7 Gennaio 2025

Criteri di valutazione del bene in comodato in sede di divisione

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Ordinanza del 29.02.2024 n. 5371, Sez. II, Presidente Dott. F. Manna, Estensore Dott. G. Fortunato

Massima: In tema di scioglimento della comunione, ai fini della determinazione del valore di un bene oggetto di comodato, occorre tenere conto delle migliorie apposte dal comodatario in quanto esse, non riconducibili a quelle necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa, se liberamente assunte, non possono essere oggetto di domanda di rimborso nei confronti dell’originario comunista comodante”.

CASO

Con Atto di citazione ritualmente notificato, Tizia conveniva innanzi al Tribunale di Chiavari i fratelli Caia, Sempronia e Mevio, onde ottenere lo scioglimento della comunione per successione mortis causa dalla di loro madre Filana, comprensiva di sei cespiti immobiliari – un locale uso ufficio e un locale uso commerciale, altra unità immobiliare, un fabbricato rurale e terreni in Figline Valdarno, un appartamento in La Spezia e un appartamento in Pian del Scò con annesso terreno.

I convenuti non si opponevano allo scioglimento della comunione come richiesto da Tizia, tuttavia, chiedevano la persistenza della comunione pro indiviso tra gli stessi nei confronti del di loro padre Filano – e previa integrazione del contenzioso nei confronti del medesimo – comproprietario nella misura del 50% dei beni compresi nell’asse ereditario; Mevia al contempo svolgeva domanda riconvenzionale per ottenere la divisione anche dell’appartamento di Santa Maria Ligure acquistato da tutti i fratelli nel 1992 e rispetto al quale la medesima aveva acquistato la proprietà in ragione di ¾ – a fronte della donazione delle quote da parte di Mevio e Sempronia – e la cui restate parte di ¼ era detenuta dall’attrice Tizia.

Integrato il contraddittorio tra tutte le parti in causa, il Giudice delle prime cure, con sentenza n. 460 del 2010, disponeva lo scioglimento della comunione tre le parti sugli immobili summenzionati e assegnando la proprietà in ragione del progetto di divisione elaborato da parte del Consulente Tecnico d’Ufficio “con la previsione di soli due lotti, conservata la comunione tra Caia, Sempronia e Mevio, per cui a Mevia veniva assegnato l’appartamento con corte esterna e annesse cantine in Figline Valdarno […] e i restanti beni rimanevano in comunione fra i fratelli convenuti, oltre ad assegnare a Caia l’appartamento sito in Santa Maria Ligure, che risultava indivisibile, con condanna dei convenuti a corrispondere all’attrice la somma di € 13.716,92 a titolo di conguaglio”. Nelle more, decedeva il padre Filano.

Avverso detta sentenza, Tizia, interponeva appello innanzi alla Corte d’Appello di Genova, la quale con sentenza n. 1639 del 2017, a seguito della rinnovazione della Consulenza Tecnica d’Ufficio, accolto parzialmente il gravame e riformando parzialmente la decisione del giudice del primo grado, disponeva lo scioglimento della comunione in ragione di modalità diverse rispetto a quanto determinato in sede di primo giudizio.

Segnatamente “quanto alla prima massa, pur confermando l’assegnazione a Caia della quota del 25% di Tizia dell’appartamento sito in Santa Margherita Ligure, condannava la prima a corrispondere alla seconda a titolo di conguaglio la soma di euro 235.750,00; quanto alla seconda massa, assegnava a Tizia il locale sito in Figline Valdarno ed ai germani Caia, Sempronia e Mevio, il locale in Figline Valdarno, dichiarando Tizia tenuta a versare ai fratelli la somma di euro 22.500,00 a titolo di conguaglio; quanto alla terza massa, assegnava a Tizia la quota del 50% dell’appartamento sito in La Spezia e ai germani i restanti beni, dichiarando questi ultimi tenuti a versare la somma di euro 7.367,00 in favore di Anna a titolo di conguaglio”.

