Danno da perdita del rapporto parentale e onere della prova
di Daniele Calcaterra, Avvocato Scarica in PDFCass. Civ., 21 ottobre 2024, n. 27142, Ord., Rel. Dott.ssa F. Fiecconi
Danni in materia civile – Danno non patrimoniale – Danno da lesione del rapporto parentale – Onere della prova (art. 2059 c.c., art. 2697 c.c.)
Massima: “In tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, sussiste una presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio configurabile per i membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli) che si estende anche ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli), senza che assuma ex se rilievo il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti. Esiste poi una presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio per ciò che attiene la c.d. sofferenza morale e che impone semmai al danneggiante l’onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio; presunzione che non riguarda invece l’aspetto dinamico-relazionale, sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva”.
CASO
Tizio, dopo essersi sottoposto a diversi interventi chirurgici presso l’ospedale Alfa per una grave patologia, a diversi mesi dal quarto intervento, moriva per un infarto.
La moglie Caia e i due figli Mevio e Sempronio convenivano in giudizio Alfa, sostenendo che la morte di Tizio fosse avvenuta per colpa dei sanitari della struttura.
Il Tribunale, all’esito di una c.t.u., rigettava la domanda perché riteneva non fosse stato provato il nesso di causa tra la condotta dei sanitari e il decesso.
Gli attori proponevano appello, all’esito del quale la Corte territoriale, in accoglimento dell’impugnazione, riteneva provato il nesso di causa tra l’operato dei sanitari e la morte del paziente; tuttavia, la stessa Corte negava il risarcimento del danno parentale ai figli conviventi del de cuius, riconosciuto solo a favore della moglie convivente, considerando che pur avendo essi allegato di essere congiunti conviventi, non avevano tuttavia dimostrato la conseguenza dannosa subita sotto il profilo dinamico-relazionale.
I figli del defunto ricorrono in Cassazione, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda senza aver fatto ricorso al criterio delle presunzioni, ovvero al fatto che secondo l’id quod plerumque accidit la prematura perdita del congiunto induce ad un mutamento negativo delle condizioni quotidiane di vita ed al correlato dolore dell’animo, avendo invece ritenuto che allo scopo andassero allegati fatti precisi e specifici nel caso concreto.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, accoglie il ricorso.
QUESTIONI
Il fatto illecito costituito dalla morte di un congiunto, quando colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, dà luogo ad un danno non patrimoniale consistente nella perdita del rapporto parentale, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.
La legittimazione a chiedere il risarcimento è attribuita evidentemente ai prossimi congiunti a causa della sussistenza in capo a costoro di sofferenze e patemi d’animo, cagionati dalla perdita della persona cara e immediatamente ricollegabili all’illecito. Il problema sta piuttosto nell’individuazione, nell’ampia cerchia dei congiunti, dei soggetti ai quali riconoscere la legittimazione a pretendere il ristoro dei danni. In proposito, è opinione diffusa quella secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla morte ex delicto vada riconosciuto in favore di quei congiunti (iure proprio, cioè indipendentemente dalla loro qualità di eredi) che per il rapporto di stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave perturbamento del loro animo e della loro vita familiare, a causa della perdita di un valido sostegno morale. E ciò anche a prescindere dall’eventuale pregressa cessazione della situazione di convivenza con la vittima medesima, la quale di per sé non può configurare elemento indiziario idoneo a sorreggere la congettura del venir meno della comunione spirituale fra congiunti, con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a un livello giuridicamente irrilevante.
Devono quindi senz’altro considerarsi come aventi diritto al risarcimento anzitutto il coniuge ed i figli e cioè tutti i componenti della cosiddetta famiglia nucleare (coniugi, figli, genitori e fratelli), per i quali appare irrilevante anche la cessazione della convivenza. In altri termini, per i componenti della famiglia nucleare la legittimazione a chiedere il risarcimento per il danno non richiede altra verifica che quella del rapporto di stretta parentela, salva la prova (che dovrà, secondo le regole generali, fornire il danneggiante) che, nonostante il legame di parentela, il rapporto tra superstite e vittima era deterioralo al punto tale da escludere che il primo abbia sofferto per la morte della seconda. Un maggiore e più stringente onere probatorio è invece richiesto per quei soggetti non facenti parte della famiglia nucleare.
Siamo quindi innanzi a un contesto giurisprudenziale in cui, pur potendo ritenersi ammissibile un risarcimento al di fuori della stessa famiglia nucleare, si richiede un maggiore e più circostanziato onere probatorio nel passare dai componenti della famiglia nucleare (in cui l’elemento presuntivo è ritenuto sufficiente potendo altre circostanze incidere sulla maggiore o minore intensità del rapporto affettivo) ad altri parenti, per i quali invece è necessario un onere probatorio più pregnante, tale da dimostrare, con alta probabilità, la sussistenza di un rapporto effettivo particolarmente intenso (la Suprema Corte è infatti giunta ad ammettere il diritto al risarcimento da perdita parentale anche a favore del coniuge separato, ma solo a condizione che, nonostante la separazione, sussista ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso: Cass. 13/1025).
E con ciò si arrivar diritti al punto centrale della sentenza in commento.
La S.C. parte dal rilievo per cui il rigetto della domanda di riconoscimento del danno si è fondata sull’assunto che i figli del deceduto erano in un’età pienamente adulta relativamente alla quale non potrebbero ritenersi presumibili né la perdurante dipendenza economica né la convivenza con i genitori e che nulla sia stato specificato in sede di allegazione circa la natura e intensità della relazione con il padre (ciò a differenza della moglie convivente che lo ha assistito in tutto il percorso ospedaliero).
La S.C. richiama però l’attenzione sul fatto che, in tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, esiste una presunzione iuris tantum di esistenza del pregiudizio configurabile per i membri della famiglia nucleare “successiva” (coniuge e figli) che si estende anche ai membri della famiglia “originaria” (genitori e fratelli), senza che assuma ex se rilievo il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti. Tale presunzione impone semmai al danneggiante l’onere di dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, con conseguente insussistenza in concreto dell’aspetto interiore del danno risarcibile (c.d. sofferenza morale) derivante dalla perdita. La presunzione non riguarda invece l’aspetto esteriore del danno (c.d. danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione, da parte del danneggiato, dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva.
Alla luce di quanto appena rilevato, la S.C. evidenzia la contraddittorietà della motivazione della sentenza appellata, là dove, confondendo l’an debeatur con il quantum debeatur, assume che lo sforzo di allegazione di parte attrice è stato del tutto insufficiente e fondato su allegazioni generiche, solo per il fatto che non sono presumibili né la perdurante dipendenza economica (circostanza marginale in tale ambito di valutazione), né la convivenza che di per sé non è neanche elemento essenziale ai fini della decisione.
La Corte territoriale avrebbe dovuto quindi prendere in considerazione lo stato di filiazione di per sé, ai fini della configurazione di un danno parentale sotto il profilo dell’aspetto interiore (sofferenza morale) e motivare semmai diversamente quanto al riconoscimento del danno sotto il profilo dinamico-relazionale, posto che vi erano agli atti una serie di elementi comunque idonei a giustificarlo. Discorso diverso invece per ciò che attiene alla quantificazione del danno, aspetto sul quale la Corte territoriale avrebbe avuto ampia discrezionalità, potendo tenere conto dei fatti allegati in ordine alla natura e intensità della relazione con il padre.
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