Considerazioni sulla natura del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento
di Enrico Picozzi Scarica in PDFIl presente lavoro intende sondare l’effettiva tenuta della tesi giurisprudenziale che ricostruisce il reclamo ex art. 18 l. fall. nei termini di un novum iudicium, caratterizzato da un effetto devolutivo pieno ed automatico, al quale non si applicano gli artt. 342 e 345 c.p.c.
1. Premessa: l’evoluzione dei rimedi avverso la sentenza dichiarativa di fallimento
Come è noto, prima delle riforme del biennio 2006-2007, l’opposizione ex art. 18 l. fall. costituiva il «primo» rimedio per criticare la giustizia e/o la validità della sentenza dichiarativa di fallimento. La giurisprudenza non dubitava della natura pienamente devolutiva dello strumento (cfr. Cass., Sez. I, 18 giugno 2004, n. 11393; Cass., Sez. I, 26 novembre 2002, n. 16658. In dottrina, v. E. F. Ricci, Lezioni sul fallimento, I, Milano, 1992, 187 e ss.); mentre, in relazione all’appello di cui al successivo art. 19 l. fall., esperibile nei confronti della pronuncia resa in sede di opposizione, predicava l’operatività delle regole e dei principi di cui al codice di rito ex art. 339 e ss., c.p.c. (cfr. Cass., Sez. I, 3 ottobre 2003, n. 14736; Cass., Sez. I, 24 maggio 2000, 6796).
Questo articolato apparato rimediale è stato superato dapprima con il d.lgs. 5 del 2006, che, intervenendo sul menzionato art. 18 l. fall., ha sostituito l’appello alla previgente opposizione e, successivamente, dall’art. 2, comma 7, del d.lgs. 169 del 2007, che ha definitivamente riscritto l’art. 18 l. fall., introducendo l’istituto del reclamo quale mezzo di impugnazione avverso la dichiarazione di fallimento.
Nelle intenzioni dei conditores (v. relazione di accompagnamento al d.lgs. 169/2007), la modifica da ultimo indicata varrebbe «(…) ad escludere l’applicabilità della disciplina dell’appello (…) e ad assicurare l’effetto pienamente devolutivo dell’impugnazione».
Allo scopo peraltro sembrerebbe non essere rimasta insensibile la stessa giurisprudenza di legittimità, la quale è solita affermare che il reclamo «è caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno, cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c.» (cfr., ex multis Cass., Sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26332; Cass., Sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835; Cass., Sez. I., 24 maggio 2012, n. 8227; Cass., Sez. I, 5 novembre 2010, n. 22546).
Ciò posto, occorre ora valutare se a queste indicazioni di principio seguano, sul versante delle pratiche applicazioni, conclusioni coerenti, cioè tali da far ritenere che il reclamo sia a tutti gli effetti un novum iudicium; oppure se, nell’apparente omogeneità delle massime giurisprudenziali, si rinvengano soluzioni non del tutto coincidenti con le premesse accolte. A questo fine, l’indagine deve – seppur sinteticamente – dirigersi ad esaminare tre fondamentali questioni: a) la natura dell’effetto devolutivo del reclamo;b) l’affermata inapplicabilità della regola della specificità dei motivi; c) la sussistenza o meno di un divieto di nuove domande, eccezioni e prove.
2. Se l’effetto devolutivo che connota il reclamo sia realmente pieno ed automatico
Come già anticipato, costantemente si rinviene l’affermazione, nella giurisprudenza di legittimità come pure in quella di merito (v. da ultimo App. Venezia, 18 aprile 2016; per ulteriori riferimenti, cfr. par. 4), che l’interposizione del reclamo determini il passaggio della lite alla piena cognizione della Corte d’Appello: ne dovrebbe seguire una dilatazione dello spettro conoscitivo del giudice dell’impugnazione, non legato ai soli vizi dedotti dal reclamante o alle domande ed eccezioni non accolte e tempestivamente riproposte dal reclamato, ma involgente l’intera vicenda giudiziale nel suo complesso.
