I criteri di interpretazione della clausola compromissoria per determinare la natura del lodo arbitrale
di Francesco Tedioli, Avvocato Scarica in PDFCass., sez. III, 7 marzo 2024, n. 6140 Pres. Valitutti e Rel. Parise
Arbitrato – compromesso e clausola compromissoria – interpretazione
(artt. 808, 827 c.p.c.; art. 1362 c.c.)
Massima: “In tema di clausola compromissoria, al fine di valutare se la stessa contenga una pattuizione di deferimento della controversia ad un arbitrato di tipo rituale ovvero irrituale, occorre interpretare la clausola medesima con riferimento al dato letterale, alla comune intenzione delle parti ed al comportamento complessivo delle stesse, senza che il mancato richiamo nella clausola alle formalità dell’arbitrato rituale deponga univocamente nel senso dell’irritualità dell’arbitrato”.
CASO
Il caso ha avuto origine da una controversia relativa allo scioglimento e cancellazione di una società a responsabilità limitata dal Registro delle imprese, che, secondo alcuni soci, era stata deliberata in mancanza dei requisiti previsti dalla legge. In conformità a quanto previsto dallo Statuto, gli istanti adivano la Camera Arbitrale della Camera di Commercio di Roma, per una serie di questioni legate all’asserita invalidità di alcune delibere assembleari con le quale la società era stata sciolta. Essi chiedevano, inoltre, l’accertamento della responsabilità dell’amministratore unico e liquidatore, oltre alla condanna della società e del suo legale rappresentante al risarcimento dei danni.
Il Collegio Arbitrale, dapprima, emanava un lodo parziale, che dichiarava l’invalidità delle delibere assembleari contestate e stabiliva la responsabilità dell’Amministratore Unico e Liquidatore per i danni subiti dalla società. Successivamente, con lodo definitivo, quantificava l’importo dei danni da risarcire e le spese legali.
L’impugnazione del lodo veniva respinta dalla Corte d’Appello e l’Amministratore della società proponeva ricorso in Cassazione fondato su due motivi.
Nel primo motivo, veniva denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e 829 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Si contestava, in particolare, la pronuncia di nullità dei lodi impugnati, poiché la Corte d’Appello aveva ritenuto la natura rituale e non irrituale dell’arbitrato, con ciò violando i limiti della convenzione, atteso che gli stessi attori, nel formulare la domanda alla Camera arbitrale, avevano evidenziato la natura irrituale dell’arbitrato.
La clausola compromissoria, presente nello Statuto della società, prevedeva espressamente che il Collegio Arbitrale dovesse funzionare come “amichevole compositore” e che la stessa si doveva interpretare, analizzando congiuntamente il dato letterale e la comune intenzione delle parti, quale desumibile dal loro complessivo comportamento.
Sempre secondo il ricorrente, la motivazione della Corte d’Appello era, inoltre, contraria alla giurisprudenza richiamata nella stessa sentenza, secondo cui dovrebbe prevalere la qualifica dell’arbitrato rituale in caso di incertezza, poiché, nel caso di specie, l’interpretazione letterale della clausola compromissoria e l’insieme dei comportamenti delle parti non potevano trasformare l’arbitrato irrituale in rituale.
In questo contesto, non poteva, poi, assumere rilievo il fatto che si trattasse di un arbitrato in materia societaria, atteso che la clausola statutaria non faceva riferimento al D.Lgs.5/2003, né il fatto che la decisione fosse delegata a un terzo, in assenza di disposizione al riguardo.
Con il secondo motivo, il ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la controparte non avrebbe esercitato un’azione sociale di responsabilità, ai sensi dell’art. 2476 n. 3 c.c., nei confronti dell’Amministratore, ma si sarebbe limitata alla richiesta di un risarcimento danni, ex art. 2476 n. 6 c.c., esercitando una ordinaria azione di inadempimento.
