempimento.
In base a quanto indicato, la causalità è non soltanto criterio di collegamento tra condotta ed evento, ma assume le vesti anche di criterio di imputazione della responsabilità. Sicché, si deduce, a carico del creditore della prestazione, grava solo l’onere di provare la causalità giuridica, mentre l’inadempimento che assorbe la causalità materiale deve essere solo allegato, comportando che la ricorrenza delle conseguenze derivanti dall’inadempimento avrebbe dovuto costituire oggetto dell’onere probatorio gravante sul creditore della prestazione inadempiuta, nel caso di specie chiaramente non adempiuto.
[1] Sentenza n. 16251/2012.
[2] n. 753/2000.
[3] Cass. 04/04/2017, n. 8662, nello stesso senso Cass. 19/12/2011, n. 27447.
[4] Cass. 04/08/2017, n. 19447.
[5] Cass. 06/04/2017, n. 8920.
[6] Cass. 27/04/2017, n. 10393.
[7] Cass. 11/11/2019, n. 28991.
[8] Distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica ed il criterio di valore che collega un effetto giuridico ad una determinata condotta (es. l’inadempimento nel campo della responsabilità per inadempimento) .
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