11 Aprile 2017

Il contenuto dell’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 7 febbraio 2017, n. 3186

MASSIMA

L’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio rispetto ai divieti espressamente previsti dall’art. 2015 c.c., perché detta norma deve essere integrata con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi. Il lavoratore, dunque, è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.

COMMENTO

Nel caso concreto oggetto di causa, il dipendente era stato licenziato per giusta causa dalla società che gli aveva contestato di aver contattato dipendenti della stessa società, alcuni peraltro occupanti ruoli strategici, per convincerli ad entrare in una nuova società – operante nel medesimo settore produttivo – che il dipendente stava costituendo unitamente all’ex presidente del consiglio di amministrazione della società; il datore di lavoro aveva altresì contestato al proprio dipendente di aver avviato trattative anche con alcuni dei clienti dell’azienda. La Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza di prime cure che aveva parzialmente accolto il ricorso del dipendente, aveva respinto tutte le domande proposte dal lavoratore. Avverso tale decisione aveva proposto ricorso in Cassazione il lavoratore, sostenendo (i) l’errata interpretazione dell’art. 2105 c.c. (ii) l’erronea interpretazione della norma circa la gravità del comportamento in relazione al licenziamento disciplinare, sostenendo – in proposito – che la valutazione sulla sussistenza della giusta causa deve essere condotta non in astratto ma bensì con riferimento al caso concreto ed occorre tener conto non della sola condotta, ma anche dei motivi e dell’intensità dell’elemento intenzionale. Nel caso di specie, al contrario, la Corte territoriale, affermava il lavoratore, si è limitata ad una apodittica affermazione di sussistenza della violazione dell’obbligo di fedeltà, senza considerare in alcun modo gli ulteriori elementi che vanno apprezzati ai fini del giudizio di proporzionalità. La Cassazione dichiarando infondato infondato il ricorso nella parte in cui denuncia l’errata interpretazione dell’art. 2105 c.c., ed è inammissibile per il resto, ha confermato in sostanza la pronuncia della Corte di Appello di Bologna. Relativamente al primo motivo di impugnazione la Corte ha confermato il proprio orientamento consolidato nell’affermare che l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio rispetto ai divieti espressamente previsti dal solo art. 2105 c.c., in quanto detta norma deve essere necessariamente integrata con quanto disposto dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi. Gli Ermellini hanno quindi evidenziato che il lavoratore è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta “che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto”. Conclude la Corte specificando che da detto principio generale discende che, sebbene l’ipotesi espressamente prevista dall’art. 2105 c.c., postuli il solo compimento di atti, sia pure iniziali, di gestione di attività concorrente, tuttavia ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà nei termini più ampi – utili a valutare l’ipotesi oggetto di commento -, assume rilievo anche la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro, ivi comprese quelle attività del dipendente volte alla costituzione di una società o di una impresa individuale avente ad oggetto la medesima attività economica – commerciale svolta dal datore di lavoro.

Articolo tratto dalla Rivista Euroconference “IL GIURISTA DEL LAVORO”