Veniva, inoltre, denunciata la violazione dell’art. 829 n. 4, 10, 11 e 12 c.p.c., poiché la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che l’interpretazione della domanda costituisse, nel caso di specie, solo un giudizio di merito riservato agli arbitri. Questi ultimi, invece, avrebbero superato i limiti di cui al citato art. 112 e la pronuncia sarebbe frutto di un ragionamento basato su presupposti errati, sì da integrare un vero e proprio vizio di motivazione.
Ad avviso del ricorrente, le iniziali domande erano state sostituite “dall’interpretazione – meglio qualificazione errata degli arbitri – con una successiva pronuncia ben oltre il chiesto e che poi ha fatto parte della nuova domanda formulata dalle appellate”, ed, invece, il Collegio arbitrale non avrebbe interpretato le originarie domande, ma d’ufficio, averebbe qualificato per le attrici una nuova domanda, su cui aveva deciso, peraltro, condannando una società non più esistente sulla base delle risultanze documentali.
SOLUZIONE
La Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello con rinvio, in seguito all’accoglimento del primo motivo di ricorso, mentre il secondo motivo è stato assorbito. Il giudice di rinvio dovrà riesaminare la questione, applicando i principi di seguito esposti.
QUESTIONI
La Corte, con la pronuncia in commento, ha affrontato la questione della natura (rituale o irrituale) dell’arbitrato, non limitandosi a verificare “la tenuta”, sotto il profilo della motivazione, della scelta adottata dal giudice di merito.
La qualificazione della natura dell’arbitrato è cruciale poiché influisce sull’ammissibilità dell’impugnazione del lodo per nullità (cfr. in tal senso, tra le più recenti, Cass. 6 maggio 2021, n. 11847 ; Cass. 13 settembre 2019, n. 7198; Cass. 8 novembre, n. 25258; Cass. 18 febbraio 2008 n. 3933).
Il lodo irrituale non è, infatti, soggetto al regime di impugnazione previsto per quello rituale dagli artt. 827 e ss. c.p.c. , bensì alle impugnative negoziali, sia con riferimento alla validità dell’accordo compromissorio, sia all’attività degli arbitri, da proporre con l’osservanza delle norme ordinarie sulla competenza e del doppio grado di giurisdizione (cfr. Cass. 18 novembre 2015 n. 23629; Cass. 1 aprile 2011, n. 7574).
In altre parole, la Suprema Corte ha il potere di divenire “giudice del fatto”, accertando (attraverso l’esame degli atti e degli elementi acquisiti al processo) la reale volontà delle parti espressa nella convenzione arbitrale.
Per determinare se l’arbitrato sia rituale o irrituale, è importante considerare non soltanto il tenore letterale della clausola compromissoria, ma anche il comportamento complessivo delle parti, seppure come criterio ermeneutico ausiliario, consentito dall’art. 1362 c.c., quando i risultati dell’interpretazione letterale e logico-sistematica non sono sufficientemente risolutivi.
Quanto alla distinzione tra arbitrato rituale e irrituale, entrambe fondate sull’autonomia negoziale e sulla legittimazione delle parti a derogare la giurisdizione ordinaria per ottenere una decisione privata della controversia (come stabilito da varie sentenze successive alle Sez. Un. 3 agosto 2000 n. 527), la differenza tra le due figure non risiede nel fatto che, nel primo caso, le parti affidino agli arbitri una funzione sostitutiva rispetto a quella del giudice, ma nella natura del provvedimento finale reso dagli arbitri.
Nell’arbitrato rituale, le parti vogliono ottenere un lodo, suscettibile a divenire un titolo esecutivo e idoneo a produrre gli effetti previsti dall’articolo 825 c.p.c., seguendo le regole del procedimento arbitrale. Al contrario, nell’arbitrato irrituale, le parti intendono affidare agli arbitri la soluzione di controversie, presenti o future, relative a determinati rapporti giuridici, attraverso uno strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento. In questo caso, le parti si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come vincolante, perché espressione della loro volontà.
Sulla base di tali principi, si è interpretata la clausola compromissoria in questione, in favore di un arbitrato irrituale.