Il giudice del gravame rilevava che nel caso per cui è lite esistevano diverse ed autonome comunioni, giustificate da titoli a loro volta diversi, derivanti dalla successione mortis causa della madre Filana; dall’atto di divisione del Notaio Plinio del 24 giugno 1997 avente ad oggetto il locale commerciale e a quello uso studio; ed infine, la terza, a titolo volontario relativa all’immobile di Santa Margherita Ligure, rispetto alla quale era possibile procedere ad una sola divisione in luogo di “tante divisioni quante erano le autonome comunioni solo con il consenso di tutte le parti”, in forma scritta ai sensi e per gli effetti dell’art. 1350 c.c., che nel caso per cui è lite mancava. Per questo motivo il Consulente Tecnico d’Ufficio nominato in sede di gravame predisponeva il progetto di divisione per tre distinte masse.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Genova, proponevano ricorso per Cassazione, sulla base di cinque motivi i germani Caia, Sempronia e Mevio; resisteva con controricorso Tizia.

Le parti depositavano memorie ai sensi dell’art. 380 bis, n. 1, c.p.c.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 5371 del 29 febbraio del 2024, rigettava integralmente il ricorso.

Condannava i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente

Dava atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, del D.P.R. n. 115 del 2002 se dovuto.

QUESTIONI

Con il primo motivo i ricorrenti deducevano la violazione dell’art. 112 c.p.c., perché la Corte del gravame avrebbe riformato in via parziale la sentenza di prime cure “procedendo a tre divisioni distinte, riferite ad altrettante separate masse”, benchè Tizia con il proprio atto di citazione avesse domandato procedersi alla unitaria divisione di tutti i beni oggetto della comunione tra le parti, senza fare ricorso a distinzioni, e facendo riferimento ad un progetto di divisione elaborato dalla medesima ed allegato in calce alle conclusioni.

Sostenevano i ricorrenti che “la Corte distrettuale avrebbe provveduto in maniera contraria ed incompatibile con le stesse richieste di parte attrice nonché appellante”.

Con il secondo motivo i ricorrenti censuravano l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 100 c.p.c., per carenza del presupposto dell’interesse ad agire riferibile a Tizia, per avere la stessa richiesto di rilevare la pluralità delle comunioni e di provvedere alla elaborazione di progetti di divisioni distinti da massa a massa. Il giudice delle prime cure infatti aveva accolto la domanda dell’attrice e disposto la divisione a suo tempo richiesta da Tizia, ne derivava pertanto che “era priva di interesse ad appellare tale statuizione adottata secondo le sue richieste”.

Per la Corte di Cassazione i primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi, ma comunque infondati.

I beni oggetto di divisione richiesta da Tizia, riguardavano sia i beni che rientravano nell’asse ereditario della madre, sia quelli pervenuti dalla successione del padre, oltre all’appartamento acquistato, in comunione ordinaria, da tutti i germani nel 1992 di Santa Maria Ligure.

Le masse di beni così identificate trovavano la loro giustificazione su titoli diversi e che non potevano essere unificate in sede di divisione.

Ciò in ossequio a quanto costantemente ribadito dalla Corte di legittimità sul tema, e cioè che rispetto a beni in comunione fondati su titoli diversi, non si crea una comunione unica, bensì tante singole comunioni quanti sono i titoli giustificativi delle medesime.

In altre parole “corrispondendo, quindi, alla pluralità di titoli una pluralità di masse, ciascuna delle quali costituisce un’entità patrimoniale a sé stante, nella quale ogni condividente deve poter far valere i propri diritti indipendentemente da quelli che gli competono sulle altre masse”.

Inoltre relativamente ad ogni singola massa, devono trovare soluzioni i problemi relativi “alla formazione dei lotti e alla comoda divisione dei beni immobili che vi sono inclusi[1]; anche i litisconsorzio necessario sussiste solo relativamente al giudizio di divisione inerente alle singole masse.

Per procedere ad una singola divisione nel caso in cui vi siano masse derivanti da titoli diversi richiede che sia espresso il consenso da parte di tutti i soggetti partecipanti alla comunione che deve essere espresso in un negozio specifico – in forma scritta se riguarda beni immobili[2] – mediante il quale si conferiscono tutte le comunioni in una singola.

In denegata ipotesi, ad avviso della Corte di Cassazione “in mancanza, la parte che non si sia opposta alla domanda di divisione sin dal primo grado può sollevare la questione anche in grado di appello[3].

Nel caso in esame, deriva che la Corte distrettuale correttamente riformava la decisione del giudice delle prime cure, dopo aver rilevato che i beni da sottoporre a divisione erano derivanti da titoli diversi e che non vi era stata la formalizzazione di alcun consenso scritto perché si desse luogo ad una sola divisione “non potendo giudicare inammissibili le contestazioni sollevate dall’originaria attrice con i motivi di appello”.

