24 Gennaio 2023

Cremazione di salma esumata non autorizzata dai parenti e risarcimento del danno per lesione del diritto di culto

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, 10.01.2023, n. 370 – Pres. Travaglino – Rel. Cricenti

Cremazione non autorizzata – Lesione del diritto di culto – Risarcimento del danno non patrimoniale. 

(art. 19 Cost., art. 2 Cost., art. 2059 c.c., art. 3 L. 130/2001, art. 79 DPR 285/1990)

[1] L’interesse al culto dei defunti non è leso soltanto dalla distruzione o dispersione del cadavere, ma altresì dalla imposizione di forme di culto che non sono previamente accettate dai parenti del defunto. Questa conclusione è imposta proprio dalla necessità del consenso dei parenti alla cremazione del corpo del defunto, poiché prevedendo che la trasformazione della salma in cenere debba essere autorizzata, è la legge stessa che considera lesione del diritto una trasformazione che ne prescinda. Deve dunque trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale formulata dai prossimi parenti a seguito della trasformazione in cenere della salma del congiunto senza la previa autorizzazione.

CASO

La figlia di un defunto citava in giudizio la società concessionaria, per affidamento diretto del Comune, dei servizi cimiteriali di sepoltura e movimentazione delle salme, onde ottenerne la condanna al risarcimento del danno patito in conseguenza della cremazione, non autorizzata dai familiari, dei resti del genitore.

L’attrice assumeva che né la moglie (al tempo ancora vivente), né le due figlie del defunto erano state informate della cremazione, posto che la concessionaria, senza procedere ad alcun tipo di verifica anagrafica di residenza, si era limitata a trasmettere una lettera raccomandata alla sola attrice (e non agli altri congiunti) all’indirizzo riportato nella fattura delle spese di sepoltura, il quale da anni non era più quello di residenza della destinataria, con la conseguenza che alla stessa la missiva non era mai pervenuta.

L’attrice, inoltre, deduceva che, in mancanza di comunicazione, i familiari non avevano potuto optare per una nuova inumazione, in luogo della cremazione, che ritenevano contraria alle proprie convinzioni religiose.

Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda dell’attrice, condannando la convenuta al risarcimento del danno.

La sentenza veniva confermata dalla Corte d’Appello, che precisava che in tema di cremazione della salma esumata la disciplina si rinviene nell’art. 79 del D.P.R. 285/1990 che regolamenta la cremazione del cadavere dopo il decesso (in alternativa alla inumazione o tumulazione) ma che, tuttavia, è applicabile anche al caso di resti umani, rinvenuti in sede di esumazione, come si desume dall’art. 3, co. 6 del D.P.R. 254/2003, che nell’escludere, per i resti umani, l’applicazione dei commi 4 e 5 dell’art. 79, fa evidentemente salva l’applicazione dei commi 1 e 2, che prevedono la necessità di una volontà espressa (in vita) dal defunto o, dopo il decesso, dal coniuge o (in difetto) dai parenti più prossimi. In tal senso dispone anche l’art. 3, lett. g della l. 130/2001(Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri), ai sensi della quale “l’ufficiale dello stato civile, previo assenso delle persone di cui alla lettera b numero 3, o in caso di loro irreperibilità, dopo trenta giorni dalla pubblicazione nell’albo pretorio del comune di uno specifico avviso, autorizza la cremazione delle salme inumate da almeno dieci anni e delle salme tumulate da almeno vent’anni”.

Inoltre, la corte territoriale aveva precisato che nel caso in cui i familiari, “ricevuta la comunicazione, si disinteressino, l’amministrazione non possa procedere alla cremazione dei resti mortali, in quanto il disinteresse non equivale a consenso, con la conseguenza che, in caso di disinteresse dei familiari, si debba procedere ad una nuova inumazione” (art. 3 l. 130/2001).

Posto che, nel caso specifico, l’impresa concessionaria non aveva dimostrato di aver informato i familiari che dovevano esprimere il consenso, la Corte d’appello aveva dichiarato l’illiceità della condotta della ditta concessionaria, che proponeva ricorso in Cassazione articolato in tre motivi.

SOLUZIONE

Il Regolamento di polizia mortuaria (contenuto nel D.P.R. 285/1990) prevede la possibilità di procedere alla cremazione delle salme inumate da almeno dieci anni e delle salme tumulate da almeno vent’anni, previo consenso dei parenti. Di conseguenza, la cremazione non autorizzata di salma esumata lede la libertà di culto e fonda il diritto dei parenti del defunto al risarcimento del danno non patrimoniale, subìto per la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, quale la libertà di religione ex art. 19 Cost. e con essa le pratiche che ne sono espressione.