La clausola statutaria oggetto di esame recita: “Le controversie insorgenti tra la società e i soci, l’organo amministrativo ed il liquidatore, in dipendenza delle presenti norme di funzionamento della società, purché compromettibili, saranno decise dalla Camera Arbitrale presso la CCIAA competente per territorio. Il Collegio arbitrale funzionerà con poteri di amichevole compositore e provvederà anche sulle spese e competenze spettanti agli arbitri“.
Oltre al chiaro riferimento ai “poteri di amichevole compositore“, emerge, in modo decisivo, la scelta, espressa dai controricorrenti, di optare per un arbitrato esclusivamente negoziale. Tale volontà è stata manifestata alla Camera Arbitrale, tramite una richiesta di arbitrato irrituale, come affermato con chiarezza dal ricorrente e non contestato dalla controparte.
Va poi evidenziato che la società in questione è caratterizzata da una composizione “familiare”, tutti stretti parenti.
Inoltre, la clausola non specifica attività procedimentalizzate che gli arbitri dovranno seguire, né precisi criteri per la loro nomina, tali da garantirne la terzietà. Allo stesso modo, l’oggetto dell’attività concretamente affidata al collegio arbitrale è poco chiaro, stante il generico riferimento a controversie sorte “in dipendenza delle presenti norme di funzionamento della società“, che rende poco significativa in senso contrario, la previsione della “compromettibilità“.
In base a questi elementi, emerge chiaramente la natura irrituale dell’arbitrato voluto dalle parti. Questa conclusione non è solo basata sul fatto che le funzioni degli arbitri siano quelle di “amichevole compositore“, ma anche su tutti gli altri fattori esposti. È evidente l’intenzione delle parti di arrivare a un lodo irrituale – inidoneo a produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c. – come confermato dal fatto che nessuna delle parti ha richiesto l’esecutività del lodo.
Va aggiunto che, ove gli arbitri abbiano considerano l’arbitrato come rituale e abbiano seguito le forme dell’art. 816 e ss. c.p.c., l’impugnazione del lodo, anche se diretta a far valere la natura irrituale dell’arbitrato ed i conseguenti errores in procedendo commessi dagli arbitri, va proposta davanti alla Corte d’appello ai sensi dell’art. 827 e ss. c.p.c. L’impugnazione non va svolta, quindi, nei modi propri dell’impugnazione del lodo irrituale, ossia davanti al giudice ordinariamente competente e facendo valere soltanto i vizi che possono inficiare qualsiasi manifestazione di volontà negoziale (Cass. 6 settembre 2006, n.19129; Cass. 8 novembre 2013, n. 25258; Cass. 18 febbraio 2016 n. 3197).
Per determinare il mezzo di impugnazione del lodo, bisogna far riferimento alla natura dell’atto emanato dagli arbitri e non alla natura dell’arbitrato come concepita dalle parti. Se, infatti queste ultime hanno previsto un arbitrato irrituale, ma, gli arbitri hanno pronunciato un lodo rituale, esso sarà impugnabile esclusivamente ai sensi dell’art. 827 e ss. c.p.c.
Per definire la natura del lodo è fondamentale interpretare la convenzione di arbitrato e si deve presumere, salvo emergano elementi contrari che gli aritri si siano attenuti alle indicazioni delle pareti. Tuttavia, se dalla procedura adottata o dalla qualificazione data dagli arbitri, risulta chiaramente che il lodo è rituale o irrituale, questo è determinante per individuare il mezzo di impugnazione applicabile, senza la necessità di ricorrere all’interpretazione della volontà espressa dalle parti nella convenzione.
La volontà delle parti è rilevante solo per la validità del lodo. Infatti, se le parti hanno previsto un arbitrato irrituale ma viene emesso un lodo rituale, questo sarà nullo poiché emesso “fuori dai limiti della convenzione d’arbitrato” (art. 829, comma 1, n. 4).
Nel caso specifico, è chiaro che gli arbitri hanno emesso due lodi rituali (il primo parziale e il secondo definitivo). Essi andavano impugnati per nullità avanti la Corte d’Appello, come poi è accaduto, ma l’arbitrato aveva natura irrituale.
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