Questa ricostruzione, benché sia stata recentemente avallata anche dalla Corte Costituzionale (v. Corte Cost., 18 maggio 2016, n. 146), incontra invero alcuni significativi limiti. In primo luogo, e come chiarito da Cass., Sez. I, 2 aprile 2012, n. 5257, la pienezza dell’effetto devolutivo non può determinare il superamento di eventuali decadenze maturate in primo grado: nel caso di specie infatti la Cassazione ha escluso la proponibilità per la prima volta in sede di impugnazione dell’eccezione di incompetenza ex art. 9 l. fall. La quale soluzione, peraltro, mal si concilia con la riconosciuta facoltà al debitore, non costituitosi in primo grado, di difendersi senza limitazioni di sorta in sede di reclamo (v. infra par. 4).
In secondo luogo, il giudice del gravame non può spingersi sino al punto di valutare o di rilevare d’ufficio la carenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della fallibilità, allorquando questi non siano in contestazione fra le parti (così Cass., Sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26332; Cass., Sez. I, 21 giugno 2016, n. 12694): il che equivale a dire che l’ambito della cognizione della Corte d’Appello non può oltrepassare le prospettazioni formulate dal reclamante (così espressamente Cass., Sez. I, 13 giugno 2014, n. 13505; Cass., Sez. I, 28 ottobre 2010, n. 22110, annotata da A. Tedoldi, in Fall., 2011, 291 e ss.), con la conseguente formazione del giudicato interno ex art. 329, comma 2, c.p.c. rispetto alle questioni non costituenti oggetto di censura.
3. Se ed in quale misura il principio della specificità dei motivi di impugnazione non trovi applicazione
Uno stretto ed intuitivo legame avvince la tematica affrontata nel corso del precedente paragrafo al problema dell’operatività dell’onere di specificazione dei motivi di impugnazione: al quale problema – come già ricordato – il Supremo Collegio offre con risolutezza una soluzione negativa. L’opzione interpretativa in discorso, d’altra parte, è stata ultimamente ribadita anche da Cass., Sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26332, cit., stando alla quale il reclamante può limitarsi a riproporre le tesi difensive già addotte senza contrastare la motivazione della sentenza.
Tuttavia e ad uno sguardo più attento, l’orientamento in esame non sembrerebbe così solido come, prima facie, potrebbe ritenersi. In questa direzione, ad esempio, Cass., Sez. I, 13 giugno 2014, n. 13505, ha affermato che la natura devolutiva del reclamo non deve indurre ad equipararlo a quei procedimenti nei quali, la mera richiesta di riesame è sufficiente a provocare il secondo grado di giudizio, precisando – e il rilievo è di notevole importanza – che il disposto di cui all’art. 342 c.p.c. risulta «attenuato» e non tout court inapplicabile. Questa conclusione, inoltre, troverebbe sostegno nello stesso tenore letterale dell’ art. 18 l. fall., e più precisamente al comma 2, n. 3., alla luce del quale, il reclamante deve esporre nel ricorso «i fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione», cioè deve formulare «veri e propri motivi di impugnazione» (così Cass. 2014/13505, cit.; in termini analoghi si veda pure Cass., Sez. I, 28 ottobre 2010, n. 22110; in dottrina, N. Rascio, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, in Riv. dir. proc., 2008, 955 e ss.).
Del resto, la stessa giurisprudenza di merito non sembra condividere la tesi dell’inapplicabilità dell’art. 342: in questo senso, si pensi ad esempio ad App. Genova, 5 maggio 2016, n. 35, che ha imposto al reclamante di contestare specificamente, in sede di reclamo, l’affermata inesistenza del credito, inserito dapprima nel passivo concordatario e successivamente costituente titolo di legittimazione per domandare il fallimento del debitore. Analogamente – seppur con qualche ambiguità – anche App. Milano, 21 febbraio 2013, che, dopo aver tralaticiamente richiamato la massima giurisprudenziale circa l’inoperatività del combinato disposto di cui agli artt. 342 e 345 c.p.c., ha rigettato l’eccezione di inammissibilità del reclamo per carenza di specificità dei motivi, affermando non tanto l’inapplicabilità della regola in discorso al reclamo, quanto che lo stessa fosse stata rispettata nell’atto di gravame.
4. Se ed in quale misura il divieto dei nova in appello possa valere anche per il reclamo fallimentare
Le oscillazioni giurisprudenziali sull’ampiezza dell’effetto devolutivo e sull’onere di specificazione dei motivi, che insinuano qualche dubbio sulla pretesa estraneità del reclamo alla più ampia categoria dei mezzi di impugnazione in senso stretto, sembrano diradarsi innanzi alla posizione della giurisprudenza in tema di nova.
Più specificamente, il Supremo Collegio ha riconosciuto al fallito – non costituitosi in fase di istruttoria prefallimentare – il potere di allegare per la prima volta in sede di reclamo i fatti a sua difesa e di indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi al fine di sindacare la sussistenza dei presupposti che hanno condotto alla sua dichiarazione di fallimento (così Cass., Sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835; Cass., Sez. I, 26 settembre 2014, n. 6300; Cass., Sez. VI, 6 giugno 2012, n. 9174).
In precedenza, Cass., Sez. I, 5 novembre 2010, n. 22546, ha annullato la sentenza della Corte d’appello, che aveva negato di poter valutare la prova documentale introdotta per la prima volta dal debitore in sede di impugnazione.
Soluzioni affini, a ben vedere, si ritrovano nella stessa giurisprudenza di merito.
In via esemplificativa, basti ricordare che App. Bologna, 1 giugno 2009, ha affermato che la natura camerale del reclamo consente alle parti di introdurre nel processo nuovi elementi di prova (nel caso di specie quelli accertati in corso di procedura concorsuale dal curatore) e correlativamente impone all’organo giudicante la loro valutazione (nella medesima direzione, si veda pure App. Roma, 31 maggio 2011; App. Salerno, 24 febbraio 2010; App. Torino, 13 novembre 2008).
Questa significativa apertura ai nova potrebbe rinvenire la propria base normativa nello stesso testo dell’art. 18, comma 2, n. 4, secondo il quale, il reclamante, in deroga al divieto di cui all’art. 345 c.p.c. (così App. Torino, 13 novembre 2008, cit.), deve indicare i mezzi di prova di cui intende valersi.
Ad ogni modo, va evidenziato che tale indicazione dovrebbe farsi, a pena di decadenza, nello stesso atto introduttivo del giudizio (arg. ex Cass. 9835 del 2016, cit.).
5. Conclusioni
In questo quadro così eterogeneo e frastagliato, la massima giurisprudenziale riportata nell’ambito del primo paragrafo trova riscontro limitatamente all’inoperatività dell’art. 345 c.p.c. Inoltre, la distanza che separa il reclamo di cui all’art. 18 l. fall. dalla disciplina dell’appello ordinario sembrerebbe ulteriormente essersi ridotta per effetto di Cass., Sez. I, 9 febbraio 2016, n. 2302, che ha applicato all’impugnazione fallimentare un orientamento costante in materia di appello, vale a dire la declaratoria di inammissibilità del gravame – per carenza di interesse – fondato esclusivamente su vizi di rito che non implicano la rimessione in primo grado. Questa estensione, infatti, costituisce un ulteriore tassello a favore della ricostruzione che tende ad escludere la pienezza dell’effetto devolutivo, da un lato e, dall’altro lato, conferma che in capo al reclamante grava un onere di impugnazione specifica nel merito del provvedimento.