QUESTIONI

Con il primo motivo di ricorso, la società concessionaria dei servizi cimiteriali deduceva che l’art. 79 del DPR 285/1990 attiene esclusivamente al caso della cremazione di cadavere in occasione della “prima sepoltura”, laddove, invece, per la cremazione dei resti mortali, a seguito di attività di esumazione ed estumulazione, l’art. 3 del DPR 254/2003 prevede che l’autorizzazione sia rilasciata dall’amministrazione comunale competente, senza che occorra il consenso dei familiari.

La ricorrente assumeva che la cremazione e la conservazione delle ceneri nei cimiteri sono disciplinate dal DPR 285/1990 e che “le autorizzazioni alla cremazione, al trasporto, all’inumazione o alla tumulazione dei resti mortali, sono rilasciate ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 2003, n. 254”, ragione per cui il Giudice d’appello avrebbe errato nell’affermare che, nella fattispecie, il consenso dei familiari era già richiesto dal DPR 285/1990; così come, parimenti, avrebbe errato nell’interpretazione ed applicazione dell’art. 11 dell’ordinanza sindacale del Comune di Torino n. 970/2011 che, secondo la ricorrente, legittimerebbe l’autorizzazione alla cremazione, indipendentemente dal consenso (o assenso) espresso dai familiari.

La ricorrente censurava, poi, l’applicazione nella fattispecie dell’art. 3, co. 1, lett. g della l. 130/2001, affermando l’inefficacia della norma in assenza del regolamento attuativo, che ne rendesse “chiara, coerente e possibile l’operatività” (ad esempio, chiarire la portata dell’irreperibilità, quale condizione per procedere in mancanza di assenso, le modalità e le condizioni della comunicazione agli interessati dell’avvio dell’eventuale cremazione, le conseguenze del silenzio/disinteresse degli interessati, a seguito della ricezione della comunicazione, etc).

Pertanto, secondo la ricorrente, non operando l’art. 3, lett. g della l. 130/2001 in assenza del regolamento attuativo, “in caso di cremazione di resti mortali, non può che intervenire il disposto del già richiamato art. 3, co. 5 e 6 del DPR 254/2003, intervenuto successivamente alla norma in esame, che rimette al competente ufficio comunale il rilascio dell’autorizzazione (anche) alla cremazione dei resti mortali, senz’altra condizione”.

Infine, la ditta di servizi cimiteriali si doleva della violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 c.c. e 2 Cost. per avere la gravata sentenza affermato la violazione del principio costituzionale della pietas dei defunti “costituente estrinsecazione della propria libertà personale e del diritto ad esercitare il proprio pensiero e di professare la propria fede”.

Secondo la ricorrente, nel caso di specie, non sussisteva nessuna lesione del diritto soggettivo ad esercitare il culto dei propri morti, in quanto le ceneri del defunto erano state poste in un’urna cineraria nominativa e la pratica della cremazione, invalsa nel costume sociale, è da tempo ammessa anche dalla Chiesa Cattolica.

La Suprema Corte ha ritenuto non fondati i motivi di doglianza, rigettando il ricorso.

La vicenda giunta all’esame della Cassazione è sostanzialmente inedita, giacché l’unica pronuncia in materia risale al Tribunale di Terni del 28.02.2011, che negava il risarcimento del danno non patrimoniale in un’ipotesi quasi analoga, stabilendo che il culto dei morti può egualmente esplicarsi in presenza di un sepolcro o di un’urna contenente le ceneri.

Nel caso di specie, invece, secondo gli Ermellini, pur avendo la legge 130/2001 demandato ad un successivo regolamento (che non è stato emanato) la disciplina di  polizia mortuaria, tuttavia l’art. 1, lett g, secondo cui “l’ufficiale dello stato civile, previo assenso dei soggetti di cui alla lettera b) numero 3), o, in caso di loro irreperibilità, dopo trenta giorni dalla pubblicazione nell’albo pretorio del comune di uno specifico avviso, autorizza la cremazione delle salme inumate da almeno dieci anni e delle salme tumulate da almeno venti anni“, è comunque vigente, essendo il suo precetto sufficientemente chiaro e dettagliato da potersi applicare.