Con il terzo motivo i ricorrenti censurano l’omessa motivazione su un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, in quanto la Corte del merito avrebbe negato l’applicazione della “decurtazione del 20%, operata dal CTU, sul valore dell’immobile richiesto da Caia, nonostante lo stesso fosse stato concesso in comodato a Sempronia e a suo marito”.

Sul punto la Corte del gravame non avrebbe motivato la circostanza in ragione della quale l’esistenza del titolo di comodato escluda, nell’ambito della divisione, la rilevanza della occupazione onde ottenere la riduzione del valore di stima del bene come libero.

Con il quarto motivo i ricorrenti censuravano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1803, 1809, 1810 c.c., in relazione alla legge sulle locazioni abitative n. 431/98 per avere la Corte distruttale di Genova, confermato che il contratto sottoscritto dai coniugi e Caia fosse un comodato “nonostante le ingenti spese di manutenzione e ristrutturazione sostenute dagli stessi, che inevitabilmente rendevano l’accordo oneroso e quindi pacificamente qualificabile nella categoria dei contratti di locazione”.

Con il quinto ed ultimo motivo, i ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 1362 c.c., per avere qualificato in maniera errata il contratto summenzionato e prescindendo da qualsiasi indagine sulla reale volontà delle parti, “limitandosi a valorizzare il tenore della sola clausola di durata di cui all’art. 4 del contratto”.

Le ultime tre censure venivano esaminate congiuntamente riguardando lo stesso oggetto sebbene sotto diversi aspetti, comunque ritenuti infondati.

Innanzitutto, occorre specificare che il comodato si configura quale contratto essenzialmente gratuito nonché reale in quanto si perfeziona con la consegna della cosa; inoltre può avere ad oggetto solo cose determinate e non consumabili. Inoltre, il comodatario si serve della cosa oggetto del contratto per un uso determinato e per un periodo di tempo altrettanto determinato.

Il medesimo contratto viene specificamente disciplinato all’art. 1803 c.c., il quale dispone che “il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”.

Con riferimento alle spese sostenute, la Corte richiamava l’art. 1808 c.c., il quale dispone che “il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa; egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti”.

Dalla norma in oggetto si evince la regola generale in virtù della quale le spese affrontate per l’utilizzo del bene oggetto del contratto sono poste a carico del comodatario, “quale naturale limitazione dell’obbligazione assunta dal comodante”.

Sostanzialmente, il citato obbligo di sostenere le spese per il godimento della cosa costituiscono una declinazione del più generale obbligo del comodatario di conservazione e custodia della cosa, così come previsto all’art. 1804 c.c. “con il carico del conseguente onere delle spese ordinarie, ivi compresa l’ordinaria manutenzione”.

Al contrario, il comma secondo dell’art. 1808 c.c., disciplina la materia delle spese straordinarie sostenute dal comodatario per la conservazione del bene oggetto dell’accordo.

Secondo la pronuncia della Corte di Cassazione “qui l’impego dell’espressione  conservazione è sinonimo di manutenzione, disciplinata in diversi frangenti di coesistenza di distinti diritti sul medesimo bene come nel caso degli artt. 1575 e 1576 c.c., riferiti alla locazione”.

Le norme appena richiamate, applicabili al contratto di locazione – il quale si distingue dal contratto di comodato in quanto sinallagma consensuale e sostanzialmente a titolo oneroso – pongono a carico del proprietario del bene – il locatore – specifici oneri/obblighi di manutenzione del bene oggetto del contratto fatta eccezione per gli interventi di cd. “piccola manutenzione”, che sono posti a carico del conduttore.

Al contempo, gli artt. 1004 e 1005 c.c., disciplinano gli obblighi di manutenzione ordinaria e straordinaria intercorrenti tra il nudo proprietario e l’usufruttuario.

Tuttavia, al contrario di quanto disciplinato in materia di locazione ed usufrutto il codice civile in materia di comodato non impone un obbligo specifico di manutenzione straordinaria, prevedendo unicamente il diritto del comodatario al rimborso delle spese di manutenzione straordinaria laddove esse siano necessarie e urgenti.

Per la Cassazione “se è pur vero che le spese per la manutenzione straordinaria ricadranno normalmente sul comodante, ove egli si anche proprietario della cosa comodata, come nella pratica può dirsi che d’ordinario accada, occorre qui chiedersi, ai fini della soluzione della controversia in esame, se il comodante sia esposto ad un’obbligazione di manutenzione straordinaria nei confronti del comodatario, giacchè, come si è visto, quella ordinaria grava senz’altro su quest’ultimo, ed altresì quali siano i limiti del diritto al rimborso riconosciuto dal secondo comma dell’art. 1808 c.c. al comodatario”.

