18 Giugno 2019

Condotta colposa del medico e pregressa situazione patologica: quali riflessi sul nesso di causalità?

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, 18 aprile 2019, n. 10812, sent. – Pres./ Rel.  Scarano

Responsabilità medica – Fattore naturale non imputabile privo di interdipendenza funzionale con la condotta colposa del sanitario – Rilevanza sul piano del nesso causale tra detta condotta e l’evento dannoso – Esclusione – Rilevanza sul piano della determinazione equitativa del danno – Condizioni e limiti.

[1] In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato (nella specie, deficit da surfactante o sindrome da distress o delle membrane ialine) un antecedente privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario (nella specie, intempestivo intervento di taglio cesareo di fronte a sofferenza fetale acuta), ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – solamente ad una delimitazione del “quantum” del risarcimento.

[2] La responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria è configurabile, oltre che nei confronti del paziente, anche relativamente a soggetti terzi cui si estendono gli effetti protettivi del contratto; ne consegue che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del padre del concepito, il quale in caso di inadempimento, è perciò legittimato ad agire per il risarcimento del danno.

CASO

[1] [2] A seguito di un travagliato iter giudiziario, la Corte d’Appello di Caltanissetta, in parziale riforma della pronuncia del giudice di prime cure, ha accolto parzialmente la domanda di risarcimento di una coppia di coniugi siciliani per i danni neonatali sofferti dalla di loro figlia durante il parto, la quale era tuttavia già affetta da pregressa grave situazione patologica (malattia da distress o patologia delle membrane ialine).

Sia il Tribunale che la Corte di Appello dichiaravano la responsabilità del medico quel giorno in servizio presso la divisione di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale in cui era avvenuto il parto per non avere sottoposto la madre della piccola “a tutti gli esami strumentali necessari ed imposti dai dati obbiettivi per accertare la grave sofferenza di un feto e le condizioni di un altro, in parto gemellare, al fine di assicurare un rapido trasferimento della puerpera per il parto presso altra struttura attrezzata con Unità di Terapia Intensiva Prenatale”.

L’errore medico concorreva a causare danni al feto, che – come evidenziato nel corso della ctu medica – presentava una pregressa patologia alle membrane ialine, che aveva contribuito a generare un deficit respiratorio, causa di crisi ipossiche e di conseguente grave encefalopatia.

Sulla base della CTU disposta ed espletata in sede di giudizio di appello, la Corte di secondo grado ha ritenuto non addebitabile la sintomatologia dolorosa lamentata dalla partoriente al momento del ricovero “….ad una minaccia di parto pre-termine, ma, piuttosto al distacco intempestivo di placenta, non diagnosticato e trattato con tocolitici, mentre sarebbe stato urgente il taglio cesareo, per scongiurare danni al feto”; ha per converso “accertato il nesso di causalità materiale tra la condotta omissiva colposa dei sanitari ….. – consistita nel non praticare il parto cesareo all’insorgere della sofferenza fetale connessa alla crisi di bradicardia, che i predetti non hanno neppure diagnosticato – ed il danno, essendosi la suddetta condotta posta come antecedente idoneo a generarlo, in base al criterio di probabilità relativa del più probabile che non”.

Il Giudice di appello ha poi rideterminato l’ammontare del risarcimento riconosciuto in favore della minore all’esito del giudizio di primo grado, in considerazione della presenza di un fattore naturale non imputabile idoneo a generare l’evento dannoso, caratterizzato da un c.d. distress respiratorio da deficit di surfattante del quale era affetta la neonata: problema che non era stato considerato dai Giudici di primo grado.

Infine, il Giudice di secondo grado ha respinto la domanda del padre della minore, volta ad ottenere il risarcimento dei danni postnatali, disconoscendo la sua legittimazione contrattuale nei confronti della struttura ospedaliera.

Pertanto, i genitori della bambina danneggiata, in proprio e quali esercenti la potestà sulla figlia minore, hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, affidato a cinque motivi, tra cui il fatto che erroneamente la corte di merito non avesse riconosciuto preponderante rilevanza causale alla condotta negligente dei medici ed il fatto che avesse escluso la legittimazione contrattuale del padre – che in buona sostanza non aveva ottenuto alcun risarcimento pur dovendo far fronte alle costose cure di cui abbisognava la figlia -, “laddove anch’esso deve ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto, nei cui confronti la prestazione è dal medico dovuta”.

SOLUZIONE

[1] [2] La Suprema Corte con la sentenza in commento ha affermato il principio secondo cui “al fattore naturale non imputabile privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, appartenendo a una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto solamente a una delimitazione del quantum del risarcimento.

QUESTIONI

[1] Nella decisione in esame, per la verità alquanto articolata, la Suprema Corte muove dall’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità delle strutture sanitarie, precisando che la struttura risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente:
a) per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura;
b) per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui la struttura si avvale.

In tale ambito, la struttura sanitaria risponde direttamente di tutte quelle ingerenze dannose che al dipendente o al terzo preposto, della cui opera comunque si è avvalsa, sono state rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore/danneggiato, ovvero dei danni che ha arrecato in virtù di quel particolare contatto cui è risultato esposto nei suoi confronti il paziente-creditore.

Sussiste la responsabilità della struttura sanitaria nel caso in cui l’evento dannoso, come nel caso de quo, sia riconducibile alla condotta colposa posta in essere, anche a insaputa della stessa, dal medico, della cui attività essa si è comunque avvalsa per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale (Cass., 27.8.2014, n. 18304).

Ciò posto, gli Ermellini, pronunciandosi su una delle doglianze dei ricorrenti, ribadiscono che la responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, oltre che nei confronti del paziente, è configurabile anche in relazione a quei soggetti terzi cui si estendono gli effetti c.d. protettivi del contratto. E, dunque, anche nei confronti dei prossimi congiunti, come il padre, nel caso di contratto tra la gestante e la struttura sanitaria / medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza (Cass., 11/05/2009, n. 10741; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).

La Suprema Corte era già intervenuta sull’argomento con una precedente sentenza (n. 2675/2018) confermando che, nel caso di diagnosi errata concernente il feto, il risarcimento dei danni spettava non solo alla madre ma anche al padre, e ciò in quanto, tenuto conto dei diritti e dei doveri gravanti su entrambi i genitori in materia di procreazione responsabile, il padre non si poteva certamente ritenere un soggetto terzo ed estraneo rispetto alle conseguenze negative di un’eventuale responsabilità professionale del medico e della struttura sanitaria.

Ne consegue – secondo quanto condivisibilmente affermato dalla sentenza in commento – che il padre rientra tra i soggetti protetti e, quindi, tra quelli per i quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con conseguente legittimazione dello stesso ad ottenere il relativo risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dall’errata condotta medica.

Chiarito anche tale aspetto, i Giudici di legittimità, con la sentenza che si annota, passano a delineare i criteri atti a delimitare la rilevanza giuridica delle conseguenze dannose eziologicamente derivanti dal danno evento costituenti integrazione del rischio specifico posto in essere dalla condotta (dolosa o) colposa del debitore/danneggiante, che a tale stregua solo a carico del medesimo, e non anche sul creditore/danneggiato, devono gravare.

Se ci si trova in presenza di danni conseguenza, come ad esempio l’aggravamento di una patologia o la morte del paziente, costituenti effetto delle eccezionali condizioni personali del danneggiato (es. emofilia, cardiopatia, allergia rara, etc.) ovvero effetto del fatto successivo del terzo e in particolare del medico (es. cura errata, errato intervento medico, etc), non può – secondo gli Ermellini – ridursi o escludere il relativo risarcimento in favore della vittima.

Infatti, il danneggiato comunque subisce gli effetti di un antecedente causale che è stato determinato da condotta colposa o dolosa da parte del debitore / danneggiante, il quale pertanto, non potrà che essere tenuto al risarcimento.

Dopodiché la Corte viene ad occuparsi (rectius: torna ad occuparsi) del diverso e delicato tema della sussistenza di un pregresso fattore naturale, elevabile a causa del danno, il quale non abbia connessioni con la condotta colposa altrui.

In questi casi sorge il problema di stabilire se il medico che abbia causato l’aggravamento debba rispondere dell’intero danno patito dal paziente ovvero solo della quota ideale di danno a lui teoricamente ascrivibile.

Nella sentenza che si annota la Corte afferma che “allorquando un pregresso fattore naturale non imputabile venga individuato quale antecedente che, pur privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, sia dotato di efficacia con-causale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, ad esso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione della struttura dell’illecito, e in particolare dell’elemento del nesso di causalità tra tale condotta e l’evento dannoso, appartenendo a una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario”.

A quest’elemento, secondo la Suprema Corte, può assegnarsi rilevanza unicamente “sul piano della determinazione equitativa del danno, e conseguentemente pervenirsi alla delimitazione del quantum del risarcimento dovuto dal responsabile”, sulla base “di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto”.

La Suprema Corte si era già occupata del tema del concorso tra causa umana e causa naturale nella produzione del danno, da ultimo, con le sentenze 29.02.2016, n. 3893 e 21.08.2018, n. 20829, ivi affermando che la considerazione delle concause naturali può avvenire solo in sede di determinazione dell’ambito del danno risarcibile e giammai riguarda gli stati di vulnerabilità della vittima, con ciò prendendo ancora una volta le distanze dal proprio arresto del 16.01.2009, n. 975.

Con tale sentenza, la Suprema Corte affermava che, qualora la produzione di un evento dannoso (es. la morte del paziente) fosse riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale, rappresentato dalla patologia del paziente deceduto, il giudice dovrebbe procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause, onde attribuire all’autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale.

Tale orientamento è stato, però, esplicitamente e definitivamente superato da un diverso e più sofisticato orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., 21.07.2011, n. 15991, a sua volta ripreso da Cass. civ., 3893/2016 e 20829/2018), che si rifà alla distinzione tra causalità materiale e giuridica e che muove dalla premessa che il danneggiante non deve rispondere di danni da lui non causati.

Pertanto, qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno, indipendentemente dal comportamento del medesimo, l’autore dell’azione o dell’omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni  non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.

Quest’ultimo orientamento è quello cui ha aderito la sentenza in commento, la quale ha affermato che al fattore naturale può assegnarsi rilevanza unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, e conseguentemente si perviene – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto – alla delimitazione del quantum del risarcimento dovuto dal responsabile.

Ne deriva che solo all’esito dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra condotta dei sanitari ed il danno evento lesivo, la considerazione del pregresso stato patologico del danneggiato può condurre ad una limitazione dell’ammontare dovuto dal danneggiante: in relazione alla delimitazione dell’ambito del danno risarcibile, va escluso che possa operarsi una automatica riduzione dell’ammontare risarcitorio dovuto alla vittima/danneggiato in proporzione del corrispondente grado percentuale di incidenza causale, ma il giudice deve, piuttosto, procedere ad una valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., ben potendo risarcire il danno in base ad una percentuale diversa da quella di ravvisata incidenza causale della condotta o del fatto.

Nel caso di specie, la Corte di merito ha però disatteso i suindicati principi.

Infatti, riscontrata la presenza di un fattore naturale (patologia delle membrane ialine) idoneo a generare le gravissime compromissioni alla nascita, la Corte d’Appello ha escluso che siffatta causa naturale avesse assunto efficacia determinante, sì da escludere il nesso di causalità materiale tra la condotta omissiva dei sanitari ed il danno.

Tuttavia, ha assegnato alla causa naturale una incidenza in misura preponderante sul danno, riconducendo il danno nella misura di due terzi alla causa naturale e il rimanente terzo alla condotta colposa dei sanitari dell’ospedale; in relazione alla quantificazione dei danni risarcibili, la sentenza impugnata ha ridotto l’importo complessivamente determinato di due terzi, in ragione dell’accertata incidenza del fattore naturale non imputabile ai sanitari.

Ne deriva che la sentenza impugnata, nella determinazione del quantum risarcitorio dovuto dai danneggianti, ha operato una decurtazione in termini di automatica corrispondenza con la ravvisata percentuale incidenza causale nella determinazione del danno del fattore naturale non imputabile, senza procedere ad alcuna valutazione di tipo equitativo.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione, con l’annotata sentenza, ha accolto il ricorso, cassando l’impugnata sentenza e rinviando alla Corte d’Appello di Caltanissetta in diversa composizione.