In base all’art. 3 l. 130/2001 l’autorizzazione alla cremazione deve essere concessa nel rispetto della volontà espressa in vita dal defunto in una disposizione testamentaria o con altra forma idonea  (es. se il defunto era iscritto ad associazioni riconosciute che abbiano tra i propri fini statutari quello della cremazione dei cadaveri dei propri associati (anche contro la volontà dei familiari) o, in mancanza di tale volontà, dai suoi familiari (in primo luogo il coniuge ed in sua mancanza il parente più prossimo).

Quindi, in mancanza della volontà del defunto si applica la disposizione suddetta che richiede la comunicazione dell’esumazione ai parenti del defunto o, in caso di loro irreperibilità, la pubblicazione dell’avviso nell’albo pretorio del Comune.

Nella fattispecie all’esame del Supremo Collegio la comunicazione è stata effettuata ad un domicilio non corretto, e poi successivamente rinnovata erroneamente per pubblici proclami, ossia su un giornale, ma tale strumento tuttavia non è idoneo al raggiungimento dello scopo previsto dalla norma.

La Cassazione ha precisato che il consenso dei parenti alla cremazione è strumentale alla tutela di un interesse preesistente, ossia quello del familiare all’integrità del corpo del defunto ed alla possibilità di culto verso quest’ultimo. Il consenso dei parenti è necessariamente richiesto – precisa il Collegio – in quanto è riconosciuto al congiunto un “interesse non solo al culto verso il defunto ma altresì a che la modalità di tale culto non sia imposta in forme diverse da quelle fino a quel momento esercitate”.

Inoltre, il consenso del parente “è strumentale alla tutela dell’interesse cosiddetto secondario al sepolcro”.

A tale riguardo, la Cassazione coglie l’occasione per fornire le definizioni di interesse primario ed interesse secondario al sepolcro. Il primo è inteso quale diritto ad essere seppellito (ius sepulchri) o a seppellire altra persona (ius inferendi mortuum in sepulchrum) in un determinato manufatto funerario; il secondo è inteso come facoltà di accedere al luogo di sepoltura in occasione delle ricorrenze, nonché di opporsi agli atti di violazione del sepolcro o alla lesione della memoria delle persone ivi seppellite. Tale diritto secondario, consistente nella tutela del sentimento del parente verso il defunto, viene considerato personalissimo dell’individuo ed intrasmissibile.

I diritti secondari di sepolcro, di cui i parenti del defunto sono direttamente titolari, implicano “sentimenti che esaltano l’aspetto spirituale dell’uomo e costituiscono la parte più alta e fondamentale del patrimonio affettivo della comunità, e rappresentano dal punto di vista giuridico la classe dei sentimenti-valori, qualificati positivamente dal diritto e protetti sia in funzione della loro attuazione, sia contro eventuali violazioni”.

Pertanto, la violazione del diritto secondario di sepolcro dà luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dai congiunti, i quali li subiscono in proprio, trattandosi – come si è detto – di un diritto personale ed intrasmissibile, e che viene esercitato iure proprio, indipendentemente da eventuali diritti successori nei confronti del defunto. Ciò che rileva, non è, dunque, l’essere erede del defunto, ma solo il rapporto di parentela con la persona deceduta e poi rimossa dal sepolcro per essere cremata, senza autorizzazione dei familiari.

L’interesse dei parenti ad avere un luogo in cui onorare il caro estinto e l’interesse che tale luogo non venga trasformato ma conservato, è esplicazione di un diritto della personalità, tutelato dall’art. 2 Cost., posto che il culto dei defunti è parte della vita personale di ciascun individuo, che può rientrare nella previsione di cui all’art. 2 Cost.

Inoltre, il diritto secondario di sepolcro trova fondamento anche nell’art. 19 Cost., che garantisce la libertà religiosa (e con essa le pratiche che ne sono espressione), la cui lesione è tutelata ai sensi dell’art. 2059 c.c..

Nel caso di specie, la lesione del diritto costituzionale è data proprio dalla trasformazione non autorizzata della salma in cenere, in quanto “l’interesse al culto dei defunti non è leso soltanto dalla distruzione o dispersione del cadavere, ma altresì dalla imposizione di forme di culto che non sono previamente accettate dai parenti del defunto”.

In conclusione, quindi, posto che è la legge che prevede il diritto di opporsi alla cremazione, se ne deduce che essa, laddove non autorizzata, è un atto lesivo del diritto di culto.

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