Orbene, il proprietario della cosa, comodante, si limita unicamente a consegnare alla controparte contrattuale, comodatario, il bene oggetto del sinallagma – essendo per l’appunto il contratto in oggetto un contratto reale che si perfeziona con la consegna del bene.

Per detta ragione, non può trovare applicazione un precetto normativo sulla falsariga dell’art. 1575 c.c., il quale pone a carico del locatore l’obbligo di mantenere il bene locato in un buono stato manutentivo ed a mantenerla in stato da servire all’uso convenuto.

Ciò vale a dire che il proprietario della cosa si limita, al fine del perfezionamento del contratto, alla consegna del bene nello stato in cui si trova – buono o cattivo che sia – senza essere altresì tenuto a garantire che la cosa sia conforme all’uso che il comodatario intende farne “giacchè detto uso è contemplato dalla norma quale limite imposto al godimento del comodatario e non quale parametro cui rapportare l’idoneità della cosa”.

Detto assunto trova la sua conferma nell’art. 1812 c.c. il quale prevede che “se la cosa comodata ha vizi tali che rechino danno a chi se ne serve, il comodante è tenuto al risarcimento qualora, conoscendo i vizi della cosa, non ne abbia avvertito il comodatario”.

Ebbene, si deve escludere che sul comodante gravi un onere di consegna della cosa in forza di un determinato “standard qualitativo”, ma si deve anche escludere che egli sia onerato della ulteriore obbligazione di manutenzione straordinaria, che avrebbe ragion d’essere solo laddove al comodante fosse imposto di mantenere inalterata la qualità del godimento.

Ed infatti, questo trova ragione anche nella gratuità del negozio giuridico in oggetto: “esclude che il comodante sia tenuto ad alcunchè nei confronti del comodatario, se non ad astenersi dall’interferire con il godimento che una volta stipulato il contratto di comodato, a questi spetta”.

Inoltra, il fatto che ai sensi dell’art. 1808 c.c., il comodatario abbia un diritto al rimborso delle spese sostenute, non implica di per sé l’obbligo del comodante di sostenerle; né tantomeno la norma le impone nei confronti del comodatario: ove vi sia necessità ed urgenza di interventi di natura straordinaria sulla cosa oggetto di comodato il comodatario è unicamente chiamato ad avvisare il proprietario della cosa in forza dell’obbligo di custodia. Il diritto al rimborso sussiste, invece, solo laddove le spese necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa siano tali da non permettere di dare congruo avviso al comodante in quanto “nel tempo la cosa correrebbe il pericolo di perire o di subire ulteriori danni”.

La Corte di Appello di Genova ha pertanto correttamente fatto applicazione del principio in ragione del quale se il comodatario per utilizzare il bene oggetto del contratto debba sostenere spese di natura straordinaria e non necessarie e urgenti, può decidere liberamente di affrontarle o meno e laddove decidesse di farlo non può di conseguenza pretendere il rimborso dal comodante[4].

Cosa che di fatto si è verificata nel caso di specie, distinguendosi unicamente per il fatto che l’immobile è stato dato in comodato dalla sola assegnataria del bene ai due coniugi con il fine di adibirlo a casa familiare poi ristrutturato dai medesimi per “la migliore sistemazione della cassa coniugale”.

Ne consegue che, in mancanza di una domanda di rendiconto, nessuno è obbligato alla restituzione di quanto sostenuto dai comodatari, perché non necessarie ed urgenti ma solamente destinate al migliore godimento della cosa. Per tale ragione l’immobile è stato valutato anche tenendo in considerazione le migliorie apportate.

Non è riscontrabile pertanto alcun errore per omessa motivazione da parte della Corta distrettuale di Genova; al contrario la medesima ha anche argomentato e chiarito che “la decurtazione del valore in misura corrispondente alle spese sostenute equivarrebbe a riconoscere alla pare quello che la stessa non ha chiesto, spese che comunque non potrebbe richiedere perché sostenute da un terzo a fronte del godimento gratuito dell’immobile in comunione”.

[1] Cass. Civ. n. 18910/20

[2] Cass. Civ. n. 314/09

[3] Cass. Civ. n. 5798/92.

[4] Cass. Civ. n. 15